Ma come, Wall Street si schianta letteralmente al suolo, trascinata da Apple e le Borse europee aprono tutte in positivo la mattina dopo, come se nulla fosse successo? E poi, Tokyo chiude a -2,5%, mentre gli indici cinesi svettano? Cosa diavolo succede anche in Asia? Quello che vi dico da giorni: si campa sugli annunci, in attesa che qualcuno fra i due grandi player rompa gli indugi e pronunci il fatidico proclama di ritorno alla stamperia, causa recessione globale. Che, ovviamente, è sempre dovuta a fattori esterni: ovvero, per colpe altrui. Di fatto, invece, innescata volutamente dalla più stupida, inutile, ma proprio per questo strategica, delle guerre commerciali, quella fra Usa e Cina.
Ci credete adesso o avete bisogno di ulteriori prove riguardo alla natura artefatta e criminogena dell’intera operazione? O magari pensate davvero che Trump lo abbia fatto in nome degli operai della Pennsylvania e del Mid-West? E cosa, infatti, ha messo le ali agli indici del Dragone e a quelli europei ieri mattina? Proprio le ennesime voci di ripresa dei colloqui in grande stile fra Pechino e Washington, unite al tentativo di mediazione sempre più concreto per raggiungere un compromesso che porti al termine dello shutdown federale negli Usa. Tutte pantomime ma sufficienti. Et voilà, la paura – tutta strumentale – per Apple è finita. Sapete quanto ha perso la Banca centrale svizzera negli ultimi tre mesi a causa delle sue detenzioni record di titoli dell’azienda di Cupertino? Più di 1,4 miliardi di dollari. Scossoni? Franco sull’ottovolante? Panico nei Cantoni? Zero. Gli svizzeri sono più pragmatici nel loro rapporto con la Borsa e con il denaro, sanno quando c’è da allarmarsi veramente. E stanti le condizioni di mercato post-2008, ovvero tutto in mano alle Banche centrali, tutto mosso dal motore immobile della pianificazione monetaria, sono consci che tutto sia sulla strada giusta per tornare al vecchio, caro regime del denaro a costo zero e dell’emergenzialità normalizzata che garantisce profitti d’oro.
L’economia reale patisce e continuerà a patire? Non è un problema delle Banche centrali, loro sono focalizzate su altro. Anzi, più si precarizza, più si rende il lavoro un miraggio, più si tramutano i diritti acquisiti in concessioni quasi imperiali, più l’esercito dei nuovi schiavi accetterà condizioni estreme. Tanto, quando la corda sarà tirata all’estremo e arriverà sul punto di rompersi, ecco l’opzione sovranista-populista, il miraggio del voto come prospettiva di riscatto, l’illusione del suffragio universale e della volontà popolare. Esattamente come tanti Fantozzi che si fanno irretire dal ragionier Folagra di turno, la pecora nera della megaditta che instrada il personaggio impersonato da Paolo Villaggio verso il marxismo più estremo. Il quale, cosa farà, una volta acquisita una coscienza di classe? Un’idiozia simbolica, tirare un sasso alla finestra dell’azienda. Facendosi beccare e, poi redento, facendosi riassumere. Accettando, oltretutto, la mansione di parafulmine, il livello più infimo della scala gerarchica della società in sedicesimi rappresentata dalla megaditta.
Pensate che votare Trump o M5S o tifare per i “Gilet gialli” sia strategicamente più intelligente o incisivo a livello pratico di cambiamento? Guardate in faccia la realtà, guardate quelle opzioni, finora, chi hanno favorito e chi penalizzato. Poi mi dite. Ma sapete davvero cosa ha portato all’inversione di tendenza europea e cinese di ieri mattina, all’ennesimo grande sospiro di sollievo? Questo, ovvero la conferma di tutto quanto vi ho detto finora e negli ultimi trimestri, mentre quelli con grandi titoli accademici facevano l’apologia della ripresa e del boom economico: se infatti stando al segnale implicito del mercato euro-dollaro, le possibilità di un taglio dei tassi da parte della Fed già nella riunione di marzo sono al 7% dallo zero assoluto registrato fino a metà ottobre scorso, per i futures dei Fed Funds, quella percentuale già oggi è addirittura al 30%.
Signori, taglio dei tassi. Cosa significa? Che il mercato, ovviamente, gode. E spera. Ma anche, in termini pratici (se ancora si possono utilizzare nel mondo degli unicorni) che la recessione non è più probabile a inizio 2020, ma è conclamata e certa in arrivo già quest’anno. E, in Europa, temo molto presto, prima dell’estate. Guarda caso, a ridosso delle elezioni europee. Sapete il rendimento del Bund a quanto era a fine giornata di contrattazioni del 2 gennaio? A 15 punti base, il minimo da due anni. E avete visto l’oro dove è schizzato? E la richiesta di obbligazioni sovrane giapponesi? In questo ultimo caso, siamo addirittura al paradosso della mancanza di offerta, visto che fino a due settimane fa l’unico acquirente di quella carta fosse la Bank of Japan, la quale con i suoi acquisti onnivori aveva spinto praticamente a zero il trading sul debito nipponico. Ora lo vogliono tutti. E, proprio il combinato di crisi di Apple e rinnovata speranza (quindi, minor ricerca sul brevissimo termine, di beni rifugio), ha spinto al ribasso Tokyo ieri mattina, in controtendenza con gli indici cinesi. Non a caso, lo spread italiano è salito. Ma, in questo caso, unicamente per la dinamica di ultra-acquisto sul Bund.
E se quella dinamica si inasprisse, senza più la leva di una trattativa con l’Ue a fare da compressore e controbilanciamento del differenziale? Tranquilli, c’è la Bce. In caso si andasse fuori giri, senza dire niente a nessuno, senza annunci roboanti, Francoforte opererà sulle scadenze in modo tale da inviare un segnale chiaro a chi di dovere: noi siamo ancora qui. E chi attacca quel debito, attacca l’Eurotower. Quindi, si suicida, almeno fino all’estate. Tanto più che ormai Mario Draghi può contare su due armi. Primo, i nove mesi che mancano alla scadenza del suo mandato sono, di fatto, già “coperti” e ipotecati a livello politico. Fino a giugno avrà mano libera, perché la Commissione sarà di fatto in campagna elettorale e poi, comunque, i tassi sono già stati certificati come inamovibili al rialzo fino alla fine dell’estate. Dopodiché, si arrangi chi arriva al suo posto, Mr. Whatever it takes tornerà in patria da eroe. Secondo, la Germania in contrazione economica ha messo la mordacchia alle critiche della Bundesbank e alla sua fronda interna al board in combutta con i “falchi” del Nord, mentre l’idea stessa che il mercato prezzi l’imponderabile come possibile, ovvero un rialzo a tempo di record dei tassi da parte della Fed, equivale a un assist a porta vuota, un pallone solo da spingere in porta per il titolare della Banca centrale europea. Uniteci il potenziale caos in sede Ue se, per caso, fra poco più di una settimana Westminster dovesse bocciare il piano May e spalancare le porte a un’uscita No deal o alle più probabili elezioni anticipate nel Regno Unito e noterete come tutto sembri concertare in favore di un’azione ad ampio spettro per Draghi, in caso di necessità.
E quale può essere la necessità, l’incognita che fa saltare il banco? Il fatto che, in ossequio alla missione da capro espiatorio che l’establishment ha dato a Trump, spedendolo a tal fine alla Casa Bianca, il caos attuale non sia ancora sufficiente. Ovvero, il fatto che non si voglia solo arrivare alla riattivazione delle politiche di stimolo a livello globale, primo test del più grande esperimento di Qe perenne ed helicopter money che le consorterie finanziarie che contano davvero hanno in mente, ma terrorizzare letteralmente le opinioni pubbliche. Il tutto, per unire alla finalità economico-finanziaria quella, paradossalmente più importante e di più lungo termine, del controllo sociale con altri mezzi che non siano quelli delle dittature militari o degli stati di polizia.
L’esplosione dei social network e la normalizzazione del loro strapotere in ambito politico di questi ultimi anni è stata la grande prova generale. Superata a pieni voti, visto chi è finito alla Casa Bianca. Per arrivare allo scopo finale, ovvero alla disintegrazione del populismo a furor di popolo e al ritorno in grande stile delle élites riconosciute come salvatori responsabili del mondo e portatrici di una rinnovata verginità, occorre che qualcosa di enorme, di ritenuto intangibile dai marosi, venga spazzato via. Una Lehman Brothers all’ennesima potenza. O un altro 11 settembre. La speranza è che non si arrivi a tanto, ma che sia sufficiente scatenare una crisi globale con anticipo di recessione, tale da accompagnare gli Usa verso l’appuntamento elettorale del 2020 in un clima da 1929, tale da poter plasmare l’opinione pubblica a piacimento dell’establishment e dei suoi conglomerati di potere (dal Deep State al comparto bellico industriale, dai giganti tech ai media tradizionali), proprio come un demiurgo plasma la kora.
Paradossalmente, un altro 2008-2009 è quanto dobbiamo sperare di dover vivere. Perché potrebbe anche andarci peggio, soprattutto alla luce della natura sempre più da vaso di coccio fra vasi di ferro dell’Europa. Il vero caos, il paradiso delle anime nere e dei cavalieri di ventura inizia ora, in prospettiva del voto fondamentale di fine maggio. Sarà più simbolico che oggettivo, più quasi metafisico che pratico, ma segnerà un confine spartiacque, sarà il classico solco tracciato dall’aratro politico che poi, però, occorrerà difendere con la spada della finanza e delle nuove guerre, a bassa intensità e asimmetriche. Cina e Usa stanno preparando il teatro per la battaglia finale, quella che deciderà chi detterà le regole per i prossimi 50 anni. In mare, in aria, nei ghiacci, nei deserti, nello spazio come abbiamo visto l’altro giorno, sulla Rete, persino sotto la nostra pelle, con i microchip come già accade in Svezia. E sul mercato, ovviamente.
Scordatevi di Apple, non è quello il problema. È la natura intrinseca dello scontro in atto che non riusciamo a cogliere, è la posta in palio che sfugge alla percezione dell’opinione pubblica. Sintomo che la strategia dei poteri reali sta funzionando alla perfezione. Tutti daranno la colpa a Trump, se la situazione sui mercati peggiorasse ancora, non capendo che il suo ruolo era proprio quello di guastatore per conto terzi. E se non si capisce questo, si può anche prendere la scheda elettorale e buttarla nell’immondizia. Perché non saremo mai capaci di votare realmente in base ai nostri interessi, solo in base a percezioni e riflessi condizionati. Proprio come i cani di Pavlov.