Sarebbe stato singolare che attorno alla Carige commissariata dalla Bce non venisse steso un cordone di sicurezza da parte del Governo italiano. Il rischio per la stabilità dei depositi era troppo elevato e – presumibilmente – qualche nervosismo agli sportelli si è manifestato già nel primo lunedì dopo le feste. Di qui un Consiglio dei ministri d’urgenza che ha peraltro assunto decisioni scontate riguardo le garanzie pubbliche per i depositanti e l’ipotesi di una ricapitalizzazione precauzionale da parte del Tesoro. Un cliché ampiamente sperimentato in recenti dissesti bancari – anzitutto Mps – a protezione dei risparmiatori e della solidità del sistema creditizio nel suo complesso.



È emersa in termini abbastanza scontati anche la polemica politica subito divampata: laddove i protagonisti hanno tradito lo stesso nervosismo affannato dei correntisti Carige. L’ex premier Renzi e l’ex ministro Boschi hanno immediatamente accusato il Governo gialloverde di falso: avrebbe promesso di non sborsare più un euro per salvare le banche nazionali e si ritroverebbe a copiare l’esecutivo di centrosinistra. L’argomento è subito apparso debole e strumentale, ai limiti dell’autolesionismo.



Il commissariamento Carige – maturato all’inizio del 2019 – non alleggerisce minimamente la gravità del collasso di Banca Etruria & C, già a fine 2015; o del salvataggio delle Popolari Venete da parte di Intesa Sanpaolo (anche a spese del contribuente) o della rinazionalizzazione di Mps. E quella della Cassa genovese è assai più l’ultima crisi bancaria di una stagione politico-finanziaria iniziata a fine 2011 e conclusasi con il voto 2018 che la prima dell’era gialloverde. Di più: “lo spazio/tempo politico” del dissesto ligure è parente stretto del centrosinistra come quelli toscani e ha poco a che vedere con M5S e Lega (quest’ultima contigua – ma solo in parte – con i crac delle Popolari venete).



Il caso Carige non trasforma la crisi bancaria in “mal comune” fra Pd e coalizione gialloverde. Semmai – al contrario di quanto sostiene Renzi – è stato il contratto di governo fra Salvini e Di Maio a prospettare il ritorno dello Stato nel settore bancario (ad esempio, collegando Cdp con Mps): ipotesi criticatissima da un centrosinistra fedele – a parole – al verbo liberista, ma poi pronto a salvare a piè di lista gli obbligazionisti Etruria. Non va infine dimenticato che è stato il Pd renziano al governo a imporre una controversa commissione d’inchiesta sulla crisi bancaria nazionale alla fine della scorsa legislatura: perché un nuovo dissesto pochi mesi dopo che un’investigazione parlamentare voluta dalla maggioranza di centrosinistra ha fatto teoricamente piena luce sulla situazione e suggerito opportuni rimedi?

La reazione di Renzi suggerisce peraltro altre riflessioni. Se c’è un denominatore comune fra la risoluzione di Banca Etruria e il faticoso “fallimento pilotato” di Carige è il rapporto problematico fra Governo e autorità di vigilanza. Nel novembre di tre anni fa l’esecutivo Renzi-Boschi “strappò” sulla banca aretina (e sue altre tre banche locali) tenendo ai margini la Banca d’Italia, responsabile della vigilanza nazionale e corresponsabile della Bce nella supervisione europea. Il premier ha poi accusato il governatore Visco di averlo tradito: nei fatti Renzi diffidava dei banchieri centrali (soprattutto di Draghi) e il Mef di Padoan non ha mai avuto ruolo reale nel suggerire o nel mediare. È stato così che un altro consiglio dei ministri d’urgenza (una domenica sera) ha deciso quattro “risoluzioni” che non sono state affatto “risolutive”, anzi. Quello che doveva risultare un percorso ordinato – con l’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi nelle ricapitalizzazioni – è stato fin dal primo giorno un percorso di guerra: fra risparmiatori suicidi e vigilanza Bce (a guida francese) da allora sempre zelante e rigida con le banche italiane. Ma chi aveva deciso davanti ai mercati che le banche italiane “fallivano” (come quelle greche o spagnole, mai francesi o tedesche) era stato lo stesso Governo italiano.

Su Carige, negli ultimi giorni, uno stesso “non coordinamento” fra Governo e authority è sembrato andare in scena a parti invertite. Chi ha “strappato” – in modo parzialmente inatteso – è stata la Bce: con l’italiano Andrea Enria al suo primissimo giorno di incarico come capo del consiglio di supervisione di Francoforte, dopo aver guidato per sette anni l’Eba, prima agenzia di vigilanza bancaria Ue. Anche in questo caso è spiccato lo “zelo” della Bce: forse dettato dal fatto che un tecnocrate italiano neo-incaricato (e per un altro anno sotto la responsabilità di un altro italiano alla guida Bce) non poteva mostrare la minima tolleranza, anzi doveva dimostrare la sua inflessibilità nella sua prima ora di servizio, la mattina del 2 gennaio.

Le domande però restano: chi sapeva cosa, a Capodanno, fra il premier Conte, i due vicepremier, il ministro Tria, il governatore? C’è stata comunicazione fra gli interlocutori istituzionali, se non fra quelli ultimi di questa vicenda: Draghi da una parte, Salvini e Di Maio dall’altra? In ogni caso Enria ha tirato diritto. E chissà se nel pomeriggio del 2 gennaio, sbrigata la pratica Carige, ha aperto il dossier Deutsche Bank: se ha chiesto informazioni al governo Merkel, alla vigilanza nazionale tedesca Bafin, alla Bundesbank. E cosa gli hanno risposto.

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