La notizia — oggettivamente una buona notizia — è che il governo dell’Europa torna nelle mani della politica. Il progetto di sviluppo di un “bilancio dell’eurozona” come strumento innovativo di gestione della politica finanziaria dell’Ue-19 a partire dal 2021 verrà presentato oggi: non dalla Commissione di Bruxelles — da tecnocrati screditati e in scadenza di mandato —, ma dai due ministri delle Finanze in carica di Germania e Francia. Le attese sono per una condivisione di massima, all’interno dell’Eurogruppo, dello schema lanciato dal presidente Macron e sottoscritto dopo una lunga riflessione dalla cancelliera Merkel.



Metodo e merito del progetto sono semplici e noti da tempo. Alla sopravvivenza dell’euro — con squilibri minori rispetto a quelli registrati nei primi vent’anni e in particolare dopo il 2008 — è da sempre considerato necessario l’avvio di una politica comune di bilancio: con organi e regole che diano concretezza ai principi del “fiscal compact” e completino l’unione monetaria e quella bancaria.



È evidente la ragione per la quale tutto, finora, è rimasto sulla carta: un “budget Ue” nella mani di un “ministro delle finanze Ue” segnerebbe un passo in avanti nella cessione di sovranità nazionale a istituzioni sovranazionali. Nell’Europa sempre più caotica degli ultimi anni, sono stati anzitutto i Paesi-leader a esprimere crescenti cautele verso l’apertura di fasi nuove nel progetto comunitario. E non è certamente un caso se uno sblocco — almeno di principio — maturi in questo momento da parte di Parigi e Berlino.

Esattamente come trent’anni fa Helmut Kohl diede via libera all’euro preteso da François Mitterrand come pegno per la riunificazione tedesca, oggi Francia e Germania esercitano in modo attivo la loro centralità nel reticolo geopolitico dei rischi e delle opportunità. Con meno forza apparente rispetto agli anni 90, ma con eguale determinazione l’asse renano ritorna attivo: si difende contrattaccando.



Pochi giorni dopo aver strappato a Londra una bozza di accordo-Brexit e aver imposto a Roma una lettera di dissenso formale sul rispetto dei parametri di Maastricht, Macron e Merkel rilanciano formalmente il progetto euro (il progetto europeo complessivo…) riaffermando più che simbolicamente la stabilità sostenibile dei conti pubblici come pilastro della civiltà politico-economica Ue. L’Europa carolingia apre a “manovre di bilancio” a beneficio dello sviluppo — o di gestione di crisi — nell’eurozona, ma pretende da parte dei paesi aderenti un rispetto concreto dei parametri concordati. Che forse potranno essere ridiscussi rispetto a quelli fissati nel 1992, forse potranno essere affiancati da standard speciali per possibili fasi di transizione (ieri sera il capo-negoziatore Ue per Brexit, Barnier, ha rapidamente aperto a uno posticipo biennale al 2022 per il protocollo che Theresa May sta difendendo con i denti a Londra). Ma nessuno potrà mettere in discussione lo “stato di diritto” europeo: le regole in vigore vanno sempre rispettate.

Una volta che la Gran Bretagna ha formalizzato — politicamente e diplomaticamente — la propria uscita dalle “regole europee”, la sfida è posta soprattutto all’Italia. E stavolta non sono più figure posticce come Juncker o Moscovici — o lo stesso presidente austriaco di turno della Ue, Kurz — a strillare contro Roma sull’ipotesi più o meno realistiche di “procedura d’infrazione” sulla manovra 2019. Da domani la questione assume massimo livello politico: sono i governi di Francia e Germania a chiedere al terzo governo fondatore dell’Europa moderna se vuole o no restare dentro il progetto originariamente firmato a Roma. Da domani la “risposta all’Europa” — ben diversa dall’ennesima lettera inviata dal ministro Tria a Bruxelles sul budget italiano — diventa il dossier prioritario, forse unico per il Governo italiano.

È una partita certamente immersa nella transizione politica che l’Europa sta conoscendo, cioè nella campagna elettorale per il rinnovo dell’europarlamento del maggio 2019, sempre più accesa fra populisti-sovranisti e legittimisti europei. Domani, anzitutto, il progetto “budget eurozona” sarà sul tavolo dell’Eurogruppo mentre in Francia le piazze sono ancora calde per la protesta dei “giubbetti gialli”. E mentre in Germania impazza il toto-successione alla Merkel nella guida della Cdu. Per Macron e per Merkel — che a cent’anni dalla fine della grande guerra hanno manifestato un consenso congiunto alla creazione di un esercito europeo — rilanciare dentro l’Europa e fuori (verso gli Usa e la Russia) è sicuramente fondamentale per il momento della propria leadership personale e per il futuro delle forze politiche che rappresentano.

In Italia, intanto, si fanno più forti le tensioni fra i due partner di governo: con M5s molto più arroccato della Lega sull’orientamento “ribellistico” all’Europa, sostanziato nella richiesta di flessibilità di bilancio per finanziare il “reddito di cittadinanza”. E in questa congiuntura politica sembra ancora più difficile per il governo giallo-verde articolare seriamente una risposta dialettica con quella franco-tedesca.

Stavolta è fra l’altro più difficile accusare il pressing europeo di un “complotto anti-italiano” come nel 2011: anche se lo spread sale, se l’instabilità libica è sempre sullo scacchiere (e la crisi-migranti ne è in parte appendice) e se Draghi è sempre sull’uscio Bce (non più in entrata, ma in uscita).

Sette anni fa lo sbocco dell’impasse fu un Governo tecnico-istituzionale. Nell’Italia di fine 2018 l’opzione appare assai meno probabile. Ma non è diversa la necessità che il Governo italiano esprima un profilo politico forte: come sarebbe stato necessario all’esecutivo Berlusconi, nell’estate 2011 e non avvenne. Il Cavaliere preferì, allora, abdicare al suo ruolo di premier del Paese, peccando un’ultima volta di conflitto d’interesse. Oggi Matteo Salvini, soprattutto, sembra avere davanti a sé un bivio: o restare un “giocatore elettorale” o diventare per davvero premier del Paese che deve dare una risposta politica all’Europa degna di quella di Alcide De Gasperi diede a nome della nuova Repubblica italiana alla fine della “Seconda Guerra dei Trent’anni”.

Un avventuriero scommette il suo ruolo di co-premier nella prospettiva di un risultato elettorale effimero come quello del Pd di Renzi nel 2014. Uno statista (un premier “in pectore” oppure anche vero, dopo elezioni anticipate) non gioca con il futuro del Paese, ma lo negozia facendo valere al massimo la forza reale del Paese stesso. E le proprie capacità politiche: dimostrando una volta per tutte di possederle.