Time-out, Giuseppe Conte chiede tempo. Lo chiede Giovanni Tria. Ne hanno bisogno anche Luigi Di Maio e Matteo Salvini, anche se continuano a sbraitare: “La manovra non si tocca”. Il tempo è scaduto, invece, per Paolo Savona, tentato dalle dimissioni e convinto che bisogna cambiare la manovra se non tutto il Governo. Ha perso la pazienza Giancarlo Giorgetti, il quale non ne può più di “questi matti”, cioè i pentastellati, che ne inventano più di una al giorno: allarmato dai sondaggi che vedono un Salvini ancora in ascesa, Di Maio ha annunciato la stampa di 6 milioni di tessere per un reddito di cittadinanza che ancora non si sa a chi vada, quando e a quanto ammonti davvero. Lasciando tutti a bocca aperta.



La Commissione europea, al di là degli strepiti e delle lettere (che non sono poi letterine ma piuttosto lunghe e dettagliate analisi della politica fiscale giallo-verde) è disposta a concedere ancora un po’ di tempo, almeno fino al 22 gennaio quando i capi di stato e di governo diranno l’ultima parola. Molto meno duttili sembrano i governi fiscalmente duri e puri come l’Olanda e l’Austria. Ma l’ultima parola, quella che pesa davvero, spetta come sempre alla Germania e alla Francia. E finora né Berlino, né Parigi hanno scoperto le carte.



Esistono o no i margini per temporeggiare? Tria ha in mente, scrive la Repubblica, un maxi-emendamento che sposti il reddito di cittadinanza e le pensioni alla seconda metà dell’anno e metta mano al fondo di 14 miliardi riducendo la componente assistenziale per recuperare risorse da destinare a sconti fiscali per le imprese e un rilancio di industria 4.0, il pacchetto di incentivi agli investimenti introdotto da Carlo Calenda che ha avuto un notevole successo. Tutto questo senza toccare il deficit al 2,4% del Pil, diventato ormai un totem più politico che economico. Va aggiunto poi l’impegno alle privatizzazioni e quello, più ravvicinato, a considerare il disavanzo un tetto da non sfondare non un pavimento dal quale partire, come temono l’Ue, il Fmi, l’Ocse e in fondo la stessa Banca d’Italia.



Questa rimodulazione all’interno dei “paletti” già votati dal Parlamento non è tale da accontentare la Commissione Ue, tuttavia può offrire un contenuto concreto alla manovra dilatoria di Conte: spostare le sanzioni all’estate (al Consiglio europeo del 22 luglio) e la correzione dei conti alla Legge di bilancio per il 2020 da presentare in autunno. La tattica da Quinto Fabio Massimo ha un senso, tuttavia Annibale non è più solo alle porte, ha ormai superato le mura di Roma. L’aumento dello spread ha già eroso la ricchezza e il reddito degli italiani, come mostra il Rapporto sulla stabilità finanziaria, la congiuntura non volge al bello tanto che le previsioni di crescita per l’Italia ormai ruotano più o meno tutte attorno all’1% e l’1,5% previsto dal Governo s’allontana. Ma il vero allarme viene dal fallimento del Btp Italia (appena 2 miliardi sugli 8-10 attesi). Questa volta non si può gettare la colpa sui lupi di Wall Street, a non comprare sono stati i piccoli risparmiatori italiani. Sono le Assicurazioni Generali che hanno in portafoglio la quota di titoli di stato più grande a dire che ridurranno la loro esposizione. Ciò proietta una terribile incognita su un anno in cui l’Italia deve emettere titoli per 400 miliardi.

Oggi più che mai la partita è politica. La Commissione Ue è in scadenza, l’idea di protrarre ancora a lungo la trattativa può darle l’impressione di avere il pallino in mano: tutti vanno a Bruxelles e questo crea un’immagine di potenza del tutto irrealistica. Conte e Tria hanno cenato con il lussemburghese Jean-Claude Juncker e con il lettone Valdis Dombrovskis, numero uno e numero due della Commissione. Si presentano come i poliziotti buoni del Governo italiano e del “Governo” europeo, in realtà non sono loro a decidere. E non saranno nemmeno (non soltanto) Di Maio e Salvini, perché toccherà ancora una volta alla Germania e la Francia. Il paradosso è che sia la Cancelliera, sia il Presidente oggi sono deboli e assediati.

Angela Merkel potrebbe indossare di nuovo la maschera della grande mamma (la chiamavano Mutti quando sembrava invincibile) su scala europea, per chiudere in bellezza. Ma la pressione interna, dalla destra della sua coalizione e del suo partito o dalla AfD che le strappa consensi sul proprio terreno elettorale, la spinge verso l’intransigenza costi quel che costi, anche l’espulsione dell’Italia dal club dei fondatori. Vedremo se e come saprà resistere. Il dilemma di Emmanuel Macron è anche più complicato. Deve fare il volto dell’arme contro i populisti italiani per stoppare i populisti francesi (ci si sono messi adesso anche gli automobilisti con i loro gilet gialli). Vuole rilanciare l’Unione attorno all’asse con la Germania, ma sa che mollare l’Italia riduce il ruolo di arbitro che hanno sempre giocato i migliori presidenti francesi (per esempio Mitterrand o Chirac, non Sarkozy). La sua indole lo spinge a mordere il freno, gli interessi nazionali consigliano prudenza.

In questa fase di negoziato a muso duro, tutti, in Italia come nel resto d’Europa, la spareranno grossa per evitare l’accusa di cedimento. Le elezioni di maggio incalzano e gli attori principali studiano ancora la parte. All’Ecofin fra una settimana avremo le prime avvisaglie, ma le carte verranno distribuite dopo l’Epifania. Passate le feste gabbato lo santo.

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