L’avvertimento di Goldman Sachs sulla recessione dell’Italia ieri ha conquistato le prime pagine con i timori sulla “recessione in Italia”, il confronto/scontro tra Italia e Commissione europea e i mercati che potrebbero punire ulteriormente l’Italia. Vorremmo parlare di economia, ma sarebbe il caso di parlare del giornalismo italiano. Parliamo di economia. Che lo scontro tra l’Italia e la sua banca centrale non faccia bene allo spread è un’ovvietà. Che l’Italia stia andando in recessione è un’evidenza. Che il problema sia il rallentamento globale, il protezionismo, le scorie mai smaltite della crisi Lehman una banalità che però, non si capisce come, non riesce a passare le Alpi. Che i mercati facciano due più due e decidano di vendere il debito di un Paese che rallenta, che litiga con la sua banca centrale e con una Commissione che ha soffiato e soffia sul fuoco della speculazione è una conclusione della cui intelligenza nessuno si dovrebbe vantare.



Quindi veniamo alla questione. Se l’Italia facesse l’1,6% di deficit si risolverebbe il suo problema “economico”, la performance dei Btp, oppure calerebbe lo spread? Assolutamente no. Il problema economico italiano del 2018 è il rallentamento globale che sta pesando sulle esportazioni in un contesto di domanda privata e investimenti pubblici al lumicino. Il calo dello spread, come conseguenza di un accordo con la Commissione europea, darebbe, al massimo, un sollievo piccolo e temporaneo, ma i problemi veri rimarrebbero tutti sul tappeto. La questione vera è come rispondere al calo del commercio globale e al protezionismo in un sistema, l’Unione Europea, che da due decenni si è legato mani e piedi alle esportazioni e che ha costruito una serie di vincoli e parametri che impediscono qualsiasi politica economica di ampio respiro e qualsiasi flessibilità che non sia il calo dei salari. E i cui limiti emergono soprattutto in fase di stress finanziario o rallentamento globale.



Oggi proporre il taglio del deficit come soluzione è una chimera perché le riforme strutturali di settembre 2018, necessarie soprattutto nella “carne” della burocrazia e della Pa, avrebbero effetti tra dodici mesi mentre il problema è molto ma molto più urgente. L’Italia e con essa l’Europa può affrontare la crisi che sta arrivando solo ignorando le regole europee e solo con deficit per stimolare investimenti e domanda interna. Le “riforme strutturali” sono importanti, ma da sole non sono una risposta “attuale”. Vale l’obiezione che alcuni gilet gialli facevano alle tasse “ecologiche” di Macron: cosa ci importa di salvare il pianeta tra cinquanta anni se non arriviamo alla fine del mese?



La questione europea è emersa in tutta la sua evidenza lo scorso weekend a Parigi. Le tasse “ecologiche” di Macron non sono altro che parte del pacchetto del deficit al 2,8% in una nazione che ha mascherato benissimo le proprie magagne, ma che ha una disoccupazione doppia rispetto a quella del 2008 e che nonostante le colonie, extra o intra europee, non riesce a rispettare certi vincoli senza far saltare la sua società. Così un presidente eletto solo come argine al populismo, senza consenso, non riesce a “imporre” nemmeno un’austerity in dosi da aspirina senza causare scontri sociali.

Ieri un organo orgogliosamente sovranista come Bloomberg ci spiegava che forse il problema dell’Europa non è né l’Italia del deficit al 2,4%, né la Gran Bretagna della Brexit ma la Francia. Così il sito di Le Monde lasciava per qualche ora di fianco alle ultime sui gilet gialli un articolo contro il “pericolo” Salvini. Perché la Francia che più si è impegnata contro il Governo italiano in sede di trattative europee facendo la figura della “responsabile” e solida sui conti oggi è messa a nudo e fa molto più fatica a bastonare gli italiani dal “basso” di una Parigi devastata. Per questo articoli come quelli apparsi su Bloomberg e poi ripresi da blog popolarissimi come Zerohedge sono una pessima notizia per la Francia e rompono una narrazione, l’Italia unico male d’Europa, che ha fatto comodo a tanti.

Ieri i gilet gialli chiedevano il proporzionale quando per anni in Italia abbiamo dovuto sorbirci le lodi sulla “governabilità” del sistema francese, mentre Le Maire chiedeva meno tasse e più spesa pubblica; meno tasse e più spesa, ovviamente, rispetto al 2,8% promesso alla Commissione europea che alla prova dei fatti è insostenibile. Sulla carrozza delle pensioni, del salario minimo e della spesa pubblica salivano anche Marine Le Pen e Mélenchon, lasciando solissimo Macron con il suo patto con la Germania.

In Italia la questione francese sparisce in qualche ora e la motivazione è chiara. Quello che succede in Francia è la smentita di una narrazione che ci propinano da sei mesi a tutto spiano e a fasi alterne dal 2011, ma in realtà da una generazione, e cioè che l’Europa è perfetta ed è la panacea di tutti i mali e che l’Italia è il problema. Che le fortune o le sfortune economiche dell’Italia dipendono dal grado con cui aderisce o meno alla politica economica europea. E quindi si deve insabbiare tutto e della Francia non si deve parlare perché c’è un’intera classe dirigente che su questa narrazione ha costruito i propri successi in molti casi vendendo o svendendo l’Italia; e oggi ancora di più con un governo “populista” che apre una polemica con l’Europa che è sacrosanta, ma che deve continuare a essere dipinta come folle e sbagliata a prescindere, altrimenti verrebbe completamente delegittimato chi per decenni ci ha detto che questa Europa, quella del 3% e del Fiscal compact, era l’unico orizzonte possibile e in nome di questo ci ha inflitto l’austerity del 2012. E questo non ha nulla a che vedere con il contenuto e i provvedimenti, discutibili, con cui si dettaglia quella polemica e con il fatto che si deve porre l’accento sulla spesa buona e che la spending review e la riforma della burocrazia rimangono una necessità.

Oggi Goldman Sachs ci parla di spread e recessione e noi capiamo perfettamente quale scenario si contempli. La realtà dei fatti è che il Fiscal compact e i tetti al 3% sono una follia solo europea e chi li difende oggi o è pazzo, e non capisce cosa succede nel mondo, o è obnubilato dall’ideologia europea, o non può dare nessuna legittimità a un Governo populista per un calcolo politico di cortissimo respiro, oppure ne parla perché si sa che la loro applicazione in Europa avviene su base politica e i momenti di tensione sono perfetti per creare permanenti trasferimenti di ricchezza e sovranità all’interno dell’Europa. Come nel 2012. Se l’Europa non vuole scomparire se li deve dimenticare e noi italiani anche, se non vogliamo immolarci definitivamente sull’altare di un progetto morente e che non si salverà mai senza modifiche sostanziali.

Modifiche che però rompono un consolidato equilibrio con altrettanto consolidati vincenti e perdenti. Dentro l’Europa e dentro l’Italia. Per questo non si deve parlare di gilet gialli in Italia nemmeno se facessero un falò di Parigi.