Prima di parlare del rapporto tra Francia e Africa vorrei svolgere un ragionamento più generale: temo che venga considerato un po’ naif, ma è quello che mi sento di sviluppare ora. La Francia è la seconda economia europea probabilmente perché sfrutta l’Africa. Dopodiché esercita una simile posizione di forza per proporre una cooperazione esclusiva su alcuni progetti con la Germania, gelosa com’è, la Francia, della propria posizione, che rimarca quando organizza tutta tronfia degli incontri a due con Berlino, per collocare sotto i riflettori internazionali la propria presunta superiorità.



A parte il fatto che se l’Unione europea è stata concepita per permettere a taluni di recitare la parte dei primi della classe forse era meglio non crearla, bisogna domandarsi se la Francia meriti davvero di essere considerata la prima della classe (o meglio, la seconda). L’Italia, che non sta sfruttando ex colonie in maniera sfacciata, è già la seconda economia industriale d’Europa dopo la Germania, e non a caso quando Roma prova ad allargarsi “ai danni” – diciamo così – della Francia, come nel caso dei cantieri di Saint Nazaire, Parigi urla, strepita e poi, alla fine, non accetta una simile situazione e fa appello – è notizia di questi giorni – agli arbitri europei. Per i cantieri navali si è esposta insieme con Berlino: non ho seguito la questione, ma non escludo che Parigi, al di là delle ripicche contro l’attuale Governo italiano, ci abbia ripensato, e voglia creare una cooperazione strategica nel settore navale con i tedeschi, e non con gli italiani, sia perché li ritiene alleati più affidabili, sia per tentare una fuga a due ai danni degli altri concorrenti, puntando a un dominio europeo.



E insomma: se la Francia coltiva tuttora un chiaro progetto egemonico sull’Africa, non vedo perché non debba averlo sull’Europa, che è stata da sempre un teatro per le sue mire espansionistiche militari, ora traslate in campo economico, cosa che si dice spesso, e ormai da tempo, a proposito dei tedeschi: ma quello che è vero per i tedeschi è almeno altrettanto vero per i francesi.

La storia, infatti, non si deve guardare solo da 150 anni in qua. Anzi, se vogliamo, è stato la Francia il Paese che, più di altri, più dell’Inghilterra stessa ad esempio, e, ripeto, anche più della Germania che è si è unificata dopo l’Italia, ha cercato un dominio non solo economico e finanziario ma anche militare sul Vecchio continente. Per quanto riguarda l’Italia, diciamo che i francesi hanno iniziato a volgere verso di noi il loro sguardo avido ai tempi di Leonardo: e quando non era un’egemonia militare, o economica, era culturale, con numerosi intellettuali della penisola che si sono visti “francesizzare” il nome una volta diventati protagonisti nei territori d’oltralpe. È la famosa questione dell’assimilazione che si sostituisce all’integrazione, e che rende la Francia molto diversa dagli Stati Uniti.



Secondo alcuni sociologi, infatti, gli Usa sono l’unico dei grandi paesi occidentali dove si è realizzata una buona integrazione. Mi vorrei spingere oltre, a collegare una simile situazione, quella cioè di una mancata integrazione nei territori d’oltralpe associata a un permanente colonialismo, alla presenza di una minaccia terroristica in Francia superiore rispetto al pericolo presente in qualsiasi altro Paese europeo, ma non lo faccio per non risultare cinico (nel senso che spero di sbagliarmi).

Del resto, la Francia è in buona compagnia. Il Regno Unito continua a esercitare una certa influenza nel mondo col Commonwealth, per non parlare dei territori d’oltremare ancora in suo possesso (Falkland in primis), mentre la Spagna incontra le ex colonie ogni anno (chi non ricorda il re Juan Carlos che, rivolgendosi a un petulante Chávez, gli chiede perché non stia zitto?). Ma si tratta – mi pare – di “comunità di stati” dove i rapporti di forza sono molto diversi rispetto a quelli che Parigi intende mantenere nei territori africani del suo ex impero.

L’Italia non ha nulla del genere, e mi chiedo se ciò succeda non solo per il poco spazio temporale in cui Roma governò alcune vaste regioni dell’Africa, ma anche perché, ed è una delle conseguenze di tale esiguità, non ha visto la propria lingua attecchire in quei territori. E insomma, mi chiedo se non sia la lingua dell’ex conquistatore la corrente lungo la quale passa non solo il legame culturale, ma anche quello politico e – perché no? – l’influenza del Paese da cui l’ex colonia non si può dire mai del tutto affrancata.

La lingua, insomma, come strumento di potere. Spesso si parla di monumenti distrutti in giro per il mondo perché testimoni di un’egemonia di cui molti si vogliono sbarazzare anche da un punto di vista simbolico: e non mi sto riferendo solo alla statua del dittatore di turno, al monumento di Saddam Hussein in Iraq dopo la sua disfatta ad esempio, ma anche a quella di Cristoforo Colombo negli Usa, che alcuni, a torto o a ragione, trovano insopportabile. Ebbene, quale monumento maggiore all’egemonia passata di un Paese della sua lingua, lingua che, insegnata nelle scuole delle ex colonie sin dalle primarie, è parlata a tutti i livelli? Una lingua che ha influenzato, e influenza ogni giorno, gli individui che la usano, e che non si possono dire quindi liberi se fanno parte di un popolo prima conquistato e ora indipendente solo in apparenza, ossia negli aspetti materiali, nella migliore delle ipotesi, ma non in quelli più profondi: quelli cioè che, passando attraverso la lingua dell’ex conquistatore, influenzano il pensiero.

Se poi si aggiunge il fatto che la Francia, per varie ragioni, continua a essere la maggiore potenza francofona – al contrario del Regno Unito e della Spagna, che non sono più le maggiori potenze tra i paesi che parlano la loro stessa lingua -, il gioco è fatto, soprattutto se si considera che se questo succede è perché storicamente l’imperialismo francese è forse stato il più vorace, sostenuto da plotoni di funzionari squattrinati e spesso corrotti (al contrario di quelli britannici spesso di estrazione aristocratica), l’imperialismo che ha cercato più di altri di resistere, di mantenere la propria egemonia, perché sviluppato nella zona più debole del pianeta, l’Africa appunto, dove ha sempre incontrato poche resistenze.

Ma torniamo al punto, alla questione dello sfruttamento francese ai danni di 14 paesi africani. Il franco Cfa, il franco delle colonie francesi d’Africa (poi franco della comunità francese dell’Africa), venne ratificato nel 1945 con gli accordi di Bretton Woods. Secondo un paio di fonti, fu imposto da Hitler alla Francia per entrare in possesso di tutte le ricchezze di Parigi nel “continente nero” sin dal 1939. Diciamo che, se fosse così, il franco Cfa non sarebbe nato proprio sotto una buona stella. Sino al 1973 14 paesi africani dovevano lasciare il 100% delle risorse dovute ai traffici internazionali alla Banca di Francia. Dal 1973 al 2005 Parigi ha imposto il 65%. Dal 2005 a oggi il 50%. La Francia si arricchisce anche sui franchi Cfa che emette, il cui valore di emissione trattiene nella misura del 25%.

Le due banche centrali che gestiscono le risorse dovute ai traffici internazionali dei 14 paesi sono quella dell’Africa occidentale, corrispondente a otto paesi, con 16 amministratori africani e quattro francesi, e quella dell’Africa centrale, corrispondente a sei paesi con 12 amministratori africani e due francesi. Nei board di tali istituti, le decisioni devono essere prese all’unanimità. Secondo i critici, è tutta una questione di facciata, perché senza il consenso, o la presenza, dei francesi le decisioni non possono essere prese.

Va da sé che ogni decisione economica, soprattutto quelle importanti, in ognuno di questi 14 paesi africani dipende in gran parte da Parigi, e ogni appalto alla fine deve essere destinato ad aziende dei cugini d’oltralpe, sempre che Parigi sia interessata, ovviamente. È libera concorrenza questa? Come possono gli altri paesi europei, ad esempio, accettare una situazione del genere? Come può la Francia parlare di concorrenza negata dal conglomerato che Fincantieri formerebbe con i cantieri Saint Nazaire quando essa stessa, la Francia voglio dire, non sa cosa sia la concorrenza non in uno (che già sarebbe grave), non in due, bensì in ben 14 paesi africani? Ogni trattativa tra imprese di questi 14 paesi africani deve essere svolta seguendo una serie di passaggi vantaggiosi per Parigi.

Occorre precisare, come già detto da Di Maio e, si parva licet, anche da me nei miei precedenti articoli, che tutte queste rimesse vengono usate da Parigi per pagare il proprio debito pubblico, certo, ma anche per concedere prestiti agli africani a cui vengono chiesti gli interessi (sui loro soldi!), per non parlare poi dei prestiti concessi alle aziende francesi quando esse vogliono comprarne altre, soprattutto se straniere come quelle italiane, che spesso hanno una liquidità maggiore delle concorrenti transalpine, ma non hanno un sistema bancario alle spalle drogato dalle rimesse africane come quello francese, e, quindi, non hanno un sistema finanziario capace di sostenere molte operazioni altrimenti fuori dalla portata degli imprenditori transalpini. Voglio dire: agendo come fa la Francia – e qui intendo la Francia come sistema: il governo, certo, ma anche le aziende – non si ammazza solo il mercato africano, ma si rischia di azzoppare pure quello europeo.

Non so se Di Maio abbia ragione a sostenere che la Francia scenderebbe al quindicesimo posto tra le maggiori economie mondiali senza il meccanismo del franco Cfa (né so dove abbia attinto un simile dato): credo però che se Parigi non potesse espandere la propria economia ai danni dei vicini, europei in primis, come ormai fa da decenni usando tale posizione di vantaggio, sarebbe ridimensionata in maniera significativa. La Francia, infatti, non ha una cultura imprenditoriale superiore a quella italiana, e anzi mi verrebbe da sostenere esattamente il contrario.

La Francia ha piuttosto una tendenza esagerata alla difesa dei propri interessi, per cui si aspetta che se un Paese africano chiede una vera autonomia, come il Togo tempo fa, ebbene questo Paese debba dare qualcosa in cambio: debba pagare cioè un debito a Parigi, un “debito coloniale” dovuto al fatto – pare – che i francesi hanno creato infrastrutture e servizi, hanno portato insomma la “civiltà”. Il pagamento del debito è stato accettato, ma il capo del Togo, per tornare all’esempio di prima, è stato in effetti ucciso poco tempo dopo la decisione di uscire dal sistema del franco Cfa da un ex militare francese. Un avvertimento da Parigi, al di là del fatto che il politico africano in questione non fosse di certo uno stinco di santo? Non posso saperlo, ma è un dato osservabile che il Togo, dopo un simile avvertimento, oggi stia ancora nel “sistema Cfa”. E poi c’è il caso della Guinea, che ha visto devastare gran parte del territorio per ripicca dai francesi, dopo aver deciso di abbandonare il sistema monetario voluto da Parigi.

Un simile, raccapricciante esempio viene portato, tra gli altri, da Mohamed Konarè, noto panafricanista (immagino criticato per le sue posizioni nette) a cui devo alcune informazioni che riporto qui dopo una veloce ma attenta verifica (altre fonti si trovano in rete e tra gli archivi cartacei, tra cui spicca, per blasone, ItaliaOggi: il punto è che è difficile trovare numeri certi sul fenomeno in questione).

Ci sono altri esempi del genere, in realtà, esempi tramite cui si evince che Parigi agisce in maniera perlomeno discutibile ogni volta che qualcuno in Africa vuole rivendicare la propria libertà. Per tale motivo la Francia ha spesso sostenuto delle dittature – e questo è un fatto certo -, in particolare, ripeto, quelle che difendono il meccanismo del franco Cfa (le dittature, si sa, sono sempre più facili da controllare delle democrazie per le grandi potenze, e non sto parlando solo della Francia, naturalmente). Quando Parigi non ha un dittatore come interlocutore, si aspetta a maggior ragione una nota prima di ogni consiglio dei ministri dei paesi africani (pare che una volta l’intero governo del Senegal abbia svolto una riunione a Parigi).

Secondo Konarè, quando qualche capo di stato africano si ribella, i francesi creano la situazione adatta per giustificare un bombardamento, come è successo in Costa d’Avorio. Non ho elementi per capire se Konarè abbia ragione, ma di sicuro andrebbe chiarito il caso ivoriano. Ad avviso di chi scrive, invece, Parigi avrebbe di certo approfittato del pericolo terrorismo per rivendicare un controllo più stretto sui territori africani, quando il terrorismo, si sa, nasce in un contesto di povertà, proprio quello, cioè, che viene garantito dalle politiche dei vari governi occidentali, parigini in primis.

I quali, a dimostrazione delle strategie discutibilissime della Francia, svalutano il franco cfa, e costringono le popolazioni africane ad accettare aumenti dei prezzi dei beni di prima necessità veramente intollerabili, anche considerata la loro situazione di difficoltà permanente, di cui Parigi, ripeto, è la prima responsabile in una visione d’insieme.

Tutto questo discorso, ovviamente, non riguarda solo la rapacità francese. Riguarda anche le conseguenze sull’immigrazione, dato che molti dei ragazzi che fuggono dal continente nero vengono dai territori condizionati da Parigi in maniera tanto lungimirante – mi si passi l’ironia -. In questo Di Maio ha perfettamente ragione, come anche noi del Sussidiario a metterlo in evidenza prima di lui nei nostri articoli – articoli a cui magari Di Maio ha dato un’occhiata.

Quindi la precedente politica italiana di chiusura nei confronti dei migranti dei 14 paesi dell’Africa francese – chiamiamola così (cioè l’Africa disegnata dagli europei, non dimentichiamolo mai) – non solo era miope, con buona pace del ministro Minniti a cui piaceva fare il primo della classe, ma mancava di coraggio. Minniti: il ministro “di sinistra” che prima ha deciso un accordo con la Libia per bloccare i barconi dei disperati, e solo in seconda battuta si è posto il problema se le carceri libiche fossero o meno dei lager, sembrando egli, in tale maniera, la (brutta) copia di Salvini: ma, si sa, le elezioni erano alle porte.

Così come ha mancato di coraggio la cancelliera Merkel stessa quando ha chiesto a Parigi di condividere in ambito europeo queste risorse “africane”: ha mancato di coraggio quando non ha ribattuto allorché Parigi le ha risposto con un bel “no” in faccia, ma ha mancato di tale forza d’animo soprattutto quando si è permessa di inseguire Parigi sul suo stesso terreno, invece di farle presente che il colonialismo è un fenomeno fuori tempo massimo, diciamo così.

Una mentalità coloniale, questa, fondata sulla logica spartitoria, che ha visto un eclatante esempio nel bombardamento libico per mano di Sarkozy e alleati davanti alle nostre coste. Ma una mentalità a cui non mi sembrano estranei numerosi italiani, quando si chiedono cosa ci facciano i francesi in Libia, dato che in Libia ci siamo noi, è roba nostra insomma. Cosa vuol dire questo? Con che spirito viene pronunciata una frase del genere? È solo una questione di massiccia presenza delle aziende italiane o c’è qualcosa di più? E poi, perché le aziende italiane sono così numerose in Libia? Sempre per una logica postcoloniale che “post” non è mai definitivamente in realtà?

La questione delle aziende, poi, apre un altro fronte di riflessione. Se la Francia pretende di avere mano libera nei mercati di ben 14 paesi africani, e di ottenere senza batter ciglio il 50% delle rimesse dovute a scambi commerciali internazionali, è anche vero che molte aziende occidentali, nonché cinesi, indiane, ecc., si aspettano di lavorare in numerose zone dell’Africa sfruttando le conoscenze giuste, e aggirando quindi le gare di appalto: con ciò impedendo la libera concorrenza, bloccando lo sviluppo di imprese del luogo che non hanno lo stesso potere di convincimento – diciamo così – sui politici corrotti locali, e impedendo, perciò, lo sviluppo più generale della popolazione africana, costretta a vedere passare sopra la propria testa affari importanti, spesso colossali. E non sono certo gli spiccioli della cooperazione internazionale che possono cambiare il quadro, anche se sono in grado di mettere la coscienza a posto a molti imprenditori, ma anche a molti politici di Parigi (e pure di Berlino, Roma, Londra o Washington).

Il punto è che l’Africa deve diventare produttrice di beni finiti, non solo esportatrice di materie prime, altrimenti gli africani rimarranno solo consumatori. Ovviamente questo è un discorso che può non piacere a molti, e non solo a Parigi, ma è l’unico capace di evitare che una simile migrazione permanente continui per decenni.

Dire che Parigi deve farsi da parte è giusto, anche se un po’ velleitario, se a sostenerlo è soltanto Di Maio. Ma deve essere, questo, solo un primo, per quanto fondamentale, passo. Bisognerebbe chiedere agli americani cosa pensino di tutta la faccenda (gli americani non amano scontrarsi coi francesi negli scenari internazionali, si sa), e pure ai cinesi, che prima o poi raggiungeranno l’Africa francofona: e anzi immagino l’abbiano già fatto, e sarebbe interessante capire cosa si sono detti Parigi e Pechino a tal proposito. Perché è evidente che Parigi, sotto un aspetto del genere, non parli un linguaggio molto diverso da una dittatura asiatica.

Marx direbbe che in Cina non c’è alcuna dittatura del proletariato, e forse si aspetterebbe che quello francese in rivolta negli ultimi due mesi e mezzo (i cosiddetti gilet gialli) e quello africano si uniscano in una comune rivolta. O meglio, che quello francese tenda la mano al proletariato, ben più povero, del “continente nero” (al punto che forse “proletariato” costituisce una parola troppo alta per definire gli africani). Chiedo allora a Di Maio, soprattutto dopo che si è visto chiudere la porta in faccia dai rivoltosi francesi: invece di proporre loro aiuti “interessati”, perché non domandare ai gilet gialli cosa pensino dell’imperialismo francese? Magari potrebbe scoprire che anche loro, i proletari di Francia, non sono preoccupati del benessere dei poveri di altre parti del mondo, e ciò anche quando questi siano tali, poveri, a causa del governo di Parigi.

O magari potremmo chiedere ai campioni della squadra nazionale di calcio francese di origine africana cosa pensino delle politiche del loro governo, ora che sanno che l’amico Macron ha qualche scheletro nell’armadio. Si potrebbe replicare che già conoscevano la situazione: bene, forse è venuto il momento di mostrare un po’ più di coraggio. Mettiamo il dito, insomma, nelle ipocrisie planetarie, cerchiamo di entrare nelle pieghe di una società complessa: spero che Di Maio risponda all’appello.

Nel frattempo, infatti, il Fondo monetario internazionale ha fatto sapere di essere molto preoccupato per via della stabilità mondiale a causa dell’Italia (e della Brexit), e questo per bocca della francesissima Lagarde: se la “francesissima” si dicesse altrettanto preoccupata per la situazione africana causata da Parigi forse risulterebbe più credibile. Altrimenti potrebbe sembrare, il suo, solo un tentativo di far aumentare lo spread ai danni dell’Italia, nella speranza di far cadere un governo italiano scomodo.