Ancora Brexit. È una disgregazione che pare non finire mai. Il Governo inglese entra in una crisi profonda, che esprime bene quello che sta lentamente minando le basi socio-politiche dell’Europa e da cui forse il Regno Unito non ha fatto in tempo a salvarsi. La deflazione secolare va di pari passo con la disgregazione delle subculture politiche europee e ciò conduce all’emersione dei caciqui: essi esistevano certo di già nei partiti, ma erano messi in sonno dalla pesantezza dei legami territoriali e dal modello rank and file dell’organizzazione della partecipazione politica di massa. Ora quest’ultima ha trasformato il suo volto per la digitalizzazione crescente delle relazioni virtuali e così accadendo l’angoscia politica si condensa non più nella ribellione oppure nell’astensione di massa, ma nell’emersione — appunto — dei capi politici solitari, alveolari. Quelli che io chiamo caciqui seguendo l’insegnamento del grande Joacquin Costa, studioso dell’oligarchia spagnola di inizio Novecento. Ma ciò che caratterizza il cacico è la lotta di tutti contro tutti: è la battaglia in solitudine con pochi fedeli: è l’essere, come diceva Peristianny nei suoi studi mediterranei, “L’essere Re come ogni uomo è nel Mediterraneo”.



Ora anche nel Regno Unito la lotta è tra “Re nani”, certo, ma tra “nani” che combattono da soli l’un contro l’altro armati: “Siamo ancora troppo succubi dell’Unione Europea, dobbiamo difendere i nostri territori”, gridano. E via di seguito con le cantilene che conosciamo bene e che sono l’essenza del neo-jingoismo di massa, del nazionalismo dei poveri e delle borghesie nazionali anti-borghesie vendidore. L’Europa, dinanzi a questo fenomeno, non tenta di costruire una via di uscita, non tenta di aprire le porte al dialogo, ma si veste invece come una Erinni sempre in battaglia e scrive una bozza di trattato “in deroga”, ossia dà vita a un nuovo trattato di centinaia di pagine che ancor più infiamma gli animi dei brexiters e scalda i cuore degli scopritori delle ataviche virtù.



Il tutto mentre la crisi economica europea e mondiale avanza e Mario Draghi interpreta bene le paure nordamericane per una crisi senza fine europea. Infatti, “la fine del Quantitative easing e il rialzo dei tassi, attesi invariati almeno fino a tutta l’estate 2019 – dice – potrebbero essere rimessi in discussione già a partire da dicembre a causa di un aumento meno mercato dei prezzi rispetto alle aspettative”. E così ha continuato: “L’inflazione nell’Eurozona continua a oscillare intorno all’1% e deve ancora mostrare una tendenza al rialzo convincente”. E quindi l’addio al Qe è rimandato. “Il consiglio (della Bce) — ha altresì detto Draghi — ha anche notato che le incertezze sono aumentate, ma solo a dicembre, con le nuove previsioni disponibili, saremo più in grado di fare una piena valutazione”.

Insomma, i segnali non sono deboli, ma assai chiari. L’altro giorno spiccava sul Financial Times l’articolo del responsabile dell’Ufficio Studi della Deutsche Bank che invocava, con parole inconsuete, da parte dell’Ue, una sorta di benevolenza nei confronti dell’Italia: una nazione, si diceva, con un avanzo primario sempre attivo, una forza nel risparmio privato assai notevole e una situazione industriale tra le più invidiabili. Evidentemente il peso della crisi profonda in cui versa Deutsche Bank ispirano le parole del capo dell’Ufficio studi che invia un messaggio chiaro ed eloquente ai falchi nazionalisti ordoliberisti polacchi e dell’Europa centrale, che non vedono l’ora di contendersi il primato di co-attori nella lotta che si sta scatenando nel sistema europeo nel tramonto del potere condizionante prevalente tedesco. Un tramonto che rischia di lasciare l’Europa senza un ancoraggio definito e sicuro.

Anche la stella di Macron decade e la pulsione imperiale della Francia — come hanno dimostrato le vicende libiche, che devono essere lette in stretta congiunzione con quelle europee — la trascinerà sempre più verso il dominio africano anziché nel cuore del suo destino europeo, che non può che essere antitedesco per una coazione a ripetere che è anche la salvezza dell’Europa, impedendo in tal modo un solo dominatore. E le conseguenze le abbiamo viste con l’ordoliberismo e la deflazione secolare. La Brexit è dunque un evento tragico che avviene tuttavia senza una tragedia che si rappresenti per quello che è: una catastrofe. Prevale invece — seguendo T.S. Eliot — uno sbadiglio, il non assumersi tutte le responsabilità, un non cogliere il dramma di un abbandono definitivo dell’Europa da parte della patria culturale dell’umana libertà, della common law.

Non si può continuare a far finta di niente e considerare la vicenda Brexit un incidente della storia, mentre invece è una vera e propria rivelazione della storia europea e dei limiti che ha qualsivoglia sua tentazione federalista o funzionalista come quella che le élites tecnocratiche hanno perseguito nell’ultimo mezzo secolo. Quel secolo che non finisce mai: che è dietro alle nostre spalle e che ora si chiude con il distacco della nazione più civile del globo terracqueo. Edmund Burke ci aveva ammonito: guai a sfidar la tradizione e la storia. Esse si ribellano. E dinanzi a tale ribellione che ricorda l’Ira dei miti, che, come dice la Bibbia, quando si rivela è terribile, dinanzi a tutto ciò la Commissione europea si accanisce sull’Italia e discute di quanti errori si sarebbero fatti consentendo a essa un grado di “flessibilità” troppo elevat, emanando una condanna dei governi precedenti e non solo dell’attuale esecutivo italiano.

Non hanno fatto i conti — i Commissari vassalli — con la paura che sta invadendo l’Imperatore tedesco, che fa parlare ora i suoi banchieri e che forse si prepara a una mossa imprevista, per difender certo il suo impero, ma anche l’Europa, o meglio ciò che dell’Europa rimarrà dopo il dominio del neofiti dell’ordoliberismo che riescono a far peggio dei loro capi. La crisi tedesca si avvicina e allora si comprenderà veramente sul crinale di quale abisso siamo giunti. E la Germania ci stupirà.