«C’è una probabilità del 50% che il Regno Unito non lasci l’Ue il 29 marzo, se i parlamentari rifiuteranno l’accordo di Theresa May». Chi lo ha detto? Tony Blair, da sempre contrario al Brexit e fautore di un secondo referendum? No, Liam Fox. Non solo ministro del Commercio britannico, ma anche convinto brexiter della prima ora, un duro e puro dell’addio a Bruxelles, intervistato dal Sunday Times. Certo, quello di Fox è stato un chiaro tentativo di serrare le fila dei Conservatori in vista del decisivo voto a Westminster del 14 gennaio, avvertendo che la bocciatura del piano May «manderebbe in frantumi il legame di fiducia con l’elettorato, tradendo la volontà popolare che si era espressa per il Leave al referendum», ma quando si arriva a certi livelli, significa che il rischio c’è. E cresce di giorno in giorno.
Si chiama profezia autoavverante e, solitamente, in politica come sui mercati, quando si abdica alla scaramanzia e la si evoca, significa che la situazione è davvero seria. Io non escludo affatto, anche stando alle ultime voci al riguardo rese note dalla stampa parlamentare britannica, che alla fine Theresa May possa farcela fra due settimane, ma parliamoci chiaro: pensate che il 15 gennaio, ottenuto l’ok dalla Camera elettiva, tutto sia per miracolo a posto? Pensate che la questione dei confini irlandesi sia risolta? E lo status di qualche centinaio di miliardi di transazioni che vedono ogni giorno nella City la loro clearing house dall’eurozona, chi lo determinerà a tempo di record, visto che fino a oggi nessuno ha messo becco al riguardo? Una questione simile sarebbe di semplice risoluzione, fra il 15 gennaio e il 29 marzo? Credeteci pure.
Davvero pensate che, superato lo scoglio del 14 gennaio, sia tutto in discesa? Io resto della mia idea al riguardo e, come sapete, non è da oggi che la caldeggio. Occorre però, essendo il primo giorno dell’anno, partire con il piede giusto e dirci le cose come stanno. Ci pensano questi due grafici, i quali ci mostrano chiaramente perché quelle parole di Liam Fox non siano soltanto da derubricare alla voce dell’allarmismo strategico in vista del voto make or break.
I britannici, al netto dell’isolazionismo che li contraddistingue da sempre e del loro complesso di alterità/superiorità vittoriano mai superato, quasi una questione edipica con il loro passato imperiale, hanno cominciato a guardare in faccia la realtà. Nel primo caso, vedendo sfatate – una dopo l’altra – le balle degli euroscettici riguardo l’Unione europea e le conseguenze nefaste che avrebbero per la vita e l’economia del Regno Unito: non è una tabella satirica, è la realtà. È accaduto veramente che i tabloid britannici abbiano per settimane parlato della curvatura delle banane e della necessità che le mucche mettessero il pannolino, su ordine di Bruxelles. Il secondo grafico è più serio e vale per il Brexit come per la rivolta dei “Gilet gialli”, guarda caso ormai ridotti a emuli dei panda da tutelare (sabato scorso, a Parigi, erano in 800), come il Governo populista italiano: non è lo sciovinismo nazionalista che ha gonfiato le vele della campagna in favore dell’addio all’Europa, è il ridimensionamento salariale di massa post-crisi globale. È il fatto che il 2008 lo abbiano pagato i lavoratori, soprattutto quelli con basso grado di specializzazione ed educazione, coloro i quali hanno gli impieghi più umili: come vedete, la perdita salariale è alta. Soprattutto per chi ha uno stipendio con il quale arriva a fatica alla fine del mese, magari con una famiglia sulle spalle.
Ora, la Gran Bretagna non ha l’euro, non dipende dalla Bce e Westminster non può certo dirsi un Parlamento colonizzato dalle volontà di Parigi e Berlino, oltre che dalla Commissione europea: eppure, il dopo 2008 è stato un disastro e la furba narrativa della dissimulazione delle responsabilità ha dipinto l’Unione europea come principale responsabile del malcontento e delle peggiorate condizioni economiche. Balle, quantomeno per la gran parte. Il problema è che si è voluto far pagare il conto della crisi ai lavoratori, mentre il mercato e le grandi corporations hanno continuato a macinare utili, bonus e dividendi.
Per carità, da che mondo è mondo esistono le diseguaglianze sociali e salariali e solo uno come il ministro Di Maio può pensare di sconfiggerle con il reddito di cittadinanza, festeggiando la conquista con mussoliniana verve da un balcone istituzionale. Il problema, però, è che quando un certo modello di sviluppo vira sul delinquenziale andante come accaduto dalla bolla tech del 1999-2000 in poi e ne fa la norma, poi occorre essere onesti con se stessi e gli altri fino in fondo. Ovvero, quando esplode l’enorme cloaca delle cartolarizzazioni di massa, dell’azzardo morale, degli schemi Ponzi e della leva come normalità operativa, dei derivati per gonfiare i bilanci e dei trading desk come cuore pulsante dell’attività di una banca solo formalmente commerciale e retail, bisognerebbe quantomeno pagare una parte – e sostanziale – del conto che si è presentato al mondo intero.
In primis, a qualche milione e milione di onesti lavoratori che di certo non hanno creato le condizioni di quel disastro, ma, direttamente o indirettamente, ne hanno anzi pagato quasi per intero il prezzo. Così non è stato, perché i cicli di Qe hanno sostanzialmente garantito il boom degli indici azionari e l’indebitamento allegro delle aziende attraverso la compressione dei tassi di emissioni obbligazionaria, ma nessuno ha avuto la decenza di mettere uno stop a bonus e dividendi, stock option e cedole allegre. Né, tantomeno, ha avuto l’ardire di chiedere conto ai grandi manager di come spendessero quei soldi, gentilmente offerti dalla collettività tramite la Bce (o, nel caso di Londra, la Bank of England): quanto investimento in nuove assunzioni, in CapEx, in ricerca e sviluppo? Pressoché zero, in compenso grandi maquillage di bilancio, acquisizioni e fusioni a leva e a debito e buybacks per tenere alte le valutazioni dei titoli, così gli azionisti sono contenti e a fronte dei loro dividendi, si staccano i bonus di fine anno per i management.
Perché signori, è andata così. Punto e a capo. Nessuno ha imposto alle banche beneficiarie di aste di rifinanziamento a lungo termine di garantire a imprese e famiglie una quota di quella liquidità ottenuta a costo praticamente zero: e allora via, tutto il denaro è finito per imbellettare i bilanci e nei trading desk. O, come nel caso delle banche italiane, per comprare Btp, almeno lo spread resta basso e il Governo di turno saprà ricompensare il nostro patriottico sostegno sul mercato. Sapete qual è stata l’unica istituzione a porre un livello minimo di prestiti alle banche che dovesse fluire nell’economia reale, pena gravi multe all’atto del rimborso? Proprio la Bank of England, forse conscia che la situazione – esacerbata già all’inizio della crisi dal caso Northern Rock – rischiava di precipitare fra i sudditi di Sua Maestà. I quali hanno colto la palla al balzo del referendum sull’uscita dall’Ue per esprimere la propria rabbia, per gettare il proverbiale sasso contro la vetrata dell’establishment: esattamente come avvenuto in Italia con il Governo gialloverde.
E cos’hanno ottenuto i britannici da quel voto? E gli italiani che hanno votato Lega o 5 Stelle e poi hanno sostenuto e continuano a sostenere il loro esperimento di “fusione a freddo”, davvero sono convinti che la manovra appena licenziata dal Parlamento sia giusta, propedeutica alla crescita e alla improntata finalmente a una giustizia sociale di stampo redistributorio che volti le spalle all’austerity europea del post-2011? Viene da chiederselo, rileggendo le parole di Liam Fox. E guardando ai provvedimenti contenuti nella manovra italiana, quelli che a oggi si conoscono, vista la natura clandestina del documento economico nel suo passaggio nottetempo dai due rami del Parlamento.
Signori, attenzione perché il 2019 sarà duro. E pesantissimo. Nell’anno appena iniziato il nostro Paese dovrà finanziarsi a livello statale sul mercato per circa 50 miliardi di euro: la fetta più grande, circa 30 miliardi, andrà recuperata subito, nei primi tre mesi. Fra gennaio e marzo dovremo piazzare 12 miliardi di ammontare minimo in Btp a dieci anni, mentre gli altri 18 miliardi saranno divisi a metà fra un Buono a tre anni e un CctEu che avrà una durata compresa fra i cinque e i sette anni. Il tutto, dati della manovra alla mano, cui si sommeranno 78,9 miliardi di spesa per interessi. E, al netto dei reinvestimento titoli che dovrebbe schermarci per un po’ dal rischio spread, soprattutto se Mario Draghi riuscirà a imporre lo swap sulle scadenze del debito in detenzione, senza più gli acquisti diretti della Bce in quota parte attraverso Bankitalia.
E poi, attenzione alle false emergenze. Che l’immigrazione incontrollata sia un problema di sicurezza e sociale sono il primo ad ammetterlo e non da oggi, occorreva mettere un freno, sia agli sbarchi e che certa operatività allegra di alcune Ong e cooperative di varia risma. Detto questo, attenzione però alle cortine fumogene. Il dato salariale britannico è chiaro: non è il cosiddetto “esercito industriale di riserva” in arrivo sui barconi a operare dumping al ribasso sui livelli reddituali, offrendosi ai datori di lavoro a prezzi stracciati. E nel caso italiano, la questione è puramente intuitiva, non serve scomodare né l’Istat, né l’Inps: se gli stessi che gridano agli stranieri comprimono le dinamiche salariali, affamando e togliendo così il lavoro agli italiani, sono gli stessi che si adoperano affinché questi stessi non abbiano i famosi “colazione, pranzo e cena” pagati per stare comodamente a zonzo o in strutture convenzionate, capite che qualcosa non torna. Almeno nell’immediato; perché o rubano il lavoro o il lavoro non ce l’hanno e restano negli alberghi e fare nulla, con pasti pagati.
Certo, la figura marxiana dell’esercito industriale di riserva è ontologicamente preparatoria, ovvero trae la sua natura proprio da quel riserva, un cambio pronto quando la corda sarà stata tirata troppo e gli italiani smetteranno di accettare condizioni da fame. Pensate che a quel punto il problema siano le riserve africane oppure la rivolta di massa, le barricate e la più che probabile ricomparsa delle Brigate Rosse? Signori, parliamoci chiaro, almeno a inizio anno: se un popolo come quello italiano, facilmente blandibile con promesse, concessioni, mancette e il solito panem et circenses (calcio, credito al consumo, reality show, settimanina al mare con il finanziamento in banca), arrivasse a uno sciopero di massa, a una logica da blocco delle attività contro i cosiddetti “padroni”, vi assicuro che l’ultimo problema sarebbe quello posto dai vari Mohamed o Youssou pronti a subentrare all’altoforno o in catena di montaggio. Siamo seri, perché di fronte a noi non c’è il paradiso. Aver evitato la procedura d’infrazione europea è importante, ma non è certo garanzia di cieli azzurri: perché all’orizzonte, da oltre Atlantico e da oltre le Alpi, stanno addensandosi nuvoloni molto, molto neri. Nuvole per ripararsi dalle quali, in caso cominci a piovere, l’ombrellino da cocktail della flat tax e del reddito di cittadinanza potrà fare ben poco.
La parola d’ordine dei futuri guai? Bolla immobiliare. Ancora gli Usa con i loro subprime? No, la Germania. Con le sue banche del territorio.