A metà pomeriggio di ieri Reuters comunicava che la Commissione europea aveva accolto la domanda presentata da Francia e Germania che la invitavano a esaminare alla luce del regolamento sulle concentrazioni la proposta di acquisizione di Chantiers de l’Atlantique da parte di Fincantieri. In particolare, la Germania si è associata alla richiesta di rinvio trasmessa dalla Francia. Questo nonostante il progetto di acquisizione non raggiunga le soglie di fatturato previste dal regolamento Ue relativamente alle concentrazioni per le operazioni che devono essere notificate alla Commissione a causa della loro dimensione europea.
La questione è chiara e si può riassumere in questi termini: un’acquisizione da tutti ritenuta avere grandissimo senso industriale di un’azienda francese da parte di una italiana, Fincantieri, verrà con ogni probabilità bloccata dopo due anni di affannosi tentativi perché non c’è più il necessario “supporto politico”. In pratica la Francia che ha dimostrato fin da subito un enorme fastidio per l’operazione, già con Renzi primo ministro, ha deciso di volerla smontare e così con ogni probabilità accadrà.
Ora, su questa questione si possono dire moltissime cose. La prima è che l’Italia ha consegnato negli anni alla Francia asset e imprese di grandissimo valore economico e strategico. Una delle ultime, e particolarmente fastidiose per il sistema, è stato il risparmio gestito di Unicredit, Pioneer, destinato ad alimentare il campione nazionale francese Amundi. L’ennesima espressione di cupio dissolvi del sistema Paese italiano. In tutti questi casi si è usato come “scusa” o l’Europa o il mercato con una dimostrazione di ipocrisia o dabbenaggine incredibili perché la Francia presidia i propri campioni con gelosia e in barba a qualsiasi afflato europeo o di mercato. Gli esempi sono infiniti dalle partecipazioni e dalle operazioni nel settore auto, passando per il nucleare, l’energia con gli italiani di Enel sbattuti fuori, ecc.
La seconda questione è che con ogni probabilità l’operazione di cui sopra era maturata in un’altra fase e faceva parte di un accordo più ampio rappresentando in particolare il contraccambio italiano. Solo che noi abbiamo consegnato quanto pattuito e forse anche di più, forse Pioneer non è andata come doveva andare, mentre la Francia ha fatto melina per due anni e oggi prende la palla al balzo di relazioni ai minimi per smontare il deal. Teniamo presente che noi facevamo affari con un Paese che bombardava la Libia, i nostri “impianti” e gli interessi nazionali mentre Dio solo sa cosa vedono e cosa lasciano passare i militari francesi dei migranti e dei flussi migratori che arrivano in Italia. Infatti, nonostante gli accordi i nostri soldati l’africa subsahariana non l’hanno potuta vedere neanche con il binocolo.
La terza questione è il rapporto malato che abbiamo noi italiani con l’Europa. Nel senso che la narrazione sull’Europa che si sente in Italia non ha paragoni al di là delle Alpi. Per tutti gli altri è solo uno strumento e coincide più o meno chiaramente con i propri interessi o con un ben definito blocco potere. Noi diciamo Europa, ma in realtà dovremmo dire asse franco-tedesco con tutte le conseguenze che questa equazione ha sui rapporti tra istituzioni europee, espressione di un blocco di potere definito e che risponde a interessi definiti, e Italia. È curioso che proprio ieri Francia e Germania abbiano annunciato un nuovo incontro per rafforzare la loro alleanza economica. Non è un caso del destino cinico e baro che più della metà delle banche tedesche non applichi gli stessi standard contabili di quelle italiane. È il frutto di una difesa accorta e persistente dei propri punti deboli.
La quarta questione è questa. Qualcuno avrà il coraggio di dirci che il deal salta perché in Italia ci sono i populisti oppure per le dichiarazioni di Di Maio sui gilet gialli quando è chiaro anche ai ciechi che la Francia era due anni che provava a far saltare l’operazione. Ma l’aspetto più grottesco è un altro. Negli imprevedibili sviluppi della politica che a volte sfuggono di mano anche ai grandi fratelli e alle élites più élite che ci sono, nessuno ci assicura che i populisti francesi o tedeschi di domani saranno migliori di quelli italiani di oggi. Questa visione del mondo è uno dei frutti più incredibili del provincialismo italiano. L’unica cosa certa è che i nostri populisti li possiamo eventualmente spegnere noi alle elezioni, mentre quelli francesi o tedeschi no. E in attesa di un’unione politica europea di cui nessuno sa dire come, quando e perché visto che il blocco di potere che dà le carte e ricatta tutti non ha alcun, ma proprio zero, interesse a promuovere, l’unica certezza è che gli altri giustamente fanno sempre i loro interessi che non sono i nostri. Anzi.
La vera questione al termine di tutto questo è come l’Italia riesca a uscire dal buco in cui si è infilata e dallo stato di subordinazione e ricatto in cui nei fatti si ritrova. L’austerity e la sua applicazione arbitraria è solo un sinonimo di questo stato coloniale mentre neanche il migliore governo che possiate immaginare può fare molto rispetto a uno stato di cose che senza modifiche è un circolo vizioso. Certo uscirne ha un costo enorme, ma rimanerci? È un dibattito che noi non possiamo fare se no lo spread sale mentre, in Germania diventa dibattito tra economisti; cioè in Germania gli economisti discutono di questo e in questi termini: visto quanto successo negli ultimi trent’anni non è che all’Italia sta cosa dell’euro è andata molto male? E quindi cosa deve fare adesso? Bella domanda. Però bisognerebbe porsela e avere bene in testa le alternative senza edulcorazioni europeiste o sovraniste che siano.
Di certo farsi fregare così incredibilmente dai cugini d’oltralpe mentre ci rimandano indietro i migranti con le scarpe tagliate tra il tripudio della grande stampa italiana per le fusioni “europee” è davvero surreale.