Economia in frenata, stime di crescita continuamente riviste al ribasso, clausole di salvaguardia all’orizzonte per 23 miliardi, rischi di manovra correttiva, segnali di tensione e di pressing sul ministro dell’Economia, Giovanni Tria, considerato troppo accondiscendente con Bruxelles. A tutto questo, dopo il controverso sì al patto con la Cina sulla Nuova Via della seta che rischia di isolare l’Italia dagli alleati occidentali, ieri si è aggiunto l’allarme dell’Istat sulla produttività: tra il 2000 e il 2016 in Italia è cresciuta solo dello 0,4%, mentre nello stesso periodo in Germania ha fatto un balzo del 18% e del 15% in Francia, Regno Unito e Spagna.
In questo difficile scenario economico e politico, il cammino verso il Def e la stesura del Documento di economia e finanza da inviare all’Unione europea in aprile rischiano di diventare un terreno particolarmente scivoloso, se non minato, per un Governo già alle prese con fibrillazioni interne su alcuni provvedimenti chiave per la crescita, vedi soprattutto alla voce decreto sblocca-cantieri? “Una premessa è d’obbligo – osserva Antonio Maria Rinaldi, docente alla Link Campus University di Roma -: dalle prime indicazioni sia per quota 100 che per reddito di cittadinanza, i due provvedimenti che stanno caratterizzando la politica economica di quest’anno, stanno arrivando risposte incoraggianti per i conti pubblici, nel senso che, non essendoci stata la corsa massiccia a sfruttare queste misure, le risorse da impiegare risultano minori rispetto a quelle massime preventivate. E’ un aspetto importante da sottolineare. Anche se è ancora prematuro tirare le somme, resto ragionevolmente ottimista”.
Premessa utile, perché questo trend, se confermato nei prossimi mesi, potrebbe dare un po’ di respiro ai conti pubblici del 2019. Resta però il fatto che la stesura del Def 2019 si rivelerà un passaggio molto delicato. Concorda?
Tutte le volte che si parla di conti pubblici italiani è come muoversi tra le sabbie mobili. Il tema negli anni è sempre stato oggetto di scontri e confronti all’interno di qualsiasi compagine governativa. Ora siamo di fronte a una recessione che induce a rivedere numeri e parametri previsti. Ma c’è un corollario importante.
Quale?
Vogliamo continuare a fare gli stessi errori del passato, come quello eclatante del 2011, quando il governo Monti per contrastare una crisi ben più profonda dell’attuale propose ricette all’insegna dell’austerity, provocando un avvitamento peggiore dell’economia?
C’è un’alternativa percorribile?
Questa volta, tenendo anche conto che altri Paesi sono alle prese con la recessione e che le elezioni europee sono alle porte, penso che assisteremo a un cambio di passo dell’attuale governance europea. Sono fiducioso che non ci sarà alcun accanimento come negli anni passati.
Secondo lei è il caso di modificare le regole di bilancio previste dai Trattati e che non hanno fatto altro che incrementare disagi e difficoltà?
Da Maastricht al percorso di convergenza che ha portato alla moneta unica e ai vari Patti di stabilità, in primis il fiscal compact, il punto focale di negatività dell’architettura europea è che difetta di un elemento cruciale: i parametri possono avere un fondamento solo nel caso di crescita costante dell’economia, perché non prevedono scenari di rallentamento e possibili meccanismi correttivi. E’ così dal 1986, dal famoso Rapporto Cecchini commissionato da Delors.
Lei cosa si augura a questo punto?
Mi auguro che, dopo i fallimenti dovuti all’aver perseguito con cieca coerenza questi paradigmi dell’austerity, ora vengano definitivamente accantonati e che dopo le Europee il nuovo Parlamento europeo, che ne ha la prerogativa, sfiduci subito questa Commissione Ue, senza aspettare la sua scadenza naturale, prevista a novembre.
Tornando all’Italia, il Tesoro è di nuovo nel mirino di Lega e M5s, che lo considerano troppo accondiscendente con Bruxelles. La Lega, per esempio, è tornata a chiedere con insistenza l’introduzione della flat tax, ma il ministro Tria frena, vorrebbe rimandare il dibattito all’autunno, quando si discuterà la Legge di bilancio. Secondo lei, inserire la flat tax nel Def potrebbe essere visto dalla Ue come un nuovo affronto, come una misura elettorale?
Certamente alla Commissione europea non mancherà l’occasione di sottolinearlo. Ma è vero che un Governo che gode ancora di una maggioranza parlamentare ampia e di un consenso popolare superiore ai numeri emersi con il voto del 4 marzo 2018 è più che titolato a proporre ricette di politica economica nell’interesse del Paese, all’insegna della crescita e del rilancio dei consumi.
A proposito di crescita, in settimana arriverà in Consiglio dei ministri il Decreto crescita, che recupera alcune delle misure varate dai governi precedenti, come super-ammortamento, Patent box, incentivi alla R&S… Potrà dare una scossa all’economia?
Questo è nelle intenzioni.
E potrà essere “venduto” alla Ue come una sorta di manovra correttiva?
Bisogna vedere con quale occhio lo valuterà la Ue.
Che cosa intende dire?
Con certi Paesi, vedi la Francia, la Ue si mostra spesso molto elastica nel venire incontro e nell’accettare certi comportamenti, anche ben più permissivi, mentre con altri Paesi prevale la rigidità. Per esempio, con l’Italia viene sempre posto innanzi il nodo del debito, quando sappiamo benissimo che quel debito si può contenere e ridurre rafforzando la crescita. E’ una questione di peso politico, di capacità di far valere le proprie ragioni, dicendo basta a quelle ricette precedentemente proposte e imposte dalla Ue e che si sono rivelate un disastro.
A proposito di misure pro-crescita, non si può registrare con rammarico e preoccupazione l’imbarazzante stallo del Governo giallo-verde sullo sblocca-cantieri. Senza grandi opere e grandi investimenti, invertire la rotta della recessione sembra piuttosto difficile, non crede?
Verissimo. A maggior ragione, visto che continuiamo a essere il fanalino di coda dell’Europa, bisogna avere la caparbietà di proporre soluzioni, anche controcorrente, favorevoli alla crescita. Dobbiamo provare il tutto per tutto. Quanto allo sblocca-cantieri, il problema è complesso. L’Italia ha un codice degli appalti che è stato irrigidito dal precedente Governo in gran parte per rispondere a indicazioni derivanti da direttive europee. Siamo stati, in pratica, “costretti” a questo irrigidimento, perché le regole europee sono tarate soprattutto sulle grandi aziende e non sulle Pmi. Per il nostro tessuto produttivo queste direttive rappresentano paletti e costi insuperabili. Non è facile andarle a modificare. Potremmo subire contestazioni e infrazioni, quindi è necessario muoversi con cautela.
C’è chi suggerisce di redigere un Def ultraleggero, senza mostrare troppo le carte. Ma, dopo un lungo stillicidio di revisioni al ribasso delle nostre stime di crescita, i mercati, l’Europa e le società di rating come potrebbero accogliere un Def scarno di informazioni e di misure?
Le società di rating ultimamente hanno cambiato atteggiamento verso l’Italia. Si sono rese conto che inchiodare l’Italia sul rispetto di certi numeri non significa altro che penalizzare ulteriormente la nostra economia, che invece deve poter fare politiche anti-cicliche diverse. In virtù delle potenzialità che abbiamo e confermando i giudizi precedenti, le società di rating ci hanno dato una sorta di credito aggiuntivo. Altrimenti, sulla base dei meri dati economici, avrebbero dovuto declassarci un’altra volta.
Ieri l’Istat ha certificato che dal 2000 il gap di produttività con l’Europa si è molto ampliato. Come possiamo cercare di colmarlo?
La produttività è un problema annoso. La forbice di produttività tra le due manifatture più forti dell’Europa, quella tedesca e quella italiana, da vent’anni è in costante allargamento a favore della Germania. Prima invece era a nostro favore.
Perché?
Dall’introduzione della moneta unica inizia un declino sempre più profondo. Ciò fa riflettere sul fatto che le regole europee avvantaggiano qualcuno e penalizzano altri. Non è che siamo diventati incapaci di colpo, sono i meccanismi che non sono i più idonei.
Come ovviare?
Bisognerebbe intervenire sul cuneo fiscale e sul costo del lavoro, ma questo presuppone una macchina fiscale completamente diversa e la consapevolezza che i margini di manovra sono ridotti. Oppure bisognerebbe operare una seria spending review, ma anche in questo campo la spesa primaria è già in linea con la media Ue. Più che spendere troppo, l’Italia spende male, quindi avrebbe bisogno di una bella razionalizzazione, non toccando i saldi, bensì agendo sui singoli capitoli di spesa.
Dopo la firma del patto con la Cina, l’Italia si ritrova più isolata nella Ue?
Sulla Cina la mia valutazione è semplice: c’è una sorta di atteggiamento “bigotto” dell’Europa, per cui tutti quanti fanno i propri interessi con la Cina, a cominciare proprio da Francia e Germania, che hanno rapporti preferenziali con Pechino sfruttando dazi inferiori rispetto a quelli applicati all’Italia, e poi, quando qualcuno si muove alla luce del sole, viene subito additato come chi vuole infrangere le regole. Quanto agli accordi che scaturiranno dal Memorandum firmato con Xi Jinping la scorsa settimana, mi auguro che siano tutti all’insegna della reciprocità: noi concediamo alcune cose nella misura in cui anche a noi ne vengano concesse altre.
(Marco Biscella)