Così è, se vi pare. La lettura del Def richiama alla memoria il titolo del testo scespiriano. Ce n’è per tutti i gusti, a partire dalle promesse di tagli fiscali, ma non mancano accenti di severità all’insegna del realismo. Una miscela fatta di sogni e di bruschi richiami all’esistente. Senza dimenticare i rischi che vengono dall’esterno, “dalla minaccia del protezionismo, ai fattori geopolitici e i cambiamenti di paradigma in industrie chiave come l’auto”. C’è spazio per la flat tax, almeno a parole. Ma nel frattempo, complice l’aumento della spesa per interessi e il costo delle riforme già approvate, sarà necessario trovare risorse per 24 miliardi di spese in più per quest’anno, per 35 per il 2020, altrettanti per il 2021. Il tutto pima di pensare a come disinnescare l’aumento dell’Iva che, a parole, i due leader della maggioranza rifiutano addirittura con veemenza.



È fin troppo facile ironizzare sui buoni propositi contenuti per far tornare i conti. L’immancabile “revisione organica della spesa” risulta assai poco credibile alla luce dei precedenti tentativi di contenimento della spesa: i tecnici hanno già quantificato un miliardo di risparmi falliti lo scorso anno fra ministero del Lavoro, dell’Agricoltura, Corte dei Conti, Arma dei Carabinieri. Di fronte a questi numeri, la promessa di “un programma di revisione organica della spesa” suona poco credibile. E che dire dei 18 miliardi da incassare con le privatizzazioni? Per ora, tra acquisto di quote di Telecom, promessa di intervento per Salini-Astaldi e piano Alitalia, si viaggia in direzione opposta. E l’elenco potrebbe continuare anche perché non c’è ancora traccia nemmeno della partita di giro che dovrebbe permettere il trasferimento di quote delle grandi aziende partecipate dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti, il gioco di prestigio consentito da Eurostat per far uscire quel patrimonio dal perimetro della Pubblica amministrazione.



Insomma, è evidente che il Def, così com’è stato congegnato, è, al più, una bozza in divenire “salvo successivo intervento”, com’è ormai mal(costume) del nuovo modo di governare. Tutto è rimandato al dopo voto nella speranza che nuovi equilibri politici possano garantire una diversa accoglienza alle richieste italiane. Ma quali richieste? E con quali prospettive? In assenza di una qualsiasi sponda internazionale (anche Donald Trump è freddo con l’Italia sovranista dopo l’apertura a Pechino), il Governo ha puntato sull’aumento dei consumi: convinto che mettere soldi direttamente nelle tasche degli italiani – attraverso l’aumento del debito – potesse creare consenso e sostenere la ripresa, l’esecutivo ha concentrato i suoi sforzi in una serie di misure di spese a scapito di interventi in grado di sostenere la produttività.



Ma l’operazione non ha funzionato: ci vuole ben altro, in questa congiuntura, per rianimare la fiducia. Non ultima la coesione tra europei, l’esatto opposto del clima di contrapposizione frontale che può pagare nel breve termine, ma rischia di essere un boomerang. Oggi l’Europa attraversa la fase più delicata dall’accordo di Roma. Ma questa è un’opportunità, non solo un rischio. Basta archiviare la ricetta pseudo-keynesiana per puntare sulla crescita. Basta fare un giro per Milano travolta dai mercanti a caccia di idee tra i gli imprenditori del mobile, per capire che la medicina per il nostro futuro passa dal saper fare: lavorare tutti, lavorare di più, ma, soprattutto, lavorare meglio. Alla faccia del Presidente dell’Inps.