Questa è la settimana del Def, il Documento di economia e finanza, che, in linea con gli indirizzi del “semestre europeo” deve essere approvato dal Governo il 10 aprile e inviato al Parlamento per una discussione prima di essere presentato alle istituzioni europee. Nel lessico giornalistico, e politico, si parla di Def dimenticando – un lapsus freudiano? – che il documento contiene anche un Piano nazionale di riforma (Pnr), aggiornato ogni anno dagli uffici, ma a cui si dà poca attenzione sia nel dibattito politico che sulla stampa.



Gli occhi (e le menti), infatti, sono concentrati su quali proposte ha il Governo per risolvere i problemi di finanza pubblica, per disinnescare l’aumento dell’Iva (previsto nelle clausole di salvaguardia in vigore), per affrontare un debito pubblico il cui rapporto con il Pil ha raggiunto – ci ha ricordato questo fine settimana un lavoro dello Studio Ambrosetti – livelli analoghi a quelli toccati, in Italia, unicamente negli anni immediatamente successivo la Prima e la Seconda guerra mondiale.



Sapremo solo mercoledì sera se questi nodi sono trattati adeguatamente. O se a ragione dei dissidi continui tra le due principali forze di Governo, della debolezza oggettiva di un ministero dell’Economia e delle Finanze (il cui titolare è sotto schiaffo dai leader delle maggioranza quasi ogni due giorni ed è costretto a farsi sorreggere da Commissari europei, e il cui Ragioniere Generale sta facendo le valigie per traslocare in quel palazzo Koch da dove proviene) e delle incertezze del quadro internazionale, il Def non si limiterà a ripetere cose già note – la linea concordata con la Commissione europea lo scorso di dicembre -, rinviando le proposte all'”aggiornamento” settembrino, ossia dopo le elezioni europee ed eventuali modifiche del quadro politico.



In questo caso, anche il Pnr sarebbe una mera messa a giorno di quanto presentato lo scorso aprile, che, a sua volta, ritoccava appena quanto scritto l’anno prima. In questo caso, il primo Def/Pnr del “Governo del cambiamento” – nel 2018 venne, per necessità di cose, predisposto da un Esecutivo in “ordinaria amministrazione” che non godeva della fiducia del Parlamento – sarebbe (avrebbe detto Robert Musil) “senza qualità”.

Anche ove però ci fossero proposte di sostanza in materia di finanza pubblica, di debito e di politica macro-economica in generale e si delineassero misure in alcune aree sensibili (quali la famiglia), non si raggiungerebbe, comunque, “il minimo sindacale” necessario nella situazione che travaglia l’Italia dall’inizio del secolo. Tale situazione è illustrata con dovizia di dati nell’ultimo rapporto Ocse sul nostro Paese. Si può essere d’accordo o meno con i giudizi e i suggerimenti dell’Organizzazione che ha sede nel parigino Château de la Muette, ma i dati sugli ultimi due decenni sono incontrovertibili: stasi della produttività, riduzione del reddito pro-capite in termini reali, aumento delle disparità, restrizione della base produttiva. L’Italia non deve affrontare una recessione “congiunturale” (per mutuare un termine coniato in Germania), ma un declino di lungo periodo causato da nodi strutturali ormai chiaramente individuati da gran parte degli studi da economisti sia italiani che stranieri, da centri di ricerca, da organizzazioni e istituzioni internazionali.

Per raggiungere “il minimo sindacale” occorrono non solo proposte macroeconomiche e di finanza pubblica di breve e medio termine (uno-tre anni) per affrontare una “congiuntura” più o meno difficile, ma bisogna delineare un programma di riforme strutturali almeno a cinque anni. Quindi, il Pnr, di solito redatto frettolosamente e letto (oppure appena sfogliato) ancor più velocemente e distrattamente, diventa la parte chiave del documento.

Tutte le analisi disponibili, ad esempio, sottolineano da anni che alla base del declino – e dell’arresto dell'”ascensore sociale” – c’è l’impoverimento strisciante da anni del capitale umano, fisico e sociale. Quali sono le proposte in materia di scuola, università, formazione professionale, infrastrutture, ruolo dei corpi intermedi (senza i quali non si attiva il capitale sociale)?

La stasi della produttività è determinata in gran parte dalle minuscole dimensioni delle imprese, dallo scarso avanzamento dell’innovazione di processo e di prodotto, dall’inadeguata spinta competitiva. Quali le proposte in questi campi? E perché non abbiamo abbracciato il “manifesto” franco-tedesco per una politica europea dell’innovazione nel manifatturiero e nel terziario oppure perché non suggeriamo altre strade?

Si potrebbe continuare. A lungo. Ma lo scopo di una testata di approfondimenti è quello di stimolare e commentare, non certo di sostituirsi alle istituzioni deputate a formulare i lineamenti di una politica economica che, per un Paese al palo da venti anni, non può non essere che strutturale.