C’è ormai un carteggio fitto tra Roma e Bruxelles, quasi simile a quelli che gli innamorati, o gli amanti prima di dirsi “addio”, si scambiavano nell’Ottocento. Una prima lettera dalla Commissione europea sul Documento programmatico di bilancio è giunta tre giorni dopo la trasmissione del lavoro. La seconda del Direttore generale per gli Affari economici e finanziari della Commissione il 30 ottobre. Da allora a ora c’è stata una riunione dell’Eurogruppo e anche una trasferta a Roma del Presidente dell’organo dei Ministri economici e finanziari della zona euro. Al ministro dell’Economia e Finanze che, sorridendo con calma apollinea, ripeteva che non si sarebbe modificata la sostanza della manovra, veniva ribadito che essa era “una deviazione senza precedenti” dalle regole definite consensualmente per il funzionamento della zona euro e che il disavanzo programmato non era compatibile con l’alto debito dell’Italia. Domani 13 novembre, l’Italia deve inviare una sua risposta epistolare alle autorità europee.



Nel contempo, sono state pubblicate l’8 novembre le previsioni econometriche della Commissione. Le stime per la crescita dell’Italia nel 2019 sono al’1,1%, sostanzialmente inferiori a quelle alla base del Dpb (1,5%) con conseguente aumento dell’indebitamento e dello stock di debito. Il ministro dell’Economia e delle Finanze ha replicato che gli uffici della Commissione non sanno fare i conti. Ma, poche ore dopo il Fondo monetario internazionale diramava stime ancora più pessimiste e Oxford Economics poneva la crescita dell’Italia nel 2019 a non più dello 0,6%. La mediana del “gruppo del consenso” (i 20 maggiori istituti econometrici internazionali, tutti privati, nessuno italiano) situano la crescita del Bel Paese attorno all’0,8%. La Banca d’Italia ha certificato che l’aumento dello spread, imputabile alle reazioni alla manovra, è sinora costato agli italiani 1,5 miliardi di perdita netta.



E su questo background che il ministro dell’Economia e delle Finanze sta preparando la lettera a Bruxelles. Una lettera che verrà senza dubbio esaminata attentamente dai Vicepresidenti del Consiglio, rispetto ai quali il titolare del dicastero di via Venti Settembre pare avere un’autonomia molto limitata. Sinora, nelle affermazione pubbliche, il ministro dell’Economia e delle Finanze ha sostenuto che di fronte alla bassa crescita modificare una manovra “anticiclica” ed “espansionista” sarebbe “suicida” perché porterebbe il Paese in recessione. Anche se nei corridoi di via Venti Settembre si sussurra che quelli-che-contano (nel Governo giallo-verde) starebbero limando il disegno di legge di bilancio, tramite una serie di emendamenti, la lettera alla Commissione europea sosterrà che proprio a ragione dell’indebolimento del ciclo economico il deficit programmato dall’Esecutivo italiano è necessario.



Occorre, però, chiedersi se una manovra che muove il 2% della spesa pubblica e l’1% del Pil è effettivamente anticiclica. Molti economisti ne dubitano. Io condivido le loro perplessità. L’Ue e i mercati sono nervosi non tanto perché si programma un disavanzo (e, quindi, un aumento del debito), ma perché il nodo essenziale dell’Italia è la bassa produttività e, quindi, la bassa crescita e si finanziano a deficit misure (come il revival delle pensioni di anzianità e un vasto programma assistenzialistico) che incoraggeranno ulteriori perdite di produttività e un’estensione di quel lavoro nero che sfiora il 30% dell’occupazione e il livello più alto dell’Ocse. Quando Tria scriveva per Il Foglio criticava aspramente queste misure. Ora ha cambiato, o gli hanno fatto cambiare, idea.

Verosimilmente, se il disavanzo del 2,4% del Pil fosse stato mirato a finanziare investimenti a elevato tasso di rendimento interno come, oltre alla Tap, la Tav, il Terzo Valico, la Pedemontana, il programma straordinario di manutenzione, la manovra sarebbe stata vista con occhi benevoli. Ma questi investimenti sono anatema per uno degli azionisti di maggioranza (il M5S). Altri cantierabili non ce ne sono e si programmano due strutture centralizzate di tipo sovietico per produrli, un passo indietro di ben ottanta anni.

Si può fare di meglio? Una proposta alternativa è stata presentata dall’Associazione Economia Reale, guidata da Mario Baldassarri, a una giornata di studio il 7 novembre, a cui il ministro dell’Economia e delle Finanze (che avrebbe dovuto pronunciare le considerazioni conclusive) non ha partecipato. La proposta si articola in una manovra espansionistica ma non a deficit. Re-indirizzare cento miliardi di spese pubbliche da spese improduttive (40 miliardi da deathweight losses – pesi morti – di spese di parte corrente e in conto capitale; 20 miliardi da acquisti di beni e servizi della Pubblica amministrazione, 40 miliardi dalla revisione delle tax expenditures) a spese produttive (20 miliardi per eliminare definitivamente le clausole di salvaguardia, 40 miliardi per introdurre una riforma Irpef a tre aliquote, 20 miliardi per azzerare l’Irap e 20 miliardi in più per gli investimenti pubblici). Si tratta ovviamente di una provocazione dato che quaranta anni di spending review non hanno dato i risultati sperati. Ma è comunque una provocazione su cui riflette. Anche nel carteggio con Bruxelles.

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