“La partita con l’Europa non sarà facile”, lo ammette lo stesso ministro dell’Economia Giovanni Tria in audizione al Senato, tanto più che il vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha chiarito, in un’intervista a La Stampa, che ridurre il deficit al 2,2% del Pil non sarebbe sufficiente a evitare la procedura di infrazione. A quanto dovrebbe quindi essere portato il disavanzo? E quali possibilità ci sono di arrivare a un effettivo accordo tra Roma e Bruxelles? Lo abbiamo chiesto a Francesco Forte, economista ed ex ministro delle Finanze.
Professore, cosa ne pensa di quel che ha detto Dombrovskis?
Nel momento in cui da Bruxelles ci dicono che dobbiamo rispettare le regole e ci viene contestato il non rispetto di quella sul debito dobbiamo ricordarci del Fiscal compact che, seppur scritto in modo pasticciato e che si presta a molte discrezionalità, ha una sua logica economica: per ridurre i debiti eccessivi bisogna tagliare le spese o trasformare alcune di esse in riforme strutturali che accrescono l’efficienza produttiva. Nel Fiscal compact vengono stabilite anche delle regole rigide sulla discesa del debito.
Cosa comportano queste regole per l’Italia?
Una discesa del rapporto debito/Pil di circa il 2,75% l’anno. Va detto che ci sono clausole di flessibilità che possono essere usate per investimenti produttivi. Questo perché tali investimenti modificano il Pil potenziale e quindi consentono una maggiore crescita e un minor rapporto debito/Pil nel medio lungo termine. L’unico investimento a portata di mano in Italia che avrebbe questo effetto, e che piace ovviamente all’Ue, è la Tav Torino-Lione. Tuttavia, come sappiamo, è osteggiato da una parte della maggioranza.
Cerchiamo di capire una cosa: per rispettare le regole a quanto dovrebbe scendere il deficit/Pil?
Lo slittamento della riforma delle pensioni e del reddito di cittadinanza non è sufficiente. Non basta, come ha detto Dombrovskis, scendere al 2,2%, perché la regola del debito impone di arrivare all’1,9%.
Un obiettivo di fatto incompatibile con la riforma delle pensioni e il reddito di cittadinanza…
Il reddito di cittadinanza potrebbe essere rivisto nella direzione suggerita da Confindustria e dal sottosegretario Siri, in modo che possa essere utilizzato per la formazione di disoccupati direttamente in impresa, finalizzata a una possibile assunzione. Si tratterebbe di un provvedimento che aiuterebbe anche la produttività. Ovviamente rivisto in questo modo costerebbe meno di quanto preventivato. La Quota 100, invece, genera risparmi nel medio lungo termine, ma nel breve rappresenta un costo. Potrebbe quindi essere rivista.
In che modo?
Dovrebbe essere accompagnata da un meccanismo simile a quello delle assicurazioni sulla vita o del sistema contributivo pieno, in grado cioè di determinare, in base all’età di pensionamento, all’aspettativa di vita e ai contributi versati, una rendita costante. Ovviamente, come per l’Ape volontaria, tale sistema renderebbe meno conveniente il pensionamento rispetto all’ipotesi attuale di Quota 100, ma garantirebbe una “neutralità” rispetto a maggior costi nel breve e maggiori risparmi nel lungo periodo.
Rivedendo la riforma delle pensioni e il reddito di cittadinanza in questo modo si avrebbe una manovra compatibile con i vincoli europei?
Sì. L’alternativa è di fatto dimezzare le risorse stanziate per questi due interventi. Oppure realizzare uno solo dei due per come sono stati concepiti. Di certo non si può pensare di andare a ridurre i fondi per gli investimenti.
(Lorenzo Torrisi)