Ha fatto capolino in una bozza, per sparire nella versione successiva e ricomparire in tarda serata di mercoledì nel maxi emendamento che punta a riordinare la manovra. A giocare a nascondino è l’imposta che tassa al 3% i ricavi sui servizi digitali. Dalla fumosa formulazione si spazia dagli introiti pubblicitari ai ricavi di una qualsiasi transazione online: l’affitto della casa vacanza, la lettura di un giornale a pagamento, la prenotazione di un’auto condivisa, un prestito peer-to-peer, l’incontro con un altro cuore solitario, o un contratto di fornitura di corrente elettrica; e ipoteticamente molto altro ancora visto che la norma si riferisce genericamente al ricavato “derivante dalla messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni e servizi”.



Se l’intento della web tax alla cui applicazione l’Ue sta lavorando senza successo da 5 anni è condivisibile per costringere Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google (noti con l’acronimo Faang) a versare al fisco almeno una parte dei profitti che, in modo legale, riescono a dirottare verso regimi fiscali più favorevoli, meno comprensibile è l’enunciazione della web tax in salsa giallo-verde. Colpisce indiscriminatamente sia i soggetti esteri, sia le aziende italiane, le quali già sono tassate con un livello impositivo superiore alla media europea, scontano dei costi energetici elevati, e risentono delle inefficienze infrastrutturali e di una burocrazia asfissiante. Di fatto quello che dovrebbe essere uno strumento per far pagare le tasse a chi non le paga, finisce per essere un alibi per creare una tassazione aggiuntiva sul settore produttivo.



i obietterà che circoscrivendo l’ambito di attuazione a imprese con almeno 750 milioni di euro di fatturato a livello globale e più di 5,5 milioni in Italia, l’imposta incombe pressoché esclusivamente sui giganti statunitensi del web salvaguardando i gruppi nazionali (sebbene forse anche Mediaset rientrerebbe nel target). Tuttavia un’esenzione sulla carta non esclude i contraccolpi reali di un effetto sistemico. Uno per tutti: il prevedibile aumento di prezzo dei beni e servizi delle piccole e medie imprese che promuovono ed esportano il Made in Italy appoggiandosi sul market place di Facebook e Amazon. Indirettamente, la tassa pregiudica anche le start-up digitali nazionali le quali avranno, in prospettiva di una loro cessione, minore attrattiva agli occhi di un grande gruppo digitale estero.



La web tax così com’è configurata è poi in stridente contrasto con la promessa governativa di una manovra espansiva per la crescita e l’occupazione, perché va a colpire proprio il digitale e Ict, settore che cresce al 2,3%, ovvero più del doppio dell’economia italiana, e che è il principale datore di lavoro di giovani con ben 64mila le “web vacancy” nel 2017. Marco Gay, Presidente di Anitec-Assinform, la paragona brutalmente a un’accisa sull’innovazione.

Va ricordato che non è il primo tentativo di introdurre una web tax in Italia. La prima proposta a firma dell’allora presidente dell’Agenzia per l’Italia, Stefano Quintarelli, non vide mai la luce; quella rivisitata da Francesco Boccia, allora presidente della commissione Bilancio della Camera, avrebbe dovuto entrare in vigore a gennaio 2019. Adesso con la recente disposizione fiscale, tutto è sospeso fino alla promulgazione dei decreti attuativi e i primi effetti finanziari sono previsti nell’ipotesi più ottimistica, non prima della seconda metà dell’anno.

Infine, una considerazione sul contesto nel quale nasce questa web tax che costituisce chiaramente uno dei pegni che la Commissione europea ha chiesto al Premier Conte nelle trattative di riscrittura delle coperture di bilancio per non aprire una procedura di infrazione. L’obiettivo è usare l’Italia come un cavallo di Troia per riuscire nel corso dell’anno a varare una disposizione fiscale analoga per l’Europa e fiaccare così gli Stati oggi contrari. Originariamente Lussemburgo, Irlanda, Malta, ai quali recentemente si sono aggiunti Danimarca e Svezia. Anche in Francia, dove il Presidente Macron sotto smacco dalle rivendicazioni dei gilet jaunes si prepara a introdurre una tassa sui servizi digitali all’inizio dell’anno prossimo per finanziare le concessioni sociali e salariali.

Tuttavia, sfruttare la posizione dell’Italia come pesce pilota in questa delicata partita economico-fiscale, da un lato penalizza la competitività delle imprese italiane e dall’altro espone il nostro Paese a probabili ritorsioni oltreoceano. Il Presidente Trump ricorre con disinvoltura al “dazio rappresaglia” quando si tratta di tutelare le imprese statunitensi, anche quando in ballo ci sono le sorti di quelle della Silicon Valley da lui poco amate.