E così, almeno secondo quanto riportato dal Messaggero di ieri, Delta sarebbe (il condizionale è d’obbligo) in procinto di rilevare il 10% di Alitalia con la prospettiva di raddoppiare la quota nell’arco di 4 anni. L’entrata del vettore americano permetterebbe tecnicamente ad Alitalia di sviluppare rotte intercontinentali, il mercato dove i guadagni sono più consistenti. Piccolo problema: con una flotta che storicamente è basata su aeromobili di medio raggio e ancora oggi conta solo 25 macchine per questo settore sul totale di 118 della flotta, la questione diventa problematica anche perché, nonostante possegga il 40% della quota dell’attuale Alitalia, Ferrovie dello Stato non versa certo in acque finanziariamente molto floride e il potenziamento della flotta, con l’entrata di almeno 15 macchine di lungo raggio, diventa problematico.



Ho già ampiamente esposto il fatto che, a mio modestissimo modo di vedere, l’entrata di un vettore (visto che Easyjet ha comunicato di voler abbandonare la sua entrata in Alitalia) in una compagnia tecnicamente fallita e quindi da ricostruire quasi da zero, con il tempo implica più problemi che vantaggi. Le alleanze e gli scambi azionari tra vettori sono qualcosa di positivo nel mondo dell’aviazione commerciale odierno: ma a patto, lo ripetiamo, di uguali condizioni di forza, cosa che in questo momento, e ancora per un bel po’ di tempo visto che gli aerei nuovi non arriveranno spediti da Amazon il giorno dopo, non accadrà.



Inoltre, c’è da considerare un fatto importantissimo: la piccola Alitalia odierna da un po’ di tempo macina utili in rapporto con il suo traffico, anche se in una situazione finanziaria non attiva. Fatto indubbiamente positivo, calcolando che ormai si compie il decennale dell’entrata dei fumosi, pardon famosi, capitani coraggiosi, che ogni anno promettevano il pareggio di bilancio (mai arrivato) per poi cedere il posto agli emiratini di Etihad, che a loro volta parlavano di creare un gioiello, unendosi al coro renziano del miracolo annunciato prima della sua attuazione. Questo giochetto, con una Alitalia ridotta ai minimi termini attuali, è costato oltre 14.000 posti di lavoro (e due fallimenti) in un settore tecnicamente avanzatissimo, nel quale (lo ripetiamo) la perdita di un solo impiegato equivale a un granello di know-how che se ne va.



Bene, ora si parla di rilancio, nuove macchine (per modo di dire, visto che sia l’Airbus 330 che il Boeing 777 sono ormai datate, ma inizialmente permetterebbero una flotta omogenea e quindi in grado di risparmiare sui costi) di lungo raggio, espansione, ecc. Ma si discute ancor oggi di quante persone licenziare, in una compagnia che, così com’è, opera con un personale numericamente risicatissimo.

Ora, a meno che non si usino robot, cosa fortunatamente ancora un po’ in là a venire, lo sviluppo tanto annunciato con che cavolo di risorse si attuerebbe, visto che si vogliono tagliare? Qui si entra veramente nella metafisica di una questione di vitale importanza per l’Italia, ma che ancora, come abbiamo visto, non possiede una logica imprenditoriale chiarissima. Ai posteri l’ardua sentenza, come disse il Manzoni? Visti i tempi biblici della questione, che data ormai dal 1998, il rischio è notevole.