Secondo i dati della prima stima flash dell’Istat, nel primo trimestre il Pil italiano è cresciuto dello 0,2% rispetto ai tre mesi precedenti, facendo così uscire l’economia dalla recessione tecnica dovuta ai due cali consecutivi – entrambi chiusi con un -0,1% – registrati negli ultimi due trimestri del 2018. Su base tendenziale, cioè nel confronto con il primo trimestre 2018, la crescita resta tuttavia molto risicata: +0,1%. Motivi per brindare, dunque, non ce ne sono? “Con questa debole crescita e senza avere un’inflazione monstre – spiega Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison – corriamo il rischio che a fine anno saremo l’unico Paese dell’Europa in cui il debito/Pil punta verso nuovi massimi storici: 2.500 miliardi, cioè il 133-134%. Oltre tutto, abbiamo pure sprecato i margini di flessibilità che l’a Ue ci ha concesso anche quest’anno. Se non si usano i soldi in maniera intelligente per far crescere l’occupazione e la domanda interna, che viene soddisfatta con la produzione manifatturiera e dei servizi, è normale che alla fine ci si ritrovi in un cul de sac come nel 2019. E francamente non so proprio come se ne possa venir fuori”.
Intanto siamo usciti almeno dalla recessione tecnica. Come vanno letti i dati Istat?
Le informazioni disponibili sono stringate, però dobbiamo sperare che anche la seconda stima sul Pil confermi il +0,2% e che ci possa dire chiaramente quali sono le componenti dal lato dell’offerta e della domanda che hanno permesso questo risultato. Ma una cosa è già certa.
Quale?
Noi non abbiamo assolutamente importato crisi dall’estero, perché la bilancia commerciale da tre trimestri continua a dare un contributo positivo alla crescita. Quindi, sia la caduta precedente che la fine della recessione tecnica sono frutto di dinamiche legate alla domanda interna, non a quella estera. La crisi precedente era stata determinata da un crollo degli investimenti privati, in tecnologie e nei mezzi di trasporto e dalla frenata dei consumi delle famiglie.
E adesso?
Non sappiamo ancora esattamente che cosa ha fatto finire la recessione tecnica.
Il merito può essere attribuito al recente rimbalzo della produzione industriale?
Se questo rimbalzo fosse dovuto alla ricostituzione delle scorte, non sarebbe un elemento di particolare sollievo, perché le scorte si ricostituiscono un trimestre, ma non il successivo. Il problema sarà capire se c’è stato anche un miglioramento degli investimenti e dei consumi. Ma lo sapremo solo quando uscirà la seconda stima.
Resta confermato il consistente gap di crescita con il resto dell’Europa. Come mai?
Eurostat al momento presenta solo dati aggregati. La crescita dell’area euro è +0,4%, che statisticamente è il doppio della nostra, ma a preoccupare di più è il fatto che la zona euro registra un +1,2% di tendenziale sul primo trimestre 2019, mentre l’Italia ha appena il +0,1%. Cioè il resto dell’Europa, nonostante il rallentamento tedesco, anno su anno cresce molto più di noi.
Che cosa dimostra questo differenziale?
Che noi siamo fermi, e non è certo un rimbalzo tecnico, delle scorte o di qualcos’altro, che può tranquillizzarci. Andando avanti di questo passo la ripresa, che molti auspicano nel secondo semestre, sarà comunque molto modesta. A mio avviso è già tanto se il Pil nominale, cioè la somma di crescita reale, più deflatore e inflazione, arriverà al +1,5% e siccome il debito pubblico cresce di oltre il 2% all’anno, noi avremo sicuramente un aumento automatico del rapporto debito/Pil. Se poi il governo non riuscirà a realizzare i 18 miliardi di privatizzazioni, annunciati nel Def, l’Italia rischia di avvicinarsi a grandi falcate al 133-134% di debito/Pil, mentre in tutto il resto della Ue il rapporto sta scendendo. E’ un segnale molto negativo che si dà ai mercati.
Però S&P qualche giorno fa non ha declassato il rating dell’Italia…
Sì, ma non sempre potremo sperare di essere graziati dalle agenzie di rating.
Le agenzie di rating sono in attesa di vedere quali contromosse deciderà il governo. Intanto le due misure che dovrebbero dare slancio all’economia, il decreto sblocca cantieri e il decreto crescita, seguono un iter tortuoso e apporteranno ben pochi benefici. Bisognerebbe fare molto di più. Ma che spazi di manovra ci sono?
Gli spazi di manovra non ci sono, perché sono stati sprecati. La flessibilità è una specie di manna dal cielo che è piovuta da quando l’Italia ha dovuto chiedere all’Europa di non essere costretta a rispettare in modo rigido il fiscal compact, altrimenti si sarebbe distrutta l’economia appena uscita dal tunnel della crisi. La flessibilità era stata usata bene per far crescere la domanda interna e per gli investimenti.
In che modo e con quali risultati?
Sul fronte dei consumi le voci di flessibilità più importanti che abbiamo utilizzato sono stati i 9 miliardi per dare gli 80 euro a 11 milioni di persone e le risorse garantite alle imprese, attraverso decontribuzioni e incentivi vari, per assumere 500mila lavoratori a tempo indeterminato. La somma di queste due voci ha spinto i consumi italiani a toccare tassi di crescita pari al 2,3% tendenziale negli ultimi due trimestri del 2015. Tenga presente che l’Europa come tasso medio non è mai riuscita ad avere due trimestri consecutivi con un +2,3% come ha fatto l’Italia. Senza flessibilità, oggi saremmo ancora fermi al 2013.
E sugli investimenti?
Abbiamo registrato una crescita record degli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto del 14,8% nel quarto trimestre 2016, quando cioè il superammortamento è entrato a pieno regime. Poi nel 2017 è partito il piano Industria 4.0, che è andato avanti finché non è stato distrutto praticamente dal crollo della fiducia degli investitori nella seconda parte del 2018. Avendo usato la flessibilità per far crescere consumi e investimenti, il Pil italiano nel 2017 è salito dell’1,7%.
Oggi?
L’Europa non ci ha tolto i margini di manovra, anzi ci ha permesso addirittura di fare +2,04% di deficit. Ma per cosa? Purtroppo la flessibilità che avevamo ce la siamo giocata su misure elettoralistiche e non pro crescita: reddito di cittadinanza e quota 100. Vedremo se in un triennio queste misure riusciranno a far crescere l’Italia come nel 2017. E se sono contento che venga ripristinato il superammortamento, nel frattempo si è creata una discontinuità negativa nel clima di fiducia, che sarà difficile da riaggiustare.
In questo quadro molto complicato, con bassa crescita, clausole di salvaguardia che incombono e pochissimi margini per sfruttare la flessibilità, nel secondo semestre ci toccherà mettere mano a una manovra lacrime e sangue?
E’ una domanda per cartomanti. Non sappiamo ancora la tempistica a cui saremo costretti da agenzie di rating, mercati e Unione europea. Sarà forse possibile per un po’ di tempo ancora trastullarsi con l’idea che non sarà necessario fare questa manovra lacrime e sangue. Però il problema vero non è tanto che ci costringano gli altri a farla.
Dove sta il vero nodo da sciogliere?
Mentre il debito cresce, a causa degli interessi che si accumulano per lo spread, i mercati ci lasciano sulla graticola, non ci declassano perché fa comodo a tutti avere un titolo di Stato di un Paese solido come l’Italia, che è la seconda potenza manifatturiera dell’Europa dopo la Germania e il secondo mercato turistico d’Europa in termini di pernottamenti dopo la Spagna. Non siamo un Paese come la Grecia o il Venezuela di Maduro, siamo un Paese solido, dove le diseguaglianze non sono così esacerbate come in Francia o in Gran Bretagna. Solo il 38% della popolazione italiana vive in regioni che hanno un reddito medio più basso di quello della Ue a 28: in Francia sono il 72%. Siccome, però, abbiamo un debito/Pil elevato, siamo inchiodati e se lo spread tornasse intorno ai 300 o anche sopra, ci troveremmo in un angolo. Noi stiamo andando dritti a schiantarci su 2.500 miliardi di debito pubblico. E se nel 2015 siamo riusciti ad avere il più basso aumento in valore del debito, poco più di 30 miliardi di euro, l’anno scorso abbiamo fatto + 50 miliardi, come pure quest’anno, e nel 2020 forse +60 miliardi. Con questi aumenti di debito pubblico, se il Pil non cresce di altrettanti miliardi, saltano tutti i parametri.
Come si può dare allora una botta alla crescita?
Non possiamo proprio farlo. La macchina dell’economia reale funziona, però in questo momento è una macchina che non produce crescita. L’Italia ha un debito di 2.300 miliardi, su cui paga ogni anno 70 miliardi di interessi. E in questo momento, pur avendo una solida manifattura, non riusciamo a produrre una crescita di 70 miliardi all’anno che controbilanci questo fardello di interessi. Con il rischio che, aumentando il debito e salendo lo spread, questi possano via via diventare 75, 80…
E’ per questo che siamo costretti a produrre un robusto avanzo primario?
Esatto, ma questo significa sacrificare gli investimenti infrastrutturali, in reti, in tecnologie, in scuole… Siamo fermi proprio perché dobbiamo fare l’avanzo primario, che al massimo può però valere un 1,5% di Pil, ossia 30-35 miliardi. Se lo facessero Francia o Spagna, là scoppierebbe la rivoluzione. Senza dimenticare che in Italia, con il calo demografico, stanno diminuendo i consumatori. Visto che i due terzi della crescita dipendono dalla domanda interna, cosa possiamo sperare?
Aggredire il debito pubblico è una necessità, è un’urgenza. Ma come si fa a uscire da una situazione simile?
Avevamo trovato una strada: il famoso “sentiero stretto” di Padoan era l’unico modo per farlo. Ma è stato bocciato dagli elettori italiani che hanno preferito premiare chi promette il reddito di cittadinanza.
(Marco Biscella)