Tra un mese esatto, l’Italia sarà chiamata al voto per le elezioni europee. Come ci arriveremo, come Paese? I giornali tendono a non dirlo, ma la situazione, apparentemente calma, a livello internazionale è decisamente tesa.
In Cina, nell’ultima settimana, Politburo del Partito e Pboc sono intervenuti pubblicamente tre volte per ribadire, con notevoli equilibrismi, il fatto che lo Stato continuerà a supportare l’economia, ma che questo non configura l’inizio di una politica espansiva tout court. Tipico esempio di arrampicamento estremo sugli specchi, attività molto spettacolare quanto pericolosa.
E in America? Lo Standard&Poor’s sta flirtando con nuovi massimi record eppure c’è poco da stare allegri, in realtà. Non sto a ripetervi come il 90% dell’andamento azionario Usa sia legato unicamente a buybacks o denaro da Banche centrali – sia esso l’impulso creditizio cinese, riattivato per oltre un triliardo di dollari fra gennaio e marzo o lo stop alle redemptions della Fed, di fatto 32 miliardi che evitano di essere drenati dal mercato ogni mese -, però questo grafico mette la situazione in chiaro.
Di fatto, compara l’andamento proprio dello Standard&Poor’s 500 (linea blu) con il posizionamento speculativo sul Vix, ovvero sull’indice di volatilità, l’indicatore della paura. Come vedete, la linea bianca che rappresenta quest’ultimo oggi è ai minimi. Cosa significa, in soldoni? Che oltre ad aziende che ricomprano propri titoli con il badile e liquidità a costo zero delle Banche centrali che entra in circolo come metadone, gli unici operatori reali di Borsa sono clientela retail e fondi pensione: la festa del parco buoi! La quale, come la storia insegna, solitamente finisce nello scannatoio. Come lo scorso ottobre, come lo scorso Natale. E guarda caso, i minimi di posizioni short sul Vix si raggiunsero, prima del record odierno, proprio verso metà-fine settembre, prima del tonfo. Ovviamente, la dinamo di quei crolli furono i mercati emergenti, crisi della lira turca in testa, non certo l’economia Usa sanissima.
E oggi? Guardate un po’ le quotazioni del dollaro: è ai massimi, sintomo che il carico debitorio per nazioni fortemente esposte e indebitate in biglietti verdi è destinato a salire. Tipico circolo vizioso a forte rischio di auto-avvitamento e auto-alimentazione. Un nuovo innesco per la miccia del canarino nella miniera preferito da chi ha bisogno di un po’ di sano caos in Borsa da rivendere su giornali e telegiornali: tanto, la cosiddetta smart money ha già venduto gli asset più a rischio al parco buoi. E, magari, sta già operando in modalità contrarian, spesso attraverso credit default swaps. Tutta roba che stona in apertura di tg, ma che, piaccia o meno, fa girare il mondo. Insomma, mentre lo Standard&Poor’s festeggia, dietro le quinte ci si mette l’elmetto. E non solo in finanza.
Sapete cosa ha proposto l’altro giorno la senatrice Elizabeth Warren, candidata democratica del liberal Massachusetts per le presidenziali del 2020? No, non soltanto l’impeachment per Donald Trump, bensì qualcosa di più serio e sintomatico del momento che viviamo: la cancellazione di circa 640 miliardi di dollari di debiti studenteschi in essere, il tutto in base a un criterio di moratoria legato al reddito. Il piano, infatti, prevede l’eliminazione fino a 50mila dollari di debito per andare al college per chiunque abbia un reddito famigliare annuo sotto i 100mila dollari, quota che diminuirebbe per la fascia fra i 100mila e i 250mila annui (di fatto, un dollaro di moratoria ogni 3) e prevederebbe l’impossibilità di accesso alla conciliazione per chi invece vanta redditi superiori ai 250mila dollari l’anno. In Italia ci lanciamo sulla flat tax, la candidata simbolo dell’America istruita, progressista e liberale, invece, punta tutto sulla progressività nella cancellazione del debito! Eh sì, l’America è proprio la patria del liberismo selvaggio!
E’ arrivato anche oltreoceano il momento del redde rationem per la dinamica strutturale del vivere a debito, delle carte di credito come bacchette magiche, delle rate per acquistare automobili e andare all’università, del consumismo tramutato in schiavitù da Rid a vita, del vivere paycheck by paycheck, senza riuscire a mettere da parte nemmeno un dollaro a fine mese. Magari, perché si è chiesto un prestito per investire in titoli Apple o Facebook, visto che lo fanno tutti ed è un affare sicuro.
In America, però, nessuno a livello federale ti rimborsa se perdi tutto, qui invece ci pensa lo Stato fino a 200mila euro di valore mobiliare: non so quanto guadagnate voi, ma nella mia miseria ontologica, quella cifra poco si concilia con la figura del piccolo risparmiatore truffato. Voi che dite?
Siamo vicini al game over e temo che la campagna elettorale del 2020 non farà prigionieri, in tal senso. E si sa, la corsa alla Casa Bianca è operazione prima di marketing che politica. E, soprattutto, a livello globale, non certo interno ai debiti del fondo pensione dell’Illinois o agli allevamenti di maiali dell’Indiana. Insomma, sottotraccia i cambiamenti in atto sono decisamente sensibili. Anche perché tutto si basa su equilibri molto precari, su dinamiche che possono variare in un attimo.
E l’Italia, piaccia o meno, rappresenta un puntino, una variabile – ancorché strutturalmente importantissima – in un ingranaggio enorme di interessi che si intrecciano. E che, spesso, confliggono fra loro. E con quale equilibrio interno di posizione arriva il nostro Paese all’evento spartiacque dell’anno? Fateci caso: domenica in Spagna si vota per le politiche, eppure per la stampa è come se non accadesse nulla. Silenzio pressoché tombale dalla crisi di governo in poi. Persino il fronte catalano non ha più dato notizie di sé. Forse, a Madrid hanno scelto in tempi non sospetti il basso profilo, fiutando nell’aria venti troppo proni al cambiamento repentino di direzione per barche di così piccolo cabotaggio.
Noi, invece, ci siamo esposti molto in tal senso, ci sentivamo l’inaffondabile Titanic sovranista. Abbiamo smaccatamente ostentato un rapporto privilegiato con l’amministrazione Trump, forse sperando che questo ci garantisse acquisti obbligazionari da parte di chissà quale entità statunitense, una volta terminato il Qe della Bce. Contemporaneamente, il vicepremier Salvini ostentava amore eterno per la Santa Madre Russia e per il suo zar 2.0. Un po’ come Erdogan, insomma, campione del mondo di piede in due scarpe: e, infatti, ultimamente sta pagando dazio a parecchi, dolorosi calli.
Non contenti, in cambio di dieci cassette di arance, abbiamo varcato il Rubicone del Memorandum con la Cina, primo Paese del G7 ad apporre la firma. Praticamente, abbiamo poggiato la testa sul ceppo da soli. Abbiamo, poi, millantato chissà quale ruolo egemone in Libia, su diretto mandato proprio della Casa Bianca – la famosa cabina di regia, cui saremmo stati alla guida – e ora stiamo facendo i conti con un’amara realtà, visto che il nostro essere schierati smaccatamente con al-Sarraj cozza con la telefonata in versione scambio di amorosi sensi fra Donald Trump e il generale Haftar. E i nostri interessi petroliferi in Libia sono reali, altro che la panzana delle esenzioni iraniane, visto che da mesi il petrolio di Teheran non rientrava più nel computo del nostro import e l’Eni non è operativa laggiù.
In compenso, non vi pare strano che in pieno ponte fra Pasqua, il 25 aprile e il 1° maggio, con milioni di italiani in viaggio, alle pompe di benzina delle autostrade il costo del carburante abbia raggiunto, dalla sera alla mattina, i 2 euro al litro? E signori, vi assicuro che la filiera estrazione-raffinazione-distribuzione non subisce shock così immediati, solo perché il Dipartimento di Stato Usa chiude con il periodo di esenzione delle esportazioni dell’Iran, oltretutto ipotesi che era stata già ventilata a novembre, quando erano state introdotte per otto Stati, fra cui noi. Gli shock petroliferi esistono, ma sono anche calmierati, almeno in prima battuta, dalle riserve e dai contratti futures che garantiscono appunto acquisti a un prezzo predeterminato per evitare fluttuazioni, altrimenti lo stesso biglietto aereo potrebbe passare da 300 a 3mila euro a causa dell’aumento del costo del carburante.
E’ un caso, a vostro modo di vedere, che la filiera abbia immediatamente prezzato la questione iraniana come degna di un aumento del costo del carburante, come il prodromo di un nuovo 1973? Perché Goldman Sachs e le principali banche d’affari, al netto dell’annuncio di Mike Pompeo, hanno subito sottolineato nei loro report la natura transitoria di quanto sta accadendo, mantenendo le valutazioni di prospettiva per il Wti nella seconda metà di quest’anno nel range 65-70 dollari al barile. Anche perché, guardate questo grafico finale.
Al netto delle dinamiche di quote di mercato, le quali vedranno l’Arabia Saudita ben felice di subentrare all’Iran come forza compensatrice della domanda inevasa di greggio, il Paese al mondo con le riserve maggiori è il Venezuela. Il quale, mi pare, sia in una situazione di notevole tensione da qualche mese ormai: eppure, a fronte di quei silos della statale Pdvsa di cui nessuno conosce il futuro gestore reale, il prezzo del greggio non ha fatto un plissé per settimane. Ora, invece, ecco che la benzina in autostrada sale di colpo alla soglia psicologica di 2 euro al litro, in pieno ponte primaverile, in piena campagna elettorale per le europee, in piena stagione di tensione alle stelle fra alleati di governo. Il quale, appena insediatosi, parlò non a caso di taglio delle accise sul carburante come primo atto del primo Consiglio dei ministri.
Nulla accade per caso. E certe persone hanno la memoria lunga, quanto la pazienza nell’attendere il proverbiale raffreddamento di quella pietanza chiamata vendetta, al fine di gustarla meglio. La speranza è che i messaggi in codice restino tali e confinati alle pompe dei distributori, perché se da qui al 26 maggio dovessero farsi palesi attraverso lo spread, allora sarebbero davvero dolori. E non mi sento, in coscienza, di poterlo escludere. Anzi.
Perché signori, al netto di rapporti diplomatici che definire non rilassati appare un eufemismo, le banche francesi hanno in pancia 285,5 miliardi di euro di controvalore di Btp: il presidente Macron medita di ottenere un en plein politico anche internazionale, dopo aver cavalcato trionfalmente a livello interno il bluff dei gilet gialli? Proprio ora, poi, che la partita libica appare apertissima e un’Italia in crisi e di nuovo sotto pressione per i propri conti pubblici faciliterebbe molto il lavoro transalpino sul campo, al di là del Mediterraneo. Ricordate – in tal senso – come iniziò il 2011, con le banche tedesche che scaricarono 9 miliardi e passa di titoli di Stato italiani in primavera.
Ne riparleremo presto, partendo dalla decisione di Deutsche Bank e Commerzbank – comunicata ufficialmente ieri – di cessare i colloqui in vista di una fusione. Brutto segnale. Bruttissimo.