In un retroscena ben informato, Francesco Verderami ha pubblicato ieri sul Corriere della Sera i tormenti di Giancarlo Giorgetti. Il leghista sottosegretario alla vicepresidenza del consiglio, che molti considerano la testa pensante di Matteo Salvini, parla di malessere del nord, in particolare degli elettori leghisti che non hanno ottenuto quel che aspettavano (si pensi alla riduzione delle imposte sul reddito scambiate per pensioni anticipate delle quali finora sembra si avvantaggino soprattutto i dipendenti pubblici) e sono stanchi della guerriglia pentastellata. L’ansia maggiore è la legge di stabilità, cioè la manovra di politica economica per il 2020. E Giorgetti indica tre strade: il varo di una patrimoniale, lo scatto delle clausole di salvaguardia con l’aumento automatico dell’Iva per 23 miliardi di euro o lo sfondamento dei parametri di Maastricht, portando il disavanzo pubblico oltre il tetto del 3% sul Pil.
A Salvini piace la terza strada e ha detto che a lui dell’Europa non importa un fico secco, ma Giorgetti sembra molto più preoccupato. I primi due provvedimenti sono esclusi, la patrimoniale sarebbe un suicidio per la Lega, ma anche l’aumento delle imposte indirette avrebbe contro l’intero “popolo delle partite Iva”. Tuttavia sfondare il 3% oggi si presenta ancor più pericoloso che in passato.
Il giorno dopo le elezioni europee, Bruxelles chiederà i conti all’Italia. Il Governo spera che i risultati del voto possano mettere in secondo piano la questione italiana. Non solo. Salvini ha detto che un successo dei partiti sovranisti cambierà l’intero scenario, perché “nessuno ci chiederà più di aumentare l’Iva”. Occorre ricordare che la prossima legge di stabilità verrà negoziata con la Commissione uscente, forse è un bene perché eviterà di infierire, ma forse è un male perché un organismo ormai morente sarà incapace di esprimere una linea che vada al di là di pochi mesi.
Quella di Salvini rischia di essere un’illusione anche nel caso di un ottimo risultato dei sovranisti. Primo perché non esiste una forza politica coesa, i partiti neo-nazionalisti e di estrema destra sono una galassia ancora allo stato gassoso. Le elezioni faranno nascere stelle e pianeti, ma non un universo coeso. Ma la seconda e ancor più evidente ragione è che i sovranisti sono per lo più dei falchi non delle colombe: tedeschi, olandesi, austriaci, “veri finlandesi” e quant’altro vogliono il rigore nei conti pubblici, il pareggio del bilancio e la riduzione del debito, soprattutto da buoni nazionalisti non intendono farsi carico dei debiti altrui. Quanto a Marine Le Pen, France d’abord. La Lega, invece, vorrebbe una condivisione del debito italiano fino al punto da chiedere che la banca centrale sia garante in ultima istanza delle esigenze del Tesoro. Non sappiamo come sarà composta la prossima Commissione, ma per il bene dell’Italia e del suo stesso partito, Salvini dovrebbe pregare che agli affari economici e monetari non vada uno dei suoi amici sovranisti.
Dunque, nemmeno la terza delle opzioni delineate da Giorgetti è praticabile, né ora, né dopo le elezioni europee a meno di non accettare una procedura d’infrazione. Poco male? In fondo anche la Francia per anni è stata sotto procedura. Ma c’è una differenza di fondo: il debito francese che aveva la tripla A prima della crisi al peggio è sceso a due A, il che vuol dire che è considerato sicuro tanto che lo spread con i titoli tedeschi è a 39 punti base (0,39%). L’Italia ha una tripla B con spread a 268 (2,68%). Le agenzie di rating finora hanno sospeso il giudizio, anche per via delle elezioni europee. Ma se decideranno chi più chi meno un downgrading, il ballo dello spread diventerà una danza macabra.
E allora, che fare? C’è una quarta opzione che è senza dubbio la mano praticabile di tutte: un taglio del debito. L’impatto sarebbe catastrofico non solo sui mercati, ma sulle banche: una sforbiciata del 20% sui 300 miliardi di euro in pancia alle banche vuol dire trovare 60 miliardi (cioè circa due volte la capitalizzazione di Intesa Sanpaolo) per non rischiare un effetto domino.
Esiste un compromesso? C’è chi parla di combinare in modo parziale le tre ipotesi di Giorgetti: un po’ di Iva (cioè gli aumenti mirati dei quali parla il ministro Tria), un po’ di deficit in più (non oltre, ma vicino al 3%) e un po’ di patrimoniale. Sono da escludere nuove imposte sulla casa anche perché incombe la revisione del catasto, una tassa sulle grandi fortune come chiede il Movimento 5 Stelle non piace alla Lega e in ogni caso sarebbe una puntura di spillo (quella francese frutta appena 4 miliardi l’anno). Dunque non resta che colpire nel mucchio e intaccare la ricchezza finanziaria, tosando i depositi oltre i 100 mila euro.
Nel settembre 1992 il Governo guidato da Giuliano Amato decise un prelievo forzoso sui conti correnti (sei per mille). Fruttò 11.500 miliardi di lire. Troppo poco. Infatti venne introdotta l’Ici sulle case, venne aumentata l’età pensionabile, si mise mano complessivamente a una stangata da 90 mila miliardi di lire. E nemmeno quella fu sufficiente a salvare la lira che usci dall’accordo di cambio europeo (il serpente monetario). Non c’erano i vincoli di Maastricht (non ancora anche se il trattato era stato già firmato il 2 febbraio di quell’anno), ma la sovranità dell’Italia era messa in pericolo da un debito balzato in dieci anni dal 70% al 120% del prodotto lordo. Gira e rigira, si torna sempre alla casella di partenza: il debito.
Il Governo deve convincere i risparmiatori italiani e stranieri che è in grado non solo di pagare gli interessi, ma anche di ridurre il debito, sia pur gradualmente, proprio per essere in grado di onorarlo in futuro, altrimenti la musica sarà sempre la stessa, anche se sarà eseguita da diversi suonatori.