Per lunghi mesi la crisi geopolitica è stata scandita da bollettini quotidiani elementari, non diversi dai tempi della pandemia: numero di morti militari e civili sul teatro russo-ucraino e prezzo del gas sul mercato di Amsterdam. Né la guerra, né la febbre inflazionistica sembrano per ora indirizzate fuori dai rispettivi “punti morti”. Tuttavia, gli scenari del “dopo” si vanno già disegnando: anche se i segnali più interessanti vanno cercati in notizie che spesso non hanno direttamente a che fare con il conflitto nell’Europa orientale.
È il caso dell’allineamento della Gran Bretagna alle posizioni Ue nell’escalation polemica con gli Usa riguardo il massiccio piano di aiuti di stato alle imprese (370 miliardi di dollari deciso dall’Amministrazione Biden, ufficialmente per favorire la transizione energetica e calmare così l’inflazione). È di quattro giorni fa una lettera inviata a Washington da Kemi Badenoch, Segretario al Commercio estero del gabinetto conservatore guidato da Rishi Sunak. In essa Londra ricopia di fatto preoccupazioni e critiche espresse dalla Commissione di Bruxelles e ribadite personalmente dal Presidente francese Emmanuel Macron in visita alla Casa Bianca.
La Gran Bretagna è uno dei Paesi europei più colpiti dalla crisi geopolitica: è considerato in recessione (il Pil è già calato nel terzo trimestre dell’anno), mentre l’inflazione è ancora a due cifre (in corso d’anno ha toccato il 13%). E il crescendo delle agitazioni sindacali nella sanità pubblica è simbolico di un’instabilità sociale non più conosciuta da almeno un quarantennio. Tutto questo sta mettendo a dura prova le proverbiali “relazioni speciali” che hanno sempre legato il Regno Unito all’America dopo i due conflitti mondiali del secolo scorso. Quindi, nessun stupore se Londra converge su Bruxelles – anche se forse solo in chiave tattica contro gli Usa “neo-statalisti”: esercitando però nel contempo anche un “abbraccio Nato” verso l’Ue e guardando al Grande Reset degli schieramenti geopolitici indotto dall’aggressione russa a Kiev.
Ancor più curiosa ma egualmente non sorprendente è stata un’altra notizia in questa tempestosa vigilia di Natale. Tsmc, gigante taiwanese dei chip, avrebbe sciolto le riserve sul progetto di costruzione del suo primo impianto in Europa: che sorgerebbe a Dresda, nei territori dell’ex Germania Orientale. Un passo che si annuncia densissimo di significati geoeconomici. Due terzi della produzione di componenti Tsmc è attualmente destinata al mercato Usa: solo il 6% rifornisce imprese in Europa, Africa e Medio Oriente. Poi: Taiwan – sotto l’occhio del “grande protettore americano” – sta difendendo la sua autonomia dalle mire ostili della Cina, ma nel contempo sta realisticamente studiando ogni forma di “rilocalizzazione strategica” delle sue attività industriali, fra le quali la produzione di chip è centrale. E la scelta dell’Ue – anzi di un’area tedesca fino a trent’anni fa parte del blocco sovietico e oggi confinante con Polonia e repubbliche baltiche – appare più che simbolica nello stabilire collegamenti industriali fra i Paesi europei della Nato e le democrazie di mercato asiatiche legate all’America.
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