In un precedente intervento ho parlato delle “altre Alitalia”, imprese a controllo pubblico quali Ferrovie, Poste, Tirrenia e aziende di trasporto locale che manifestano problemi di inefficienza ancora più gravi del vettore di bandiera ma che non rischiano il fallimento perché operano in mercati chiusi alla concorrenza. Nell’occasione ho quantificato i costi unitari ai quali producono e messo in evidenza il loro livello eccessivo rispetto a realtà europee comparabili. Vorrei ora aggiungere alla precedente analisi qualche riflessione sul perché ci ritroviamo con aziende ancora molto distanti dal risanamento e prive per di più di strategie industriali adeguate per conseguirlo nel medio periodo e di alleggerire, già nel breve, il conto annuale per il contribuente.



Nella prima metà degli anni ’90, l’Italia avviò un impegnativo processo di riforma delle imprese pubbliche che era basato sull’avvio di consistenti processi di privatizzazione e sull’attivazione di una regolazione delle utilities affidata ad Autorità indipendenti.

La riforma si articolò su alcuni decisioni chiave: in primo luogo la trasformazione giuridico-istituzionale delle imprese pubbliche non societarie (enti pubblici e aziende autonome), quale condizione indispensabile per avviare in un secondo tempo processi di privatizzazione e ricondurre già nell’immediato la gestione di queste imprese a obiettivi e prassi di mercato; in secondo luogo la definizione di un insieme di regole generali per i processi di privatizzazione e l’inserimento in programmi di privatizzazione di imprese pubbliche che potevano essere oggetto d’interesse di investitori privati; in terzo luogo la riforma della regolazione delle utilities attraverso la creazione di Autorità indipendenti (l’Autorità per l’Energia, nata nel 1995, e l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, istituita due anni dopo). Il quadro della riforma delle imprese pubbliche fu completato con l’assegnazione diretta al Ministero del Tesoro dell’esercizio della funzione proprietaria sulle partecipazioni pubbliche residuali e con la messa in liquidazione dell’IRI.



La riforma è stata indubbiamente positiva per gli obiettivi generali perseguiti e indispensabile per attenuare il problema dell’elevato debito pubblico ma non priva di criticità rilevanti per le modalità adottate, gli obiettivi intermedi e i vincoli accolti. Al suo interno, inoltre, i governi di allora e i successivi non si accorsero di un “fallimento” rilevante che può essere definito come “paradosso delle privatizzazioni”: quando la proprietà di un’impresa passa dal settore pubblico a quello privato l’effetto atteso più rilevante è la crescita dell’efficienza produttiva che si realizza attraverso la riduzione dei costi unitari di produzione e permette di aumentare i profitti; tuttavia le aziende pubbliche che possono essere oggetto di privatizzazione sono solo quelle che realiz­zano livelli già soddisfacenti di efficienza produttiva, chiudono i bilanci in utile e sono in tal modo in grado di attrarre l’interesse dei sottoscrittori privati. Le aziende pubbliche molto inefficienti e con bilancio in pesante deficit sono difficilmente privatizzabili: solo un partner industriale con le necessarie competenze settoriali potrebbe pensare di raddrizzarne la gestione in tempi accettabili, ma nel caso di utilities nazionali monopoliste tale partner è necessariamente una grande azienda straniera.



Non risulta pertanto possibile accrescere l’efficienza produttiva delle imprese pubbliche molto inefficienti attraverso la privatizzazione se non si è disponibili a perdere il controllo nazionale delle medesime; in tal modo la privatizzazione attuata su quelle già abbastanza efficienti, accrescendo ulteriormente la loro efficienza, aumenterà in maniera preoccupante il divario rispetto alle prime che rischieranno, in assenza di significative correzioni di rotta dal punto di vista gestionale, di restare al palo.

Vi è inoltre un secondo aspetto problematico nelle privatizzazioni italiane il quale riguarda la regolazione delle utilities: per i settori produttivi interessati da processi di privatizzazione una legge generale sulle privatizzazioni del 1994 aveva richiesto l’istituzione di Autorità indipendenti di regolazione; in tal modo si eliminava la possibilità per i governi di far ricadere obiettivi atipici di politica economica, o di politica tout court, sulla gestione delle aziende privatizzate, evitando agli azionisti il rischio di caduta della redditività delle imprese e del valore delle azioni derivante dall’apposizione da parte del soggetto pubblico di obiettivi discrezionali sulla gestione delle aziende.

Una regolazione indipendente, realizzata su basi esclusivamente tecnico-economiche, ha (soprattutto) il vantaggio di proteggere i consumatori dal potere di mercato di gestori non concorrenziali, ponendo vincoli ai prezzi che essi possono praticare o alla loro crescita nel tempo; in tal modo il miglioramento dell’efficienza produttiva delle aziende privatizzate va anche a favore dei consumatori anziché tradursi esclusivamente, trasformando l’inefficienza produttiva dei monopoli pubblici in inefficienza allocativa dei monopoli privatizzati, in maggiori profitti per i gestori.

Le Autorità indipendenti non sono state tuttavia istituite nel caso italiano per i settori le cui aziende pubbliche erano talmente inefficienti (trasporti, servizio postale) da non poter neppure essere inserite in programmi di privatizzazione; le leggi generali sulle privatizzazioni, infatti, non lo richiedevano. In tal modo, tuttavia, non sono stati attivati meccanismi per evitare la ricaduta su queste aziende di obiettivi della politica e neppure per proteggere i consumatori, dal lato dei prezzi e della qualità, dalle scelte inefficienti dei gestori (un esempio per tutti: l’abolizione nel 2006 del francobollo ordinario delle lettere e, contemporaneamente, della qualità della precedente corrispondenza prioritaria). In tal modo queste aziende, già molto inefficienti, hanno potuto continuare a rimanere tali o anche a peggiorare le loro performance (le già citate Alitalia e FS, il recapito postale, il trasporto pubblico locale, la Tirrenia), realizzando in tal modo sia inefficienza produttiva che allocativa.

Vi è infine un terzo aspetto problematico, legato al ruolo del Tesoro come azionista: affidargli la gestione dei processi di privatizzazione era una scelta ovvia e ampiamente condivisibile, affidargli l’esercizio della funzione proprietaria sulle partecipazioni privatizzande e sulle quote residuali delle imprese parzialmente privatizzate pure, ma per le imprese pubbliche non privatizzabili perché troppo inefficienti è lecito esprimere qualche riserva. Il Tesoro avrebbe dovuto infatti garantire di saperle gestirle in un logica industriale, profondamente differente dalla logica finanziaria accettabile per la precedente tipologia. Il grosso problema è che non è stato in grado di farlo e che in conseguenza, a distanza ormai di quasi un ventennio dall’avvio della riforma delle imprese pubbliche italiane, nessuna di queste è fuoriuscita dall’occhio del ciclone, nessuna ha risanato i bilanci (tranne le Poste, ma ho spiegato in un’altra sede come le è stato possibile), nessuna si caratterizza per performance industriali accettabili, nessuna opera in mercati liberalizzati (tranne Alitalia, per scelte dell’Europa e non certo nostre) e nessuna sarebbe in grado di sopravvivere in mercati pienamente liberalizzati.

Poiché molte di queste imprese fanno parte del settore dei trasporti, anzi, se prese assieme coprono praticamente tutta l’offerta italiana di trasporto collettivo merci e passeggeri, la conseguenza è che in Italia il trasporto non funziona (le merci esportate dall’Italia per via area partono dall’aeroporto di Francoforte, che raggiungono su gomma, mentre le merci che dal sud est asiatico sono destinate alla pianura padana vengono sbarcate a Rotterdam) e non abbiamo ancora un servizio postale (né pubblico, perché non funziona, né privato perché in parte vietato dalle leggi e in parte impedito dal regolatore, pubblico ma tuttora subordinato alla politica).

Se il trasporto non funziona, non si comprende neppure come possa funzionare il sistema economico e al posto di Altero Matteoli avremmo bisogno di Willy Wonka come Ministro dei Trasporti, visto che era in grado di teletrasportare (purtroppo solo cinematograficamente) le barrette della sua “Fabbrica di cioccolato”.

Alitalia è sull’orlo del fallimento e tutte le altre non se la passano granché bene, tanto che si parla ormai frequentemente di “Alitalia prossime venture”, ma dal ministero dell’Economia e delle Finanze non si vedono ancora segnali di un cambiamento dall’approccio finanziario alle partecipazioni pubbliche, sinora dominante, a un approccio industriale in grado di pensare al risanamento di queste aziende prima che si instradino definitivamente sulla rotta fallimentare di Alitalia, come accadrà inevitabilmente dopo la liberalizzazione dei rispettivi mercati.

Come ho già avuto modo di ricordare Alitalia è un caso emblematico: ha chiuso in utile un solo bilancio nell’ultimo ventennio (il che deve essere avvenuto, intendo il solo esercizio in utile, per qualche inspiegabile anomalia che sarebbe interessante accertare); opera in un mercato completamente liberalizzato da dieci anni a questa parte (almeno sui cieli europei, sui quali volano sei passeggeri Alitalia su sette); il settore è stato oggetto di crisi e turbolenze rilevanti (l’11 settembre, la Sars cinese, il nuovo shock petrolifero) e mentre gli altri grandi vettori, Usa ed europei, sono stati oggetto di ristrutturazioni talvolta pesanti e fusioni, cosa ha fatto Alitalia in tutto questo tempo, nel quale ci saremmo aspettati almeno tre o quattro piani impegnativi di ristrutturazione? Assolutamente nulla. Cosa ha fatto l’azionista Tesoro in tutto questo tempo su Alitalia? Assolutamente nulla.

In realtà qualcosa hanno fatto entrambi che sarebbe stato invece meglio non fare. Alitalia, pur disponendo di meno di trenta aerei idonei al lungo raggio, ha raddoppiato dieci anni fa il suo hub, aprendo Malpensa e gestendolo con dipendenti romani in onerose trasferte dalla capitale, ma dopo soli tre anni dall’inaugurazione, a seguito dell’11 settembre, ha drasticamente ridotto l’offerta intercontinentale senza più ripristinarla nei precedenti livelli ma continuando a mantenere il doppio hub per altri sei anni (sino al marzo scorso).

L’azionista Tesoro ha concesso agli amministratori di Alitalia remunerazioni stellari, le più elevate tra i vettori europei, quale compenso per i risultati gestionali peggiori tra tutte le compagnie aeree del mondo (la remunerazione annua di Giancarlo Cimoli era tripla di quella di Jean-Cyril Spinetta, amministratore del maggiore vettore mondiale). Un anno e mezzo fa il Governo Prodi si è finalmente deciso a vendere l’azienda, unica scelta approvabile tra tutte quelle degli ultimi quindici anni, ma il bando del Tesoro ha zavorrato la cessione con così tante condizioni per l’acquirente da rendere l’azienda non risanabile; nessun compratore, comprensibilmente, ha accettato. Ha quindi riprovato con Air France ma ha permesso che l’azionista di fatto di Alitalia, il sindacato, la mettesse in fuga. Il vettore francese, che era l’unico tra i soggetti interessati a disporre di indiscutibile solidità economica e competenza industriale aveva elaborato un piano di ristrutturazione molto serio ma non drastico che non potrà essere ripetuto da nessun altro, neppure dallo stesso vettore francese se decidesse di ritornare sui suoi passi.

Infine, come ciliegina sulla torta del disastro Alitalia, in ben due occasioni nel corso della procedura di privatizzazione Tesoro e Governo hanno lasciato i vertici di un’azienda in così grave crisi senza una guida operativa manageriale: la prima volta al momento dell’uscita di Cimoli, quando ai vertici di Alitalia fu designato il prof. Libonati, insigne giurista ma certo non manager di imprese aeronautiche; la seconda volta dopo le dimissioni dell’Ing. Prato. Da aprile a settembre 2008 Alitalia, sull’orlo del fallimento, è stata gestita da un consiglio di amministrazione ridotto ai minimi termini e all’interno del quale nessun componente apportava competenze di gestione di imprese di trasporto aereo. Dulcis in fundo da un mese e mezzo a questa parte le sorti del vettore sono state affidate alle capacità di un insigne tributarista in qualità di Commissario unico.

Purtroppo, coerentemente con la logica con la quale il Tesoro ha gestito le partecipazioni pubbliche dagli anni Novanta ad oggi, l’unica mission che ha saputo riconoscersi è di trovare un compratore per l’azienda, non di risanarla. Ma se non è in grado di elaborare strategie di risanamento, e dovrebbe essere in primo luogo nell’interesse del proprietario-venditore farlo, diventa pericoloso affidare l’azienda a un acquirente senza forti competenze industriali nel settore specifico.

Questo vale per Alitalia e per tutte le altre aziende pubbliche nel limbo le cui reali criticità emergeranno inevitabilmente con le liberalizzazioni dei rispettivi mercati. Alitalia, in fondo, è la migliore di esse e rappresenta una piccolissima frazione dei lori costi e inefficienze complessive.

In tutti questi anni lo Stato imprenditore ha fatto la figura del bell’addormentato nel bosco delle partecipazioni statali. Un principessa belga di nome Concorrenza avrebbe potuto svegliarlo ma è stata trattenuta fuori dal bosco da imponenti cancellate monopolistiche. In un solo caso vi è stata un’intrusione, avvenuta dal lato aeronautico del recinto, ma l’anatema anti antitrust, contenuto nel decreto pro Cai di fine agosto, ha provveduto a ricacciare fuori dai confini l’invadente principessa comunitaria.