Nell’attuale dibattito sull’Università si scontrano due esigenze, altrettanto legittime, che debbono essere contemperate riscrivendo razionalmente le regole: da un lato quella degli Atenei, rappresentata dai Rettori, di contare su meccanismi certi di finanziamento, i quali diano luogo a risorse prevedibili e coerenti con gli obiettivi di produzione di ciascuno di essi; dall’altro lato quella della finanza pubblica, rappresentata dal Governo, di contenere la spesa. Accanto ad esse occorre però ricordarne una terza, che è dominante rispetto alle prime due e che è rimasta in secondo piano nel dibattito: l’efficienza nell’impiego delle risorse finanziarie e l’efficacia della produzione formativa e di ricerca. Si tratta di obiettivi nell’interesse di tutte le parti coinvolte e che debbono trovare concordi i Rettori che gestiscono gli Atenei, il Governo che li finanzia e soprattutto gli studenti che li usano.
Come è possibile perseguirli? Attraverso una pianificazione centralizzata con la quale burocrati ministeriali e un giovane Ministro indichino la retta via a sessanta Atenei pubblici e sessantamila docenti, imponendo loro comportamenti specifici tramite un’inflazione di norme? Oppure attraverso la concessione agli Atenei di abbondanti risorse finanziarie che la finanza pubblica non può più permettersi? La risposta è evidentemente negativa in entrambi i casi: le risorse sono scarse e il loro impiego deve essere ottimizzato, ma il desiderio di gestire le Università dal centro come se si trattasse di altrettante fabbriche del Ministero appare velleitario e rimedio peggiore del male che desidera curare. Come fare quindi per ottenere che la produzione degli Atenei sia efficiente? Se il dirigismo è una pessima strada quella dei tagli Tremontiani ai finanziamenti appare ancora peggiore: una funzione di produzione inefficiente di un’organizzazione produttiva implica che il prodotto ottenuto attraverso l’impiego di determinate risorse sarà sub ottimale (in quantità e qualità) ma la riduzione delle risorse a disposizione non raddrizzerà la funzione di produzione verso l’efficienza, si limiterà a ridurre ulteriormente quantità e qualità del prodotto.
L’unica soluzione razionale per riportare all’efficienza la funzione di produzione è di separare i destini degli Atenei da quelli della Pubblica Amministrazione, permettendo alle Università che lo desiderano di uscire dal recinto della P.A. e di divenire del tutto indipendenti. Sono tuttavia scettico sulla forma giuridica della Fondazione, che è uno strumento tipicamente utilizzato dai privati quando intendono perseguire finalità di natura pubblicistica; sembrerebbe invece più appropriato utilizzare una forma giuridica ancora di ambito pubblico, in grado da un lato di evitare la ‘privatizzazione’ del patrimonio degli Atenei e dall’altro di permetterne una netta distinzione dalla P.A.
Quando si riformarono negli anni ’80 e ’90 aziende pubbliche produttrici di servizi quali Ferrovie, Poste, Enav che erano state gestite sino ad allora all’interno dei Ministeri, come se fossero amministrazioni, si utilizzò lo strumento dell’ente pubblico economico. Non si potrebbe fare altrettanto?
L’ente pubblico economico fu utilizzato nei casi precedenti solo in via transitoria, dato che riguardava aziende che producevano per il mercato e che furono poi societarizzate. Nel nostro caso, tuttavia, alcuni elementi che caratterizzano tale forma ci sembrano di particolare interesse, trattandosi di un istituto giuridico che, come scriveva Natalino Irti: “non conosce né capitale di rischio né scopo lucrativo né distribuzione di utili, ma soltanto fondi di dotazione erogati da autorità politiche; … (e che) obbedendo a criteri di ‘efficienza’ (come recitava lo statuto dell’IRI) o di ‘economicità’ (come prescriveva la legge del dicembre 1956), introduce vincoli ed oneri…”, giudicati impropri da Irti in relazione ad aziende rivolte al mercato ma che potrebbero non risultare tali in questo caso.
L’assenza di capitale di rischio, scopo lucrativo e ripartizione di utili dovrebbe infatti tranquillizzare da un lato quanti vedono con timore la ‘privatizzazione’ dell’Università, consentendo nello stesso tempo di ottenere organizzazioni dotate di autonomia e responsabilità gestionale, chiamate a rispondere in proprio delle conseguenze delle decisioni autonomamente prese. Il vantaggio principale della forma dell’ente economico è che esso non funziona sulla base di trasferimenti finanziari dal bilancio pubblico, potenzialmente slegati dall’effettiva produzione, bensì contrattando compensi per le prestazioni svolte nell’ambito di contratti di servizio. Con questa forma lo Stato smetterebbe di comperare i fattori produttivi (professori, personale tecnico-amministrativo e beni e servizi intermedi) per acquistare invece dagli Atenei i loro prodotti, in primo luogo gli anni di formazione degli studenti, identificabili in quantità, qualità e costo unitario. Smetterebbe in tal modo di pagare la permanenza di troppi professori in Atenei con troppo pochi studenti, permettendo alle Università con molti studenti di assumere (ex novo, o chiamando per trasferimento dagli Atenei sovradimensionati) i professori mancanti.
Usando ‘prezzi’ per unità di prodotto le inefficienze non sarebbero più coperte dai trasferimenti pubblici a carico del bilancio dello Stato e, a differenza della politica dei tagli, la funzione di produzione degli Atenei sarebbe necessariamente ricondotta a efficienza, pena l’incapacità dei medesimi di reperire le risorse per finanziare i costi sostenuti in eccesso. Le inefficienze eventuali sarebbero evidenti e ricadrebbero su chi le genera, senza possibilità ulteriore di trasferirle a terzi non responsabili. Lo Stato dovrebbe modificare a tal fine il suo ruolo da finanziatore disattento ad acquirente esigente e regolatore attento. E’ in grado di farlo? Pur trattandosi di un compito molto più leggero rispetto alla pianificazione centralizzata temo di no proprio a causa delle inefficienze tipiche dello Stato italiano, in primo luogo l’avere burocrazie pubbliche acefale dominate da un ceto politico che non ha mai brillato per competenza tecnica.
A mio avviso sarebbe invece necessaria l’istituzione di un’Autorità per l’Università, avente i medesimi requisiti di competenza tecnica e di indipendenza della politica indicati dalle legge istitutiva delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità (l. n. 481/1995). L’Autorità avrebbe compiti di regolazione del sistema universitario (dei singoli Atenei che sceglieranno o che non sceglieranno di trasformarsi in enti autonomi) e anche di gestione del budget che lo Stato destina all’Università. L’Autorità avrebbe due compiti principali:
1. Finanziare la ricerca, ivi compresa una quota della remunerazione di docenti e ricercatori, che dovrebbe essere necessariamente variabile.
2. Integrare le quote d’iscrizione degli studenti agli Atenei, sulla base della condizione reddituale e patrimoniale dei medesimi e delle loro famiglie.
Riguardo al primo punto, poiché i risultati della ricerca hanno natura di bene pubblico e rivestono un evidente interesse collettivo, appare giustificato che i loro costi siano posti a carico del bilancio dello Stato e non imputati, invece, ai contributi degli studenti iscritti, anche se essi ne possono trarre vantaggio. Nello stesso tempo è opportuno che gli Atenei possano attrarre finanziamenti dal mondo produttivo e degli enti non profit, che debbono essere finalizzati a programmi addizionali di ricerca. Infine, poiché la ricerca è un’attività con risultati incerti, il finanziamento deve essere commisurato alla bontà, valutata ex ante, dei programmi di ricerca e integrato ex post attraverso componenti di premio commisurate ai risultati effettivamente conseguiti.
Per quanto riguarda, invece, il finanziamento dell’istruzione degli studenti, è evidente che la scarsità delle risorse complessive richiede una loro destinazione prioritaria (o anche esclusiva) agli studenti con condizioni reddituali e patrimoniali inferiori alla media. Il finanziamento potrebbe assumere la forma di una borsa individuale, con importo inversamente proporzionale alla propria condizione economica e legato alla tipologia di corso di laurea seguito, liberamente spendibile presso qualsiasi ateneo pubblico o privato riconosciuto dallo Stato. A mio avviso dovrebbe essere spendibile anche presso Atenei stranieri ma il beneficiario dovrebbe essere tenuto a rimborsarlo qualora, una volta conseguito il titolo, decida di svolgere all’estero la sua attività lavorativa.
Queste innovazioni permetterebbero di introdurre nel sistema universitario alcuni elementi tipici del mercato, accrescendo l’efficienza degli enti pur conservandone natura e finalità pubblicistiche: in primo luogo le quote d’iscrizione, integrate o meno da borse pubbliche, assimilabili a prezzi per i servizi utilizzati; in secondo luogo la competizione tra gli Atenei per attrarre gli studenti. Permetterebbero inoltre di ridurre drasticamente il ruolo del livello politico nelle scelte universitarie il quale verrebbe limitato al presidio della legislazione di settore e alla sola definizione pluriennale delle risorse da affidarsi all’Autorità per l’Università la quale provvederebbe alla loro allocazione sulla basi di criteri generali, discussi e condivisi dalle parti interessate e sottratti alla discrezionalità tipica delle scelte politiche fatte nel nostro paese.
E’ fondamentale sottrarre l’Università alle montagne russe della finanza pubblica italiana e ricondurla a condizioni di efficacia dei risultati ed efficienza gestionale che solo forme di competizione per l’accesso a risorse scarse possono indurre. Se questa riforma riesce, tuttavia, credo non sia necessario ridurre l’impegno finanziario pubblico verso l’Università, considerati gli elevati risparmi che si potrebbero invece più opportunamente ottenere, ad esempio, evitando di sovvenzionare le inefficienze delle utilities, consorelle della più nota Alitalia, delle quali abbiamo già avuto occasione di parlare.