Tirrenia, per chi non lo sapesse ancora, è l’Alitalia dei mari e con l’azienda di trasporto aereo in gestione commissariale condivide diverse caratteristiche di rilievo, in primo luogo l’onerosità generata sul portafoglio dei contribuenti. Nulla di paragonabile ad Alitalia: solo due miliardi di euro nell’ultimo quindicennio, meno della metà di quanto ne abbia assorbiti la ben più nota cugina dei cieli.
Sfortunatamente per il contribuente Tirrenia è molto più piccola per fatturato, solo un ottavo di Alitalia, e il peso delle sovvenzioni pubbliche annue in rapporto ad esso molto più grande. Tirrenia, in conseguenza, è relativamente più costosa per i cittadini rispetto ad Alitalia anche se non lo è anche in cifra assoluta.
Nell’ultimo quinquennio (2003-07), le perdite generate da Alitalia sono state pari complessivamente a 2,6 miliardi di euro, corrispondenti a circa l’11% del fatturato da essa realizzato; tuttavia poiché lo Stato è azionista di Alitalia solo per il 49,9%, il contribuente può consolarsi un pochino all’idea di aver perso solo 1,3 dei 2,6 miliardi di euro, corrispondenti a meno del 6% del fatturato dell’azienda aeronautica.
Nel caso del gruppo Tirrenia, il rapporto rivela un’onerosità molto più elevata: circa 200 milioni di euro di sovvenzione complessiva a fronte di un fatturato che non arriva ai 600 milioni. In sostanza meno di due terzi degli introiti provengono dalla clientela e ben un terzo dai contribuenti attraverso sovvenzioni cosiddette “per oneri di servizio pubblico”.
Ma cosa fa Tirrenia e per quali ragioni ricorre in maniera così consistente a trasferimenti pubblici? Il business di Tirrenia consiste in due tipologie di collegamenti: (i) tra diverse località della Sardegna (Porto Torres, Olbia, Arbatax, Golfo Aranci e Cagliari) e il Continente (Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli, ma anche Palermo e Trapani) attraverso la capogruppo Tirrenia S.p.A. (che collega anche la Puglia con le isole Tremiti e l’Albania); (ii) tra gli arcipelaghi minori (di Toscana, Campania, Sicilia e Sardegna) e le rispettive regioni di appartenenza attraverso quattro società regionali controllate (Toremar, Caremar, Siremar, Saremar).
Il regime di mercato nel quale opera è di libera concorrenza, poiché un regolamento dell’Unione Europea ha gradualmente liberalizzato i trasporti marittimi all’interno della comunità e per il cabotaggio continentale e verso le isole la piena liberalizzazione è entrata in vigore con l’inizio del 1999. Tirrenia incontra in conseguenza, nella maggior parte delle rotte coperte, la concorrenza di imprese private le quali non ricevono alcuna sovvenzione pubblica e riescono ciò nonostante a generare profitti; tuttavia il fatto che Tirrenia si avvalga di sovvenzioni è in grado di impedire un’equa concorrenza e di falsare la competizione tra gli operatori.
Il regime privilegiato tra lo Stato e la Tirrenia è invece il residuo di un regime regolatorio nato diversi decenni fa, nel 1974, molto prima, quindi, della liberalizzazione comunitaria. La Legge n. 684/74 di riordino del gruppo Finmare, società finanziaria delle partecipazioni marittime dell’Iri, in seguito disciolta, aveva per obiettivo dichiarato quello di realizzare una nuova politica dei trasporti marittimi per sviluppare i traffici e potenziare la flotta nazionale. A tal fine le società del gruppo (allora costituito da Tirrenia, Adriatica, Italia di Navigazione e Lloyd Triestino) avevano il compito di coprire i servizi di collegamento con le isole maggiori e minori e i servizi passeggeri nazionali di prevalente interesse turistico.
Queste attività, assieme a quelle esercitate sul fronte del trasporto merci e dei collegamenti internazionali, dovevano essere svolte «in regime di libera attività imprenditoriale»,ma per i servizi di collegamento con le isole maggiori e minori, al fine di«assicurare il soddisfacimento delle esigenze connesse con lo sviluppo economico e sociale delle aree interessate, ed in particolare del Mezzogiorno», era previsto che lo Stato potesse concedere sovvenzioni, mediante apposite convenzioni della durata ventennale nelle quali sarebbero state indicate le linee da coprire, la frequenza di ogni linea, le tipologie di navi da utilizzare e, infine, le corrispondenti compensazioni. Si avviava in tal modo un regime nel quale l’offerta da parte del gruppo pubblico non era orientata dalla domanda bensì da un ruolo pianificatorio dello Stato e i ricavi garantiti non dai consumatori ma dal committente pubblico.
Questo regime non è stato messo in crisi dalla successiva regolazione comunitaria (Regolamento CEE n. 3577 del 1992)e perdura invariato a oltre un terzo di secolo di distanza (rafforza inoltre l’idea di immobilismo del gruppo pubblico il fatto che l’attuale amministratore delegato, riconfermato per un triennio nel luglio scorso dal Governo, sia stato nominato per la prima volta in tale ruolo nel lontanissimo 1984).
Nelle norme comunitarie di settore il libero accesso al mercato di cabotaggio ammette comunque la possibilità per gli Stati di imporre agli operatori obiettivi di natura pubblica, quali ad esempio la copertura di rotte che non verrebbero spontaneamente servite dagli operatori perché antieconomiche. Il Regolamento del 1992 consente agli Stati membri di richiedere agli operatori interessati a svolgere servizi regolari di cabotaggio tra la terraferma e le isole il rispetto di determinate condizioni, quali obblighi di copertura del servizio (rotte, frequenze, capacità e tariffe), che l’armatore non assumerebbe o non assumerebbe nella stessa misura né alle stesse condizioni qualora considerasse il proprio interesse commerciale.
Il Regolamento prevedeva, molto correttamente, che l’individuazione del soggetto al quale imporre gli obblighi di servizio ed erogare le relative compensazioni avvenisse da parte di ciascun Paese membro su basi non discriminatorie (ad esempio attraverso una procedura di gara); sfortunatamente prevedeva anche che «i contratti di servizio pubblico esistenti rimangono in vigore fino alle rispettive date di scadenza».
Poiché lo Stato italiano aveva concluso nel 1988 una convenzione di servizio pubblico con l’ex Gruppo Finmare della durata ventennale, il Regolamento non è stato in grado di produrre sinora alcun effetto nel nostro Paese in relazione ai rapporti Stato-Impresa pubblica marittima e la convenzione ha di fatto rallentato lo sviluppo del settore impedendo un’equa competizione tra gli operatori. Il prossimo 31 dicembre tuttavia la convenzione scade e lo Stato italiano dovrebbe teoricamente avviare procedure trasparenti e non discriminatorie per l’imposizione di obblighi di servizio pubblico sui collegamenti per le isole, in maniera analoga a quanto si verifica già da tempo per alcune rotte aeree.
Lo farà? Ovviamente no. Se il Governo procedesse in tale direzione, Tirrenia non sarebbe in grado, avendo costi unitari maggiori dei suoi competitori perché inefficiente, di ottenere l’assegnazione dell’incarico e si ritroverebbe rapidamente nelle identiche condizioni di Alitalia, in pratica sulla via del fallimento. Per evitare a così breve distanza di tempo una seconda fine ingloriosa di un’impresa pubblica, il Governo ha appena deliberato di avviare le procedure per la privatizzazione di Tirrenia, aprendo un percorso, che non sembra voler essere di breve durata, per sottrarre le azioni dell’azienda alla finanziaria Fintecna, che è posseduta dal Tesoro, e immetterle sul mercato.
Questa scelta ha un corollario non trascurabile, come genuinamente ricordato dallo stesso Ministro dei Trasporti: «Il governo avanzerà a Bruxelles una richiesta di proroga dell’ attuale convenzione per poi attuare il processo di privatizzazione».
In sintesi la richiesta del Governo a Bruxelles sarà la seguente: «Poiché noi domani privatizzeremo Tirrenia, oggi concedeteci una deroga allo stop alle convenzioni pubbliche senza gara. In tal modo potremo rinnovare per quattro anni la convenzione con Tirrenia quale misura temporanea, in vista della privatizzazione, per sostenere i conti del gruppo armatoriale. In caso contrario non vi sarà più nulla da privatizzare».
Non è necessario disporre della sfera di cristallo per prevedere l’epilogo:
A) La deroga sarà concessa (la sentenza Alitalia di pochi giorni fa insegna).
B) I contribuenti continueranno a pagare, come prima o più di prima.
C) Si scinderà Tirrenia in una bad company dei mari (le società regionali e i collegamenti dell’Adriatico) e in una good company dei mari (i collegamenti del Tirreno), previo alleggerimento di un bel po’ di personale e delle buste paga dei rimanenti.
D) Si troveranno, e basta pescare tra quelli di Cai, dei capitani coraggiosi (ma qui ne serve in realtà uno solo) per rilevare la good company (al prezzo di un euro simbolico più l’accollo di alcune centinaia di milioni di debiti, ma non più di 300 o 400).
Nulla di nuovo, come si può vedere, sul fronte delle imprese pubbliche. In fondo avevo svelato l’esito già nel titolo: Tirrenia è l’Alitalia dei mari.