C’è una mission nelle ferrovie italiane? C’è una strategia per conseguirla? Due domande alle quali é difficile rispondere in maniera affermativa, all’indomani dell’inaugurazione della tratta ad alta velocità tra Milano e Bologna e dei notevoli disagi e lamentele che hanno interessato negli stessi giorni il trasporto pendolare.
Sia chiaro che il primo dei due quesiti non avrebbe senso se formulato in relazione a qualsiasi azienda operante in normali condizioni di mercato, in concorrenza con altri operatori. In questo caso la mission sarebbe, semplicemente, di produrre i beni e i servizi per i quali i consumatori sono disponibili a pagare e la strategia dovrebbe essere quella più efficace per conservare o accrescere le posizioni dell’azienda sul mercato.
Ma il gruppo FS non è una normale azienda di mercato, non opera in concorrenza anche se subisce quella di modalità alternative di trasporto. È, invece, un’azienda a totale partecipazione pubblica, posseduta al 100% dal Tesoro, e rientrante nell’area delle utilities, dei servizi di pubblica utilità soggetti a regolazione.
È, inoltre, un’azienda fortemente sovvenzionata dallo Stato sia per quanto riguarda il finanziamento delle decisioni d’investimento sia per quanto riguarda la copertura dei costi di funzionamento: negli ultimi otto anni (2000-2007) ha realizzato complessivamente 52,5 miliardi di euro di investimenti (corrispondenti a oltre 100 mila miliardi delle vecchie lire), in media quasi 6,6 miliardi di euro all’anno (oltre 12500 miliardi di lire); nello stesso periodo, inoltre, il gruppo per il suo funzionamento ha ricevuto sovvenzioni e utilizzato fondi pubblici per altri 35 miliardi di euro. Il conto complessivo della spesa pubblica per le ferrovie sale in conseguenza negli otto anni a quasi 88 miliardi di euro, corrispondenti a 11 miliardi in media per anno.
Quali risultati sono stati conseguiti a fronte di un impegno del bilancio pubblico così consistente? Dal punto di vista delle infrastrutture i principali riguardano il completamento e l’entrata in esercizio tra il dicembre 2005 e il dicembre 2008 di alcune tratte ad alta velocità: la Roma-Napoli, la Torino-Novara e la Milano-Bologna, per un totale di un po’ meno di 500 chilometri.
Si tratta indubbiamente di un risultato positivo, conseguito tuttavia con molte ombre: non bisogna infatti dimenticare che il progetto dell’alta velocità era stato avviato nel lontano 1990 all’interno di un piano di ristrutturazione e sviluppo dell’azienda pubblica; sono stati pertanto necessari 15-18 anni per portare a completamento neppure tutte le linee previste. Il costo di costruzione nel frattempo è lievitato: in rapporto ai chilometri realizzati è più elevato del triplo rispetto a quello sostenuto dalle ferrovie spagnole e francesi, le quali hanno realizzato linee ad alta velocità per una lunghezza pari rispettivamente al doppio e al triplo delle nostre.
I risultati dell’azienda sono invece totalmente deludenti sul fronte dei livelli di traffico. Nonostante i massicci investimenti pubblici e le tariffe ampiamente sovvenzionate, la domanda di trasporto da parte dei passeggeri è stazionaria nel tempo quando non declinante. Nel 2007 i viaggiatori delle FS hanno complessivamente percorso 45,9 miliardi di chilometri, il 2,4% in meno rispetto ai 47 miliardi dell’anno precedente; ma anche nel 2000 il dato era di 47,1 miliardi e altrettanto accadeva nel 1993, l’anno successivo alla trasformazione dell’azienda in società per azioni.
Tutte le politiche aziendali adottate in quasi un ventennio non sono riuscite a smuovere in alcun modo la domanda, che è rimasta stazionaria. Si è anzi verificato un mutamento nella sua composizione: gli utenti sulle brevi distanze, i pendolari, non ritenuti prioritari nelle politiche aziendali e spesso svantaggiati dalla programmazione delle corse sono aumentati, mentre i passeggeri sulle medie e lunghe distanze, destinatari esclusivi dei massicci investimenti sull’alta velocità, sono diminuiti in misura non trascurabile.
Nel 2007 i passeggeri dei servizi regionali, quelli sulle brevi distanze, hanno complessivamente percorso 21,8 miliardi di chilometri, il 2,5% in più rispetto ai 21,3 miliardi dell’anno precedente e l’11,3% in più rispetto ai 19,6 miliardi dell’anno 2000. I passeggeri sulle medie e lunghe percorrenze hanno invece registrato nel 2007 una diminuzione del 6,4%, passando a 24,1 miliardi di chilometri dai 25,7 dell’anno precedente (ma erano stati 27,5 miliardi nel 2000, anno rispetto il quale il dato del 2007 è più basso del 12,7%).
I dati precedenti evidenziano uno scollamento notevole tra le preferenze della domanda e le politiche dell’offerta: l’azienda insegue con i progetti dell’alta velocità una fascia di clientela che sta progressivamente abbandonando il trasporto ferroviario mentre trascura una fascia, certo con molta minore disponibilità di spesa, che vede invece nel treno un mezzo competitivo per i suoi spostamenti quotidiani.
Queste tendenze non stupiscono: da un punto di vista modale l’aereo è storicamente competitivo rispetto al treno sulle tratte superiori ai 500-600 chilometri, considerando solo i costi monetari necessari per produrre il servizio; il suo vantaggio si accentua, inoltre, se si include nel calcolo il valore del tempo risparmiato mentre si riduce in funzione degli oneri del trasporto ferroviario presi in carico dalla finanza pubblica e sottratti in tal modo al viaggiatore. La rivoluzione dei vettori low cost, inoltre, ha reso più vantaggioso il mezzo aereo rispetto al treno per i percorsi superiori ai 300 chilometri.
Il progetto italiano dell’alta velocità ferroviaria poteva dunque risultare interessante e competitivo quando è stato ideato, all’inizio degli anni ‘90, ma aveva come scenario di raffronto un mercato del trasporto aereo ancora distante dalla completa liberalizzazione, avvenuta nei paesi dell’Unione Europea solo all’inizio del 1997. Da allora, a fronte di passeggeri stagnanti sulle medie e lunghe percorrenze ferroviarie, i viaggiatori del trasporto aereo sulle rotte nazionali sono passati da 16 a 28 milioni, con un incremento complessivo del 75%.
Se l’aereo, grazie ai vettori low cost, batte il treno in termini di minori costi sopra i 300 chilometri di percorrenza, per percorsi inferiori è invece l’auto privata a battere il treno, grazie soprattutto ai minori tempi di percorrenza. Questo si verifica salvo nell’ipotesi che con l’auto si debbano percorrere tratti urbani non trascurabili; nei percorsi sino a 30-40 chilometri in uscita/entrata dalle grandi aree metropolitane, è invece il treno a essere competitivo rispetto all’auto sia in termini di costi che di tempi di percorrenza, ma di questo l’azienda ferroviaria pubblica non sembra essersi accorta.
Le FS, evidentemente, non sono ancora un’azienda di mercato, indirizzata alla soddisfazione della domanda; sfortunatamente per il cittadino/contribuente non sono neppure un’azienda adeguatamente regolata dai poteri pubblici ed efficacemente indirizzata dallo Stato proprietario. Dopo la societarizzazione del 1992 lo Stato, e il Ministero del Tesoro in particolare, si è ritrovato a svolgere un triplice ruolo: finanziatore (delle infrastrutture e dei servizi), proprietario e regolatore. Ha sbagliato nel non voler separare questi ruoli e non è riuscito a svolgerne in maniera adeguata nessuno:
Per quanto riguarda la regolazione era opportuno istituire un’Autorità indipendente per il comparto dei trasporti, come previsto nella formulazione originaria della legge 481 del 1995 che ha introdotto in Italia le Autorità di regolazione dei servizi pubblici;
Per quanto riguarda la funzione proprietaria era opportuno mettere in discussione l’assetto del gruppo FS, monopolista integrato verticalmente (gestisce quasi tutta la rete nazionale e quasi tutti i servizi che circolano su di essa) e orizzontalmente (copre il territorio nazionale, salvo alcune reti regionali secondarie); si sarebbero infatti dovuti valutare adeguatamente da un lato i benefici della liberalizzazione del mercato e dell’apertura della rete a operatori concorrenti e dall’altro quelli derivanti dalla scissione del gruppo in una pluralità di aziende, ognuna con una sua mission specifica;
Queste azioni avrebbero facilitato notevolmente il ruolo di finanziatore, permettendo risparmi adeguati e riduzioni di sprechi per la finanza pubblica.
Poiché i problemi appena ricordati erano ben noti già a metà degli anni ‘90, all’inizio del 1997 ebbi occasione di redigere per la Presidenza del Consiglio dei Ministri il testo di una direttiva di indirizzo, emana dal Presidente Prodi, la quale prevedeva una distinta societarizzazione dei differenti rami di attività del gruppo FS: la rete da un lato e i servizi dall’altro, articolati in società separate per il trasporto passeggeri su lunga distanza, per quello regionale e per il trasporto merci.
La divisione in quattro del gruppo FS era evidentemente il preludio all’avvio successivo di processi di liberalizzazione, con apertura della rete a operatori concorrenti, e a processi di privatizzazione per il segmento a lunga percorrenza, che può stare sul mercato senza sovvenzioni pubbliche, e per il trasporto merci che solo in un’ottica privatistica potrebbe essere adeguatamente rilanciato.
Ovviamente non se ne fece nulla: una feroce opposizione sindacale bloccò quel tentativo e i quasi dodici anni trascorsi hanno visto la realizzazione solo di una parte dei cambiamenti che quel provvedimento prevedeva, invece, in un tempo molto ristretto.
Poiché i problemi di allora in maggior parte persistono, invariati o aggravati, è evidente la necessità di rimettere mano al settore con una riforma organica ma mentre dodici anni fa il Governo centrale era più sensibile delle Regioni in tal direzione, oggi potrebbe essere più facile il contrario.
Dato che il gruppo FS sembra vedere il trasporto regionale più come palla al piede, rispetto ai suoi sogni ad alta velocità, che come opportunità di sviluppo dei traffici, perché le Regioni non chiedono al Governo centrale di farsene carico anche da un punto di vista organizzativo (e non solo di finanziamento)?