La costituzione della nuova Compagnia Aerea Italiana da parte di un gruppo di 16 azionisti intenzionati a rilevare e rilanciare Alitalia è un fatto molto positivo così come lo sono la leadership che sembra essere stata assunta al loro interno da Roberto Colaninno e la nomina ad amministratore delegato di Rocco Sabelli.
Si è in tal modo materializzata la tanto attesa cordata di imprenditori italiani, preannunciata già al momento dell’abbandono delle trattative da parte di Air France. Questa fase, che si è rivelata non poco difficoltosa e ha richiesto circa cinque mesi, è tuttavia la più semplice di una serie di passaggi che costellano la pista di decollo della nuova iniziativa e che dovranno essere affrontati nelle prossime settimane e mesi. Il secondo di essi è rappresentato dal passaggio alla nuova società delle attività di Alitalia necessarie per l’operatività industriale (marchio, slot, rotte, aeromobili, personale), il terzo dalla definizione di un’idonea alleanza internazionale, il quarto e ultimo dal rilancio dell’azienda che sia in grado di assicurarne, a differenza di quanto accaduto nell’ultimo ventennio, l’equilibrio economico-finanziario.
Il passaggio del testimone dalla vecchia Alitalia alla nuova compagnia appare particolarmente problematico in quanto non sono chiare le modalità con le quali dovrebbe avvenire. In un precedente intervento ho espresso diverse critiche alla parte del piano Fenice emersa sui media nel mese di luglio. Mi limito a ricordare le principali: non sono persuaso della bontà dell’idea di dividere l’attuale Alitalia in due, la parte buona e quella cattiva. L’azienda che deve essere ceduta è quella che vola ed è anche quella che perde; non ve ne sono altre. Ho inoltre alcune perplessità sull’adozione di norme e procedure ad hoc, ritenendo preferibile che la nuova compagnia acquisti da Alitalia il ramo d’azienda operativo (o l’insieme degli asset necessari per l’operatività), ovviamente conferendone il controvalore monetario o assumendo debiti dell’azienda ad esso corrispondenti.
La flotta di proprietà di Alitalia era iscritta in bilancio a fine 2007 per quasi due miliardi di euro. È evidente che la nuova compagnia dovrà acquisirla (non può pensare di trovare sul mercato 150 aerei in leasing dall’oggi al domani) ed è altrettanto evidente che i capitali complessivamente messi a disposizione dai sedici soci non sarebbero sufficienti. Poiché, inoltre, è preferibile un loro utilizzo per nuovi investimenti e per assicurare la liquidità iniziale (necessaria anche per rispondere ai requisiti di solidità finanziaria richiesti per il rilascio della licenza aeronautica), la soluzione di gran lunga preferibile appare quella di acquisire debiti quanto più possibile corrispondenti alle attività, in modo da minimizzare l’eventuale esborso monetario. Una volta ceduto il ramo d’azienda operativo quel che rimane di Alitalia S.p.A. può essere posto in liquidazione secondo le procedure ordinarie; poiché non siamo di fronte (per ora) a un grave dissesto patrimoniale i creditori dovrebbero essere quasi integralmente salvi (a differenza degli azionisti).
La tappa successiva ha per oggetto la definizione di un’adeguata alleanza internazionale, indispensabile sia nell’ipotesi che i nuovi azionisti si accontentino di mettere in piedi un vettore regionale, sia qualora ambiscano a una successiva integrazione con uno dei maggiori vettori europei di bandiera. Vi sono infatti in Europa tre sole tipologie di vettori con bilanci stabilmente in attivo e Alitalia non rientra, né può rientrare in nessuno dei tre: (a) grandi vettori low cost (solo i maggiori: Ryanair, Easyjet, Air Berlin); (b) vettori di bandiera di paesi (in genere minori) nei quali la concorrenza delle compagnie low cost non si è fatta ancora particolarmente sentire; (c) grandi vettori di bandiera nella cui attività assume un peso di assoluta dominanza il lungo raggio.
Su questi ultimi è opportuno soffermarci in dettaglio: nel 2007 in Europa i vettori di bandiera hanno realizzato nel loro insieme ottime performance, coprendo il 30% della domanda mondiale che si è rivolta ai vettori tradizionali e realizzando il 60% dei profitti mondiali; i profitti prima delle tasse hanno infatti raggiunto per la trentina di compagnie aderenti all’ Association of European Airlines (AEA) i 3,7 miliardi di euro (4,2 se si esclude il risultato negativo di Alitalia), realizzando un raddoppio rispetto all’anno precedente. Al loro interno, tuttavia i tre gruppi maggiori hanno fatto la parte del leone: Air France-KLM ha realizzato il risultato operativo più elevato, pari a 1,41 miliardi di euro, seguita dal gruppo Lufthansa con 1,38 e da British Airways con 1,19.
Perché questi grandi gruppi guadagnano e sono pervenuti ad una posizione di leadership nel mercato mondiale? Una risposta che spesso viene data, vera ma solo parziale, richiama come fattore di successo sia la grossa dimensione, sia l’appartenenza a grandi alleanze mondiali le quali permettono, attraverso l’integrazione dell’offerta e altre sinergie, la realizzazione di diverse economie sui costi di produzione.
Un fattore ancora più importante è invece rappresentato dal grande peso dei voli a lungo raggio nell’attività di queste compagnie: Air France e British realizzano ben l’87% del loro traffico passeggeri e merci, misurato attraverso le tonnellate km trasportate, su voli intercontinentali mentre solo il 13% è effettuato all’interno dei confini europei; per KLM il peso del segmento extraeuropeo arriva al 90% mentre in Lufthansa si attesta all’84%. Il lungo raggio gode di due grandi vantaggi: (a) all’aumentare della lunghezza del volo i costi unitari tendono a decrescere anche sensibilmente a causa della minore incidenza dei costi rilevanti connessi alle fasi di decollo, atterraggio e uso delle infrastrutture aeroportuali oltre che dei minori consumi di carburante nelle fasi di crociera (in un volo di 5 mila miglia il costo per posto km offerto è inferiore al 50% rispetto a quello del posto km su un volo di 500 miglia); (b) i collegamenti intercontinentali sono non liberalizzati, salvo eccezioni anche rilevanti quali il regime open sky Europa-Usa, e soggetti generalmente a regimi duopolistici regolati da accordi bilaterali tra stati.
In breve, l’industria europea del trasporto aereo è sintetizzabile nel seguente modo: (i) nel lungo raggio i costi unitari sono minori per ragioni di tecnologia di produzione e la scarsità di concorrenza permette ricavi unitari superiori ai costi; (ii) nel breve raggio i costi unitari, più elevati, stentano a trovare copertura nei ricavi a causa dell’intensa concorrenza che i vettori low cost, organizzati secondo un differente modello di business, esercitano nei confronti dei vettori tradizionali; (iii) i vettori di bandiera “full service” tendono a coprire i margini negativi del breve raggio con i margini positivi del lungo, modificando in tale senso anche il mix dell’offerta (nel 2006 i vettori AEA hanno guadagnato solo sul lungo raggio); (iv) più volano “lungo” più guadagnano (in particolare i tre gruppi che abbiamo ricordato), più volano “corto” più perdono, con un break even sostanzialmente collocato a circa il 40% di attività sul lungo raggio.
Alitalia ha sempre volato “corto”, essendo tradizionalmente specializzata sul segmento domestico e su quello europeo; dispone di pochissimi aerei adatti al lungo raggio (circa il 15% del totale) e dopo la crisi del 2001 ha fatto il grosso errore di ridimensionare in maniera permanente anziché solo transitoria la sua offerta sull’intercontinentale. Alitalia, con il suo modello di business e di offerta che il piano Fenice sembra non rimettere in discussione, ha sempre perso. Solo la fusione fallita dieci anni or sono con KLM, vettore specializzato nel lungo raggio, avrebbe potuto renderla simile agli altri grandi gruppi europei e metterla al riparo dalla conseguenze economiche di Mr. O’Leary e colleghi.
Si noti che: (a) un ipotetico vettore somma di Alitalia e KLM realizzerebbe ora anch’esso l’85% delle tonnellate km sul lungo raggio; (b) poiché a differenza di dieci ani fa non è più possibile sommare Alitalia e KLM a meno di aggiungervi anche Air France, l’analisi precedente va nella direzione della bontà dell’aggregazione di Alitalia con Air France-KLM, fallita nei mesi scorsi per ragioni politico sindacali e non certo industriali. Ovviamente, mentre conviene a un medio vettore specializzato sul breve raggio integrarsi con un grande vettore, specializzato sul lungo, per il secondo la convenienza è dubbia, sussistendo solo nel caso in cui i vantaggi in termini di sinergie e di crescita dimensionale e di quote di mercato risultino in grado di compensare i rischi dell’acquisizione di un vettore caratterizzato da un mix di offerta problematico. Per queste ragioni sarà molto difficile riallearsi con Air France o provarci con Lufthansa.
L’ultimo punto, il rilancio dell’azienda e il conseguimento dell’equilibrio economico richiedono invece un piano industriale in grado di individuare una cura adeguata per la gestione e, preliminarmente, una piena consapevolezza sui malanni di Alitalia che, contrariamente a quanto universalmente creduto, si trovano quasi tutti dal lato dei ricavi e non dal lato dei costi. La compagnia non soffre infatti di particolare inefficienza costo e i suoi costi unitari (costi operativi per posto km offerto) non appaiono anomali rispetto alle altre compagnie di bandiera, tra le quale Air France che intendeva acquisirla.
Nel 2007, secondo le stime fatte presso il Centro di ricerca CRIET dell’Università Bicocca, Alitalia ha sostenuto costi per posto km offerto pari a 7,3 centesimi di euro, più elevati ma di pochissimo rispetto ai 6,9 centesimi di Air France-KLM. Considerato il peso molto maggiore del lungo raggio nella produzione di Air France e i minori costi unitari che lo caratterizzano, si può ragionevolmente sostenere che la forbice a favore di Air France avrebbe dovuto risultare assai più elevata e che in termini di costi unitari Alitalia sia persino più efficiente rispetto al vettore d’oltralpe.
I problemi di Alitalia emergono invece dal lato dei ricavi: per ogni posto km venduto Alitalia ha infatti incassato nel 2007 come Air France (9,2 centesimi di euro), ma tenuto conto del maggior peso del breve raggio, avrebbe dovuto incassare molto di più. Air France ha infatti realizzato nel 2007 un load factor molto elevato, riuscendo a vendere l’82% dei posti km disponibili. Pertanto i 6,9 centesimi di euro di costo per posto km offerto sono divenuti 8,4 se valutati in termini di posto km venduto, valore che è risultato inferiore ai 9,2 centesimi di ricavo e ha permesso i consistenti profitti del vettore francese. Nel caso di Alitalia i posti venduti sono stati invece solo il 74% del totale; pertanto i 7,3 centesimi di costo per posto km offerto sono divenuti 9,9 se valutati in termini di posto km venduto, valore che è risultato superiore ai 9,2 centesimi di ricavo ed è all’origine del consistente passivo della gestione industriale.
Neanche il basso load factor aziendale di Alitalia può essere ritenuto anomalo: per le compagnie di bandiera esso è tipicamente basso sul breve raggio e alto sul lungo. Sui due distinti segmenti il load factor di Alitalia è stato nel 2007 allineato agli altri vettori di bandiera europei aderenti ad AEA (identico sul breve raggio e inferiore di un solo punto sul lungo), ma il dato medio del vettore è risultato inferiore per Alitalia rispetto alle maggiori compagnie per effetto della predominanza del breve raggio nei voli complessivi realizzati.
La vera grande anomalia di Alitalia, il maggiore problema del nostro vettore, è il sottodimensionamento del lungo raggio in favore del breve. E in Europa le compagnie specializzate sul breve raggio guadagnano (tranne l’ottimo 2007 che non fa testo) solo se sono grandi vettori low cost o compagnie di paesi nei quali la concorrenza non si è fatta ancora troppo sentire. Alitalia è al di fuori, per caratteristiche intrinseche, da tutti i sottoinsiemi potenzialmente profittevoli: non può contare sui margini positivi del lungo raggio, sul vantaggio di costo dei vettori low cost e neppure su una ridotta concorrenza nel mercato in cui opera; per di più non è affetta da inefficienze gravi e palesi che potrebbero essere facilmente e rapidamente rimosse da una gestione industriale non più zavorrata da vincoli politici e sindacali.
Per queste ragioni la pista del suo risanamento appare tutta in salita (a meno che non si voglia riabolire la concorrenza, danneggiando i consumatori).