La trattativa Alitalia si è notevolmente complicata negli ultimi giorni. Anziché produrre un accordo nella notte di giovedì, come inizialmente previsto, si è bloccata di fronte all’impossibilità di un punto d’incontro tra le proposte della cordata CAI e le posizioni delle organizzazioni sindacali, a loro volta non omogenee tra le differenti categorie di lavoratori. Le maggiori contrarietà sono emerse dalle organizzazioni dei piloti, fortemente preoccupate sia per il ridimensionamento previsto nell’organico della nuova azienda sia per il consistente peggioramento delle condizioni economiche indicate nella bozza di nuovo contratto di lavoro.
L’interruzione delle trattative dirette tra CAI e organizzazioni dei lavoratori, sostituite da incontri separati gestiti dai rappresentanti del Governo, si è accompagnata a voci preoccupanti circa il rischio di possibile interruzione dell’operatività dei voli a partire da oggi, causata da difficoltà nei rifornimenti di carburante. Di fronte all’aggravarsi della situazione della compagnia, inevitabile se si considera lo squilibrio crescente tra i costi operativi necessari per garantire i voli e i ricavi in progressiva riduzione a causa delle minori prenotazioni dei passeggeri, spaventati dall’incertezza, è indispensabile che si pervenga in pochissimo tempo a una via d’uscita all’attuale situazione di impasse.
Le conclusioni possibili della vicenda sembrano essere solo due: (a) si perviene rapidamente a un accordo tra CAI e sindacati, perché l’una o l’altra parte, o entrambe, cedono sugli aspetti su cui ora sono distanti e il piano Fenice può proseguire, oppure: (b) l’accordo non arriva, i soldi in cassa di Alitalia finiscono e, poiché Fantozzi non è più in grado di pagare il pieno degli aerei, i voli si interrompono e la gestione commissariale dell’azienda si trasforma in fallimento, generando una serie notevole di conseguenze negative (passeggeri che hanno pagato il viaggio senza voli, dipendenti senza lavoro, azienda senza più diritti sugli slot e senza quota di mercato da trasferire ai possibili acquirenti).
A una riflessione più attenta emerge tuttavia che queste alternative sono le sole rimaste perché tutte le azioni che risultavano fattibili da aprile scorso a oggi e che erano in grado di rendere più gestibile la situazione corrente non sono state praticate e neppure, per quanto ne sappiamo, prese in considerazione.
Dall’abbandono di Air France e dalle conseguenti dimissioni dell’amministratore delegato Maurizio Prato sino ad oggi sono stati compiuti molteplici errori i quali hanno condotto al vicolo cieco di questi giorni:
Mancata nomina in aprile di un vertice operativo di Alitalia con scelta di un manager con competenze nel settore del trasporto aereo. Anziché adottare una scelta di questo tipo l’azionista pubblico ha invece lasciato la guida di Alitalia a un consiglio di amministrazione ridotto al lumicino e i cui membri residuali, privi di competenze manageriali e industriali, erano in gran parte ansiosi di andarsene.
Assenza di qualsiasi correzione di rotta gestionale da parte del C.d.A. il quale lasciava invece l’azienda sul percorso definito in precedenza (nonostante fosse evidente che non produceva i risultati previsti e portava ad un’emorragia di passeggeri).
Assenza di politiche significative di contenimento dei costi al fine di contenere il peggioramento del risultato di bilancio. Col piano Prato, entrato in vigore a inizio aprile con l’orario estivo, Alitalia ha lasciato l’hub di Malpensa e ridotto voli e capacità complessiva offerta di circa il 16%. Occorreva in conseguenza mettere subito in cassa integrazione, ma non è stato fatto sino ad ora, una quota equivalente di personale (almeno 1500 persone) e cercare di risparmiare più che proporzionalmente sui costi complessivi di produzione.
Assenza di politiche aggressive di marketing, necessarie per conservare la clientela di Alitalia e contrastare l’ovvia tendenza a prenotare con altri vettori di fronte all’incertezza sull’operatività dell’azienda. Pur di non perdere passeggeri l’azienda avrebbe fatto meglio ad adottare persino le tariffe stracciate dei vettori low cost.
Assenza di politiche attive di gestione degli asset patrimoniali, finalizzate a trasformare in disponibilità liquide elementi dell’attivo patrimoniale non più necessari per il funzionamento dell’azienda. In particolare: (a) avrebbero dovuto proseguire operazioni straordinarie simili a quelle già realizzate durante la gestione Prato (ad esempio cessione di cespiti immobiliari); (b) gli slot non più utilizzati a seguito del ridimensionamento di inizio aprile avrebbero dovuto essere immediatamente posti in vendita (se non utilizzati per una stagione i diritti ad essi relativi decadono automaticamente); (c) i 35 aeromobili messi a terra col ridimensionamento, prevalentemente di proprietà dell’azienda, avrebbero dovuto essere posti immediatamente in vendita o dati in locazione. Non è emerso che qualcuna di queste cose sia stata fatta.
L’affidamento in esclusiva del compito di trovare una soluzione a Banca Intesa, già controparte del Tesoro nella prima parte del processo di privatizzazione poiché advisor dell’aspirante acquirente AirOne e quindi in sospetto di conflitto d’interesse. Sarebbe stato invece più opportuno da parte del Governo affidarsi ad un advisor indipendente, conservando autonomia di manovra e una pluralità di interlocutori tra i quali, per forza di cose, le tre maggiori compagnie aeree europee.
La gran quantità di tempo perso: (a) tra la cacciata di Air France e la nomina del nuovo Governo (periodo nel quale oltre all’oneroso prestito ponte si potevano almeno nominare con identico metodo bipartisan anche nuovi amministratori dell’azienda che ne ottimizzassero almeno l’impiego); (b) tra l’insediamento del Governo e la nomina di Intesa; (c) tra l’elaborazione del piano Fenice da parte di Intesa e la sua discussione con le organizzazioni sindacali. Visto che il piano era pronto già a fine luglio perché è stato messo in un cassetto per un mese intero? Per permettere alle parti in causa un adeguato periodo di relax vacanziero oppure per consentire ai soldi in cassa di Alitalia di finire, giustificando in tal modo il commissariamento e l’adozione del decreto di revisione della Marzano?
L’accettazione acritica da parte del Governo della richiesta di Intesa di transitare necessariamente per una procedura straordinaria, di rivedere su misura le preesistenti norme della legge Marzano, di permettere alle scarse risorse finanziarie messe a disposizione dai nuovi azionisti di comperare à la carte solo gli asset più interessanti delle vecchia Alitalia, evitando di spendere troppi soldi e di accollarsi troppi debiti.
Il totale disinteresse in questa fase del Ministero del Tesoro nei confronti di un’azienda partecipata della quale è azionista di controllo.
L’apparente orientamento esclusivo del Commissario Fantozzi verso la soluzione proposta da Intesa mentre sarebbe a nostro avviso prioritario che predisponesse anche un autonomo piano di ristrutturazione, come la pur rivista legge Marzano permette ancora, e valutasse la residua possibilità di offerte alternative a quella di CAI, eventualmente più vantaggiose per le numerose parti danneggiate dal dissesto Alitalia.
A causa di queste cattive scelte Alitalia si trova ora di fronte all’alternativa netta dell’accordo a breve tra le parti oppure alla cessazione dei voli. Ma l’accordo tra le parti è reso problematico proprio dalle caratteristiche del piano industriale. La variabile chiave nella trattativa è data dal costo totale del lavoro che la CAI può permettersi nei prossimi anni: poiché esso è molto inferiore rispetto alla vecchia Alitalia e sarà inoltre speso anche per i dipendenti provenienti da AirOne, per rispettarlo è necessario ridurre di una grossa percentuale sia il personale che lo percepirà che il costo del lavoro pro capite. I sindacati, e quelli dei piloti in particolare, non sono ovviamente d’accordo.
Anche se in passato sono stati corresponsabili di non poche scelte errate dell’azienda questa volta non abbiamo grandi motivi per dar loro torto: il costo del lavoro totale che CAI può permettersi dipende infatti dai ricavi che pensa di poter conseguire ed essi dipendono strettamente dalle dimensioni dell’azienda, dal numero di aerei che voleranno. Ma gli aerei che voleranno sono pochi perché l’investimento complessivo dei sedici “capitani coraggiosi” è solo di un miliardo di euro e con esso è possibile fare volare più aerei solo assorbendo anche una quota elevata dei debiti di Alitalia, accollando alla nuova società elevati oneri finanziari.
In sintesi:
1. Gli elevati sacrifici chiesti ai dipendenti di Alitalia non dipendono in maniera dominante da oggettive condizioni del mercato del trasporto aereo bensì dalle limitate dimensioni dell’investimento dei soci di CAI; per questo l’accordo tra le parti è molto difficile.
2. Ai fini della soluzione del problema è evidente che un acquirente disponibile a un più consistente impegno finanziario era molto più adatto; purtroppo l’unico che si è affacciato in passato non rispondeva ai richiesti requisiti “patriottici”.