A cosa serve la Banca del Mezzogiorno, il nuovo istituto approvato dall’ultimo Consiglio dei Ministri e nato da una vecchia idea, solo ora attuata, di Giulio Tremonti? Essenzialmente a far arrivare più credito alle attività economiche del Sud e con oneri per gli imprenditori più simili e meno penalizzanti rispetto a quelli sopportati dai loro colleghi del Nord Italia. Vi riuscirà o nascerà, invece, l’ennesimo carrozzone pubblico, destinato a far perdere soldi al contribuente per un po’ di tempo e poi a essere chiuso? 

Se si estrapola dal passato, dalla storia economica dell’Italia dell’ultimo mezzo secolo, è ragionevole attenderci che il progetto non funzionerà e che probabilmente la banca non riuscirà neppure a divenire operativa. Vi è infatti una moltitudine di progetti falliti, sia in relazione a organizzazioni pubbliche costituite per lo sviluppo del Sud sia a istituti bancari meridionali assorbiti dai loro omologhi del Nord dopo aver navigato in cattive acque e essere pervenuti in prossimità del fallimento.

Tutti ricordano la vecchia Cassa del Mezzogiorno della quale il nome della nuova iniziativa finisce con l’assomigliare in maniera eccessiva e ben poco promettente. E Sviluppo Italia? E i banchi meridionali, sopravvissuti solo come marchi per il meridione dei maggiori gruppi bancari del Nord?

Anche la Cassa del Mezzogiorno era nata con nobili intenti, nell’Italia del 1950 guidata da Alcide De Gasperi, aveva alle sua spalle un illustre pensatore e meridionalista che si chiamava Pasquale Saraceno e si rifaceva a esempi di successo quali gli enti territoriali di sviluppo istituiti negli Stati Uniti durante il New Deal. Sembrava un ente rooseveltiano ma nonostante le buone premesse gli oltre 150 miliardi di euro complessivamente erogati, o forse dovremmo dire divorati, sino alla sua definitiva soppressione nel 1992 hanno ottenuto risultati discutibili e il gap di sviluppo economico tra sud e nord non sembra aver subito ridimensionamenti apprezzabili.

E Sviluppo Italia? Nata nel 1999 dal riordino di una molteplicità di enti e società per la promozione territoriale ha avuto un percorso tutt’altro che facile e risultati deludenti tanto che ha subito un drastico ridimensionamento negli anni recenti e il cambio di denominazione in un cacofonico Invitalia, il quale fa pensare più a un produttore di viti che a un’agenzia per l’attrazione degli investimenti.

Giulio Tremonti ha giustamente ricordato, presentando la nuova iniziativa, che un tempo il Sud era dotato di istituti bancari prestigiosi, ma non ha citato le ragioni dello loro scomparsa attraverso l’assorbimento da parte di banche del Nord. Non ha ricordato, ad esempio, come il vecchio Banco di Napoli dovette essere venduto, zavorrato dalle sofferenze bancarie generate dall’occupazione della banca da parte della politica e dalla concessione del credito sulla base di criteri extraeconomici, per soli 60 miliardi di vecchie lire, equivalenti a poco più di trenta milioni di euro.

O il Banco di Sicilia, salvato dapprima, negli anni ‘90, dall’ingresso diretto nel capitale della Regione Sicilia, quindi dal Ministero del Tesoro attraverso il controllato Mediocredito Centrale, a sua volta successivamente privatizzato e acquisito, Banco di Sicilia compreso, dalla Banca di Roma, divenuta in seguito Capitalia e, infine, comperata dalla nordica Unicredit.

Le premesse sono tutt’altro che buone e la nuova istituzione nasce con un notevole pregiudizio negativo. Riuscirà a non essere una struttura inutile, a lasciar fuori la politica dalla porta, a non favorire l’erogazione del credito a soggetti ai quali le banche del Nord si guarderebbero bene dal prestare soldi? Difficile dirlo, per ora. Si potrà essere più espliciti osservando i primi passi della nuova creatura.

 

Ci consoliamo, tuttavia, osservando alcune delle caratteristiche previste. Sarà, in primo luogo, una banca di secondo livello, priva di sportelli sia per la raccolta dei fondi sia per l’erogazione del credito. Dovrà quindi appoggiarsi ad altri istituti per effettuare la raccolta, in primo luogo ai numerosi sportelli di Poste Italiane, e anche per realizzare gli impieghi. Questo è senz’altro positivo dato che, se fosse banca di primo livello, necessiterebbe di un po’ di tempo per acquisire il know how per erogare il credito, per essere in grado di valutare correttamente il merito di chi lo chiede.

 

La nuova banca potrà avvalersi di tre strumenti ad hoc: in primo luogo l’emissione di bond di scopo fino a 6,75 miliardi, per ora battezzati TREM-bond (Titoli di Risparmio Emessi per il Mezzogiorno), con tassazione agevolata al 5% per il risparmiatore persona fisica; obbligazioni assistite da garanzia dello Stato, concessa però a titolo oneroso, per finanziare le infrastrutture; la possibilità di acquistare mutui erogati dalle banche azioniste, parzialmente garantiti dal Fondo per le piccole e medie imprese.

 

Una seconda caratteristica che ci consola è il fatto che la nuova banca sarà solo promossa dallo Stato, che vi entra per un tempo limitato (cinque anni) e per una quota di capitale molto ridotta (5 milioni di euro) mentre sarà invece partecipata prevalentemente da banche private del territorio. Il rischio di un nuovo carrozzone di stato sembra quindi scongiurato, al più sarà un carrozzino degli enti bancari locali.

 

Per esporci di più in un giudizio aspettiamo tuttavia di vedere quale sarà la composizione del comitato promotore (“snello”, ha promesso Tremonti). Se sarà composto da banchieri, imprenditori ed esperti del credito, tireremo un sospiro di sollievo; se invece vedrà dei politici allora dovremo andare a rileggerci quelli che l’economista Francesco Forte ha scritto sul Giornale di venerdì scorso, esprimendo tutta la sua contrarietà all’iniziativa:

 

«In astratto si può supporre che lo Stato sia una immacolata creatura che, facendo nascere la banca del Sud con soldi pubblici e soldi privati, si asterrebbe dallo scegliere chi debba essere il presidente della nuova banca e chi l’amministratore delegato. In concreto si intravede già la corsa dei vari esponenti meridionali a candidarsi a capo di questa banca.

 

E se il presidente sarà pugliese o amico dei pugliesi, l’amministratore delegato dovrà essere siciliano o campano. E nel caso che prevalga, per tale carica, il campano, il direttore generale dovrà essere siciliano o viceversa. Bisognerebbe poi sistemare un sardo come vice presidente e un calabrese come vice direttore generale, salvo metter questi a capo del collegio sindacale. Resterebbe da piazzare un basilicatese. Potrebbe aspirare a fare il vice direttore generale, salvo che questo posto non sia rivendicato dal calabrese o dal sardo, in quanto più importante della presidenza del collegio sindacale dal punto di vista operativo e quindi clientelare».

 

Un consiglio che ci sentiamo di rivolgere al Ministro Tremonti: se vuole che gli italiani credano nel successo di questa iniziativa, nonostante tutti i cattivi precedenti storici, non metta neanche un politico nel comitato promotore.