La crisi della vecchia Alitalia ha contribuito a mantenere in secondo piano negli scorsi anni una seconda importante questione che riguarda il settore del trasporto aereo. Si tratta dell’assetto del nostro sistema aeroportuale: le regole che lo governano, i vincoli che lo limitano, la proprietà e l’equilibrio economico, gli adeguamenti infrastrutturali necessari (investimenti dentro e fuori le strutture aeroportuali), le regole tariffarie, i caratteri e poteri degli enti regolatori.
Il primo tema di rilievo è sicuramente l’adeguatezza complessiva del numero di sedi aeroportuali presenti in Italia e aperte al traffico commerciale: il numero di aeroporti è adeguato, scarso o eccessivo? Grazie alla crisi di Alitalia a questa domanda è stata data da tutte le parti negli ultimi anni una risposta profondamente sbagliata: gli aeroporti italiani sarebbero addirittura troppi e finirebbero per cannibalizzarsi, facendosi eccessiva concorrenza l’un l’altro. Sarebbe pertanto necessario realizzare un’adeguata pianificazione, specializzando opportunamente le diverse sedi. Questa era l’analisi alla base di un progetto pianificatorio del ministro dei Trasporti del precedente governo, fortunatamente incompiuto ma che sembra verrà tuttavia ripreso dall’attuale ministro, come recenti dichiarazioni alla stampa lasciano intendere.
Potrei scrivere a lungo sui rischi del pianificatore centralizzato (abbiamo dimenticato i danni prodotti nei sistemi economici dell’Est europeo prima della caduta del muro?), ma basterà ricordare che il pianificatore mette a rischio soldi del contribuente e degli agenti economici, non i suoi. Meglio pertanto far scegliere a chi perde risorse proprie quando compie scelte sbagliate, quindi agli operatori privati in liberi mercati.
In astratto anche per gli aeroporti è preferibile la proprietà privata: il gestore ha convenienza a massimizzare i traffici e nessun incentivo a distrarsi da questo obiettivo per perseguirne altri; in tal modo favorirà tuttavia lo sviluppo economico del suo territorio congiuntamente alla soddisfazione dei viaggiatori.
Ovviamente in paesi con sistemi politici e con burocrazie pubbliche efficienti la proprietà pubblica degli aeroporti può dare risultati altrettanto soddisfacenti di quella privata; l’Italia non rientra tuttavia in questa categoria di paesi, inoltre per la quasi totalità dei suoi aeroporti vige un modello di proprietà pubblica e non si può neppure parlare di eccezioni privatistiche particolarmente soddisfacenti. Il confronto tra la privata Aeroporti di Roma e la pubblica Sea (Milano) non lascia dubbi: meglio la seconda grazie al maggior livello di investimenti effettuati e al miglior conto economico, nonostante la caduta dei traffici nel 2008/09 prodotta del ritiro di Alitalia da Malpensa.
In Italia vi è una dotazione di infrastrutture aeroportuali in linea con i maggiori paesi europei: l’80% del traffico è realizzato da una trentina di sedi aeroportuali, così come avviene in Gran Bretagna e Spagna, paesi che vedono tuttavia uno sviluppo molto maggiore del traffico aereo; in Francia sono 40 gli aeroporti che garantiscono l’80% del traffico mentre in Germania solo 25, ma la Francia ha un territorio molto più esteso mentre la Germania si caratterizza per un’elevata densità abitativa e per un minor utilizzo del trasporto aereo negli spostamenti domestici. Naturalmente in tutti i paesi vi sono aeroporti minori aperti al traffico commerciale, ma non si vede perché questo debba rappresentare un fattore di preoccupazione.
I dati precedenti non evidenziano una sovra dotazione infrastrutturale, semmai l’anomalia italiana consiste nel fatto che mentre vi è sottodotazione nelle infrastrutture terrestri (autostrade e ferrovie) altrettanto non si verifica in quelle aeroportuali. È davvero stupefacente, in conseguenza, che ci si lamenti di avere un gap infrastrutturale e contemporaneamente troppi aeroporti. Meno male che li abbiamo; ciò vuol dire che potremo reggere l’incremento di domanda di trasporto aereo che vi sarà nei prossimi anni, una volta archiviata l’attuale crisi economica, e che potremo anche sopportare un’eventuale maggior crescita del nostro trasporto aereo rispetto agli altri paesi, dato che esso è stato sinora meno sviluppato, come documenta il grafico sottostante, tratto da una ricerca di Assaeroporti.
Come si può osservare, e nonostante la sua vocazione turistica, l’Italia è all’ultimo posto tra i paesi dell’UE/15 per indice di mobilità internazionale (numero di viaggiatori annui su rotte internazionali in rapporto agli abitanti). Si tratta di una posizione a partire dalla quale sono auspicabili percorsi e politiche di recupero e che mette un luce una scarsità di domanda piuttosto che un’abbondanza di offerta infrastrutturale.
La questione aeroportuale non è in conseguenza un problema di dotazione infrastrutturale bensì di regole e di regolatori. È anche a causa delle regole che il nostro trasporto aereo è meno sviluppato degli altri paesi europei e meno di quanto la conformazione geografica (le elevate distanze nord-sud, la presenza di due grandi isole) e la vocazione turistica giustificherebbero. Anche nella turistica Spagna vi sono molti aeroporti, ma in quel paese nessuno si sognerebbe di sostenere che sono troppo numerosi e di proporre regole che ne limitino l’utilizzabilità.
Desta in conseguenza non poca preoccupazione leggere in articolo del Sole 24 Ore dello scorso 27 settembre la seguente affermazione: “Matteoli, stimolato dal presidente dell’Enac, Vito Riggio, ha anche confermato che il governo è intenzionato a varare un piano nazionale degli aeroporti per cui sono già disponibili i primi studi tecnici. La mappa degli aeroporti dovrebbe concentrarsi, per il livello nazionale, a un massimo di quindici aeroporti per evitare sprechi e sovrapposizioni”. È sufficiente affermare che nella turistica Spagna nessuno si sognerebbe di sostenere una tesi del genere?
In realtà per evitare sprechi allocativi, in questo caso sottoutilizzo forzato rispetto alla domanda di mercato di capacità aeroportuale esistente (peraltro ottenuta grazie a investimenti onerosi a carico della collettività), è necessaria una sola cosa: liberalizzare. Si tratta di liberalizzare le rotte intercontinentali, consentendo a una pluralità di vettori di servirle dagli aeroporti che preferiscono (anche Malpensa, non solo Fiumicino), di consentire la cessione di slot tra vettori (mercato secondario), di rivedere la capacità di Linate secondo i suggerimenti dell’Autorità Antitrust e, infine, di rivedere la protezione monopolistica garantita alla nuova Alitalia sulle rotte nazionali. Con questi provvedimenti potremmo recuperare un po’ di posizioni nel grafico precedente, attrarre turisti e il loro desiderio di spendere sul nostro territorio.
In fondo la scelta è semplice: meglio “proteggere” l’arrivo dei turisti stranieri o la compagnia di bandiera nazionale? La Spagna ha da molto tempo scelto i primi e i risultati si vedono: nel 2007 i soli vettori low cost hanno portato in Spagna molti più turisti di quanti non ne abbiano portati in Italia i vettori di tutte le tipologie e i turisti totali incoming per via aerea sono stati in Spagna più del triplo rispetto all’Italia.
Il nostro paese ha invece sempre scelto di sacrificare il turismo pur di proteggere la vecchia Alitalia ma non è riuscito a impedirne il dissesto. In sostanza ha perso sia la capra che i cavoli.