L’accentuarsi della crisi economica, con i dati negativi sul Pil del IV trimestre 2008 che nulla di buono lasciano presagire per il 2009, ripropone l’interrogativo sulle cause che l’hanno generata e sulle “colpe” del mercato. La crisi è davvero conseguenza di troppo mercato, come da molte parti si sostiene, e il rimedio è un ruolo più ampio dello Stato tanto nelle definizione delle regole quanto come attore economico?
Per evitare di farsi convincere da giudizi affrettati conviene formulare qualche riflessione elementare su cosa si intende per mercato, sulle sue caratteristiche, vantaggi e limiti. Un mercato è l’insieme degli scambi che riguardano un determinato bene e derivano dall’incontro delle preferenze di tutti coloro che intendono vendere o acquistare. Funziona su basi volontarie, nessuno è obbligato a scambiare e tutti gli interessati prenderanno decisioni sulla base del loro interesse: chi possiede un bene e lo valuta meno del prezzo di mercato avrà convenienza a cederlo; chi non lo possiede e lo valuta di più del prezzo di mercato avrà convenienza a comperarlo.
Lo scambio avvantaggia sia il compratore che il venditore e, se non vi sono effetti negativi su terzi non partecipanti allo scambio, aumenta anche il benessere della società. Ha pertanto due effetti positivi, in termini di libertà delle scelte (vantaggio procedurale) e di aumento di benessere (vantaggio conseguenziale).
Gli effetti positivi possono tuttavia risultare limitati da due grandi nemici del suo corretto funzionamento: il potere di mercato da un lato e le asimmetrie informative dall’altro. Quando un soggetto acquisisce potere di mercato, ad esempio un venditore perché diventa monopolista (la nuova Alitalia sulla rotta Linate-Fiumicino), produce due effetti negativi: il prezzo più alto pagato dai consumatori che continueranno a comperare il bene; il mancato consumo di coloro che non possono permettersi il nuovo prezzo ma che era economicamente razionale soddisfare perché disponibili a pagare un prezzo almeno pari (o più elevato) rispetto al costo di produzione.
Le asimmetrie informative sono anch’esse nocive per il benessere collettivo: chi ci sta vendendo un’auto usata ne conosce i difetti ma non li dichiara e noi accettiamo un prezzo maggiore di quello che saremmo disposti a pagare se li conoscessimo; il venditore al quale abbiamo dato un anticipo non ci consegnerà il bene e non ci ridarrà l’anticipo (ma noi non potevamo saperlo); Lehman Brothers non ridarrà i soldi agli obbligazionisti, tratti in inganno dal basso rischio attribuito ai titoli in oggetto persino dalla nostra Abi (Associazione Bancaria Italiana).
In questi casi il mercato non produce i vantaggi attesi non a causa di suoi difetti intrinseci e inevitabili ma in conseguenza di comportamenti specifici degli operatori che lo usano. Il problema non è il mercato, sono invece gli operatori; il mercato è solo uno strumento, una sorta di attrezzo (come lo è il martello o il cacciavite per che si dedica al bricolage).
Il mercato è uno strumento finalizzato a procurare maggiore benessere attraverso gli scambi e, in quanto strumento, non può rispondere delle conseguenze dell’uso che ne viene fatto. Anche il martello è uno strumento, serve a realizzare gli scopi di chi intende piantare chiodi. Anch’esso non risponde del suo uso: se piantando un chiodo mi tiro il martello su un dito la colpa è mia, non del martello, e non mi sognerei mai di chiederne l’abolizione; allo stesso modo nessuno si sogna di chiedere l’abolizione delle auto (o una loro riduzione) per rimediare al problema degli incidenti stradali. Usare l’esempio di cattivi esiti del mercato contro il mercato come istituzione equivale a prendersela col martello a seguito delle contusioni che esso può procurare a utenti maldestri o con le auto come mezzo di trasporto per via dei numerosi incidenti che provocano.
Il mercato è imperfetto per molte ragioni ma la principale è che sono imperfetti gli operatori. Anche coloro che rischiano soldi propri spesso si sbagliano perché non dispongono di tutta l’informazione che servirebbe (ad esempio in relazione alla correttezza delle controparti), non si comportano razionalmente o con la ragionevole prudenza che sarebbe invece necessaria. In moltissimi casi gli errori compiuti dagli operatori sono di segno opposto e tendono a compensarsi; in taluni casi sono dello stesso segno e si accumulano sino a generare crisi, finanziarie ed economiche, anche gravi.
Può lo Stato rimediare ai difetti ed errori degli operatori sui mercati? Aveva ragione il Ministro dell’economia Tremonti quando sosteneva «Il mercato fin quando è possibile e il governo quando è necessario», traducendo in slogan la convinzione antiliberista che siccome il mercato non si autoregola è la politica che se ne deve occupare?
In realtà dietro il primato della politica sulla pratica del mercato si nasconde il primato del pianificatore sulle libere scelte di una molteplicità di decisori, i quali di norma rischiano risorse di loro proprietà. Appurato che il mercato è imperfetto e in esso si generano molti effetti indesiderati, il pianificatore centralizzato potrebbe però fare meglio solo se fosse un decisore non solo perfettamente informato e razionale, condizioni che si è già visto essere impossibili da rispettare per i singoli operatori del mercato, ma anche disinteressato e benevolente.
Nella realtà il pianificatore centralizzato è semplicemente uno dei decisori soggetti a errori quando, rischiando soldi propri, fanno scelte private per le quali serve una quantità limitata di informazioni. Figuriamoci di quanto si accresce l’errore quando quel soggetto è chiamato a decidere per tutti rischiando risorse altrui.
Lo Stato non può fare meglio del mercato quando agisce come attore economico. Può invece rendersi utile al mercato facendo il mestiere che gli è proprio, quello di: (a) definire in maniera adeguata la cornice giuridica dei mercati, il loro ordine giuridico; (b) far rispettare le obbligazioni delle parti, contrastando gli inadempimenti attraverso la giustizia civile; (c) sanzionando i comportamenti illeciti degli operatori attraverso la giustizia penale; (d) favorendo la circolazione dell’informazione economica come bene pubblico; (e) favorendo la concorrenza sui mercati e contrastando le pratiche monopolistiche; (f) liberalizzando i mercati e cessando di favorire le aziende pubbliche, possibilmente privatizzando le medesime.
L’Italia è indietro, e talvolta anche molto indietro, su questi fronti in tutte le statistiche e studi internazionali. I nostri ministri, economici e non, hanno quindi un gran lavoro da fare senza che si sostituiscano ai decisori economici di mercato. Nello stesso tempo l’Italia è indietro da molti anni anche dal punto di vista della crescita economica rispetto all’area Ocse e, anche se non si sono verificati fallimenti di istituzioni finanziarie, gli effetti reali della crisi attuale sulla nostra economia potrebbero rivelarsi più consistenti rispetto agli altri paesi.
Poiché in passato i governi (non solo in Italia) non sono riusciti a svolgere adeguatamente i ruoli propri del settore pubblico oggi, essendo comunque necessario contrastare gli effetti della crisi economica, si ritrovano a dover fare contemporaneamente i mestieri dello Stato e quelli del mercato. È lecito dubitare che vi riescano (tanto gli Stati Uniti quanto, a molto maggior ragione, l’Italia).
Postille:
I – L’ “errore” della crisi attuale è assimilabile al mio esempio delle martellate sulle dita, con la non trascurabile differenza che i proprietari del martello non coincidono con i proprietari delle dita. Ben venga quindi se gli Stati soccorrono i secondi ma era comunque preferibile che trattenessero i primi.
II – La crisi attuale è partita a causa di decisioni inappropriate, talvolta anche dubbie dal punto di vista del rispetto delle regole, dei massimi decisori di grandi organizzazioni, in primo luogo finanziarie. Si tratta di scelte fatte nelle organizzazioni (ad esempio predisporre determinati prodotti finanziari) che il mercato non ha saputo riconoscere e isolare (ad esempio non acquistando prodotti dubbi), ma non di decisioni fatte nel mercato. All’interno delle organizzazioni, inoltre, queste scelte, che hanno ingannato le controparti, sono state deliberate da chi non ne sconta le conseguenze, da chi non rischia risorse proprie. Per queste caratteristiche assomigliano molto di più alle decisioni dei pianificatori pubblici rispetto alle scelte sul mercato dei piccoli operatori.
Il fatto che le conseguenze delle scelte ricadano su chi le ha fatte è una buona garanzia circa il funzionamento del mercato. Purtroppo essa cade quando gli attori del mercato sono grandi organizzazioni nelle quali un azionariato diffuso non è in grado di controllare il management il quale, invece, è lasciato libero di darsi stipendi smisurati per mettere a repentaglio risorse altrui.
Prima ancora che un problema del mercato è tuttavia di un problema di governance delle organizzazioni che, in casi gravi, diventa un problema dello specifico mercato e, eventualmente, dello specifico paese. La crisi attuale è talmente grave che esso è ormai divenuto un problema dell’economia mondiale; evitiamo tuttavia di identificarlo, sbagliando, come un problema del capitalismo derivante dall’uso dell’istituzione mercato.
Sintesi conclusiva – La crisi attuale non è frutto di troppo mercato ma di troppo poco: poca concorrenza, informazione nascosta, comportamenti nascosti, regole insufficienti e/o non rispettate, eccesso di ruolo e potere di mercato delle grandi organizzazioni, autoreferenzialità dei manager e loro remunerazioni totalmente slegate da qualità, affidabilità, capacità di produrre risultati sostenibili nel tempo.