Nell’estate del 2008 Alitalia era al centro dell’attenzione dei media e del dibattito politico per le sue condizioni critiche e per il piano di “resurrezione” Fenice, allora in corso di preparazione nelle stanze di Banca Intesa; a distanza di un anno e un semestre dopo il debutto della nuova Alitalia, rifondata da Colaninno e Sabelli, non si può dire che il tema sia passato d’attualità e quasi ogni giorno ci troviamo di fronte a nuovi fatti da commentare: dal problema Atitech a quello della scarsa puntualità dei voli, ai risultati semestrali della compagnia, ai passeggeri lasciati a terra in periodo di vacanza per overbooking, ecc. Questa settimana è iniziata con alcune dichiarazioni e interviste che potremmo accomunare sotto l’insegna di “idee sbagliate sulla nuova Alitalia”. Proviamo a elencarle e a commentarle.
«Alitalia si è ripresa e funziona» ha detto Berlusconi nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi (Reuters, 7 agosto). L’affermazione è vera, ma solo in parte. È condivisibile infatti se si prende come punto di riferimento l’azienda nel suo momento peggiore, quando nel gennaio 2008 la nuova gestione rilevò il ramo aziendale dal commissario straordinario; se invece il confronto avviene, come è metodologicamente corretto, con un periodo relativamente “normale” della vecchia Alitalia, ad esempio con la vecchia azienda nel primo semestre 2007, come abbiamo fatto nel commento della settimana scorsa, la nuova Alitalia si rivela meno performante per tutti gli aspetti gestionali di maggiore rilievo: minore puntualità nei voli (10 punti percentuali in meno), riduzione della domanda più consistente della riduzione dell’offerta e conseguente minore load factor (14 punti percentuali in meno); riduzione dei costi operativi minore rispetto alla riduzione dei ricavi e conseguente peggior risultato operativo (più che raddoppiato). L’affermazione corretta dovrebbe in conseguenza risultare la seguente: «Alitalia si è ripresa e funziona rispetto al gennaio 2008 ma è ancora molto distante dai risultati della vecchia Alitalia che peraltro risultavano insufficienti e non in grado di garantire la sostenibilità aziendale nel medio-lungo periodo».
«”Le proiezioni di agosto e settembre sulle prenotazioni fanno pensare che i conti del terzo trimestre miglioreranno per Alitalia”. Lo ha detto il presidente di Alitalia, Roberto Colaninno a Sky Tg24. Colaninno si è detto “estremamente soddisfatto” dell’andamento della compagnia “in presenza di 270 mln di perdite, di cui 210 nel primo trimestre e 60 nel secondo”» (Ansa, 9 agosto). In questo caso l’errore consiste nell’interpretare la riduzione della perdita tra il primo e il secondo semestre e il suo probabile azzeramento nel terzo come effetto di un trend positivo mentre essa risente invece in maniera favorevole della consueta componente stagionale primaverile-estiva e del superamento di un primo trimestre eccezionalmente critico a causa della precedente gestione commissariale.
In realtà tutte le compagnie aeree migliorano nel terzo trimestre dell’anno ma per chiudere in utile l’esercizio devono anche fare in modo che i guadagni realizzati nel secondo e nel terzo trimestre siano più consistenti delle perdite subite nei due trimestri di bassa domanda (il primo e il quarto). Per la nuova Alitalia la vera cartina al tornasole sarà proprio il quarto trimestre per il quale è tuttavia ancora molto presto per azzardare previsioni.
«L’idea di trasformare AirOne nella low cost del gruppo Alitalia è “un’ipotesi che va valutata con molta attenzione. Non è in esame oggi, è troppo presto, perché AirOne è un marchio importante e prima di distruggerlo ci si pensa parecchio”. Ne ha parlato ieri il presidente di Alitalia, Roberto Colaninno, intervistato da Sky Tg24» (MF Dow Jones News, 10 agosto). In questa affermazione vi sono alcune idee poco condivisibili: sembra difficile che una low cost possa convivere efficacemente all’interno del gruppo di un vettore di bandiera.
Vi sono diversi ostacoli al riguardo ma due sembrano nettamente dominare: (a) in primo luogo il fatto che l’obiettivo principale di un vettore low cost è quello di fare concorrenza, sottraendo passeggeri, ricavi e margini, al vettore di bandiera di riferimento dello specifico paese (che nella fattispecie sarebbe anche il suo proprietario); (b) in secondo luogo il fatto che per garantire minori costi unitari e poter praticare tariffe più basse la compagnia low cost deve pagare meno e far lavorare di più il proprio personale rispetto al vettore di bandiera e questo genererebbe asimmetrie difficilmente accettabili all’interno di uno stesso gruppo. Per queste e altre ragioni le principali esperienze di vettori low cost sorti all’interno di gruppi tradizionali, i casi Go e Buzz, si conclusero nei primi anni 2000 con la loro cessione da parte dei proprietari, British e Klm, ai due più affermati vettori low cost, EasyJet e Ryanair, che in tal modo rafforzarono notevolmente la loro posizione all’interno del mercato europeo. Non è invece sbagliato differenziare fortemente le tariffe applicando “low fares” a voli tradizionali ma affinché la strategia funzioni è anche necessario poter contare su una buona percentuale di passeggeri disposti a pagare ben più della tariffa media.
L’affermazione di Colaninno è in ogni caso preoccupante perché delinea un’assenza di chiarezza strategica. Se si scegliesse davvero il modello low cost per AirOne saremmo al secondo cambiamento di rotta in pochissimi mesi: l’originario piano Fenice aveva scelto per il nuovo gruppo un modello ben preciso, quello del vettore di bandiera nazionale concentrato sui segmenti protetti dalla concorrenza (voli domestici) e che avrebbe riequilibrato i conti grazie a tariffe mediamente più elevate su di essi. Poiché le alte tariffe praticate nelle prime settimane di operatività della nuova azienda avevano contribuito a far viaggiare aerei vuoti, tale modello è stato immediatamente dismesso in favore di politiche tariffarie molto più flessibili e disponibili a minori proventi per passeggero pur di riportare i viaggiatori a bordo. Se si adottasse infine il modello low cost per uno dei segmenti di offerta, saremmo esattamente agli antipodi del modello originario pensato da Banca Intesa. Ma il fatto che il primo non abbia funzionato non può farci escludere a priori che altrettanto non debba avvenire col suo opposto.