È poco probabile che governo e sindacati riescano a convincere Fiat a salvare lo stabilimento di Termini Imerese. La Fiat è infatti obbligata dalla concorrenza, come tutti gli altri produttori mondiali, a obbedire al mercato prima che ai governi.

Gli stati, e tra questi l’Italia, possono cercare di attuare politiche industriali entro il recinto dei loro confini ma il mercato dell’auto, che era già globalizzato e lo sarà ancora di più dopo lo crisi, non ha nessuna intenzione di permettere alle imprese, in competizione serrata, di sottostare alle direttive industriali dei governi.



Non sembrano esservi alternative: se Termini Imerese non è competitivo, dato che ogni auto prodotta ne esce gravata da mille euro in più di costi, e questa assenza di competitività non sembra reversibile, allora non si può continuarvi in condizioni economiche sostenibili la produzione di veicoli.

In altri tempi, in particolare sino alla fine degli anni ‘70, il governo aveva potenti strumenti di persuasione economica come gli incentivi finanziari diretti alla localizzazione in aree a minore sviluppo o le svalutazioni competitive, allora tanto di moda. Oggi i governi, vincolati dalla moneta unica e dall’antitrust europeo, possono mettere sul piatto solo incentivi ai consumatori, finalizzati alla sostituzione di veicoli vecchi e inquinanti; sono poi i consumatori a scegliere a quali marche affidarsi.



Gli incentivi italiani alla rottamazione del 2009 hanno salvato il mercato delle autovetture, dato che chiuderà l’anno sugli stessi livelli del precedente, e cioè con poco più di 2,1 milioni di immatricolazioni, e hanno generato grandi cambiamenti nella composizione della domanda favorendo le prime due fasce di veicoli, cioè utilitarie e superutilitarie, e motorizzazioni alternative alle tradizionali diesel e benzina.

Non hanno però aiutato particolarmente il gruppo Fiat dato che in un anno guadagna meno di un punto percentuale di quota di mercato a scapito delle marche estere. Poiché il governo non può scambiare incentivi destinati a tutti i produttori in cambio di scelte industriali della sola Fiat, esso appare destinato a perdere, al contrario di quello francese che nello scorso anno, quando ha chiesto ai produttori nazionali di non delocalizzare, ha anche messo sul piatto sei miliardi di euro di finanziamenti al settore, cifra che la finanza pubblica italiana non può permettersi e che non sarebbe in ogni caso opportuno concedere.



Per comprendere in maniera adeguata il caso italiano è comunque necessario esaminare con attenzione i principali mercati europei dell’auto. Nei paesi dell’Europa occidentale (UE/15+Svizzera, Norvegia e Islanda) il mercato valeva prima della crisi 14-15 milioni complessivi di autovetture immatricolate all’anno. Di esse i quattro quinti riguardano i cinque principali mercati nazionali: quello italiano viene subito dopo il tedesco (che vede 3-3,5 milioni di autovetture all’anno) ed è quindi il secondo, sostanzialmente a pari merito col britannico (2,2-2,5 milioni ciascuno); seguono il mercato francese (2-2,2 milioni) e quello spagnolo (1,4-1,6 milioni negli anni precedenti la crisi del 2008).

Questi cinque paesi, che presentano una domanda abbastanza simile di autovetture nuove ogni 100 abitanti, si differenziano tuttavia notevolmente dal lato della produzione. Solo in tre di essi vi è una presenza rilevante di grandi marchi e produttori nazionali: la Germania (con Volkswagen, Daimler, Bmw e Porsche), la Francia (con Psa e Renault) e l’Italia (col gruppo Fiat); inoltre mentre in Germania vi sono anche rilevanti produzioni di marchi a proprietà estera (Ford e Opel-Gm), in Gran Bretagna e Spagna gli stabilimenti produttivi presenti appartengono quasi interamente a una molteplicità di aziende estere.

 

Vi è una differenza fondamentale tra Gran Bretagna e Spagna da un lato e Italia dall’altro: nei primi due paesi l’assenza di grandi produttori nazionali non impedisce di avere un elevato livello produttivo di auto sul territorio; in Italia, al contrario, la presenza di un grande produttore nazionale (il gruppo Fiat) non è sufficiente a garantire un’elevata produzione, come si può osservare dal grafico seguente che confronta per ogni paese il valore medio della produzione e delle immatricolazione nel periodo 2000-08.

 

 

Il problema Italia/mercato auto è tutto qui: nel 2008 ogni tre auto immatricolate nel nostro paese ne è stata prodotta in stabilimenti italiani solo una, mentre le rimanenti due rappresentano importazioni nette. La produzione nazionale si è inoltre ridotta sensibilmente negli ultimi anni: da più di 1,4 milioni di veicoli all’inizio del decennio a 910 mila nel 2007 e 660 mila nel 2008.

 

In Gran Bretagna, invece, la produzione nazionale si attestava su 1,5-1,6 milioni all’inizio del decennio e nel 2008, nonostante la recessione, è stata di poco inferiore al milione e mezzo. Questo implica che ogni tre vetture immatricolate ne sono prodotte due in questo paese e solo una è coperta con importazioni nette.

 

In Spagna va ancora meglio in quanto la produzione nazionale eccede largamente il fabbisogno domestico di vetture: dal 2000 al 2007 la produzione ha oscillato tra i 2,2 e i 2,4 milioni per scendere sotto i 2 milioni solo nel 2008. Questo significa che ogni due vetture immatricolate ne vengono prodotte tre in stabilimenti nazionali e una di esse rappresenta esportazioni nette.

 

Anche Francia e Germania, paesi con rilevanti produttori nazionali, sono esportatori netti. La Francia nei primi anni del decennio si trovava in una condizione simile alla Spagna: ogni due vetture immatricolate ne venivano prodotte tre in stabilimenti nazionali e una di esse rappresenta esportazioni nette. Negli anni più recenti vi sono stati tuttavia rilevanti processi di delocalizzazione che hanno portato fuori dai confini nazionali circa un terzo della produzione. Questo implica che ora ogni due vetture immatricolate ne vengono prodotte in stabilimenti nazionali solo poco più di due (per la precisione 2,2).

 

Arriviamo infine alla Germania: qui la pluralità e robustezza dei produttori, sia a proprietà nazionale che estera, fa si che ogni cinque auto immatricolate ne siano prodotte sul territorio ben nove (quasi il doppio), per una produzione complessiva che supera i 5,5 milioni di unità.

 

Questi pochi dati sono sufficienti a spiegare il grande errore di politica industriale compiuto nel nostro paese in relazione al mercato dell’auto. Tutti i governi che si sono succeduti hanno infatti sempre identificato l’auto con la Fiat e commisurato le politiche pubbliche, come si continua senza esitazione a fare con Ferrovie, Poste e Alitalia, alle esigenze del grande gruppo nazionale.

 

Non hanno invece compreso che una condizione di concorrenza non solo sulle vendite ma anche sulla produzione avrebbe giovato con grande probabilità alla stessa Fiat e con certezza al mercato e al Pil nazionale. Ora, invece, l’Italia è l’unico tra i grandi paesi dell’Unione a non avere aziende automobilistiche a proprietà estera che producono sul suo territorio ed è, in conseguenza, anche quello col maggior sbilancio, percentuale e assoluto, tra produzione nazionale e immatricolazioni.

 

Si tratta di un errore difficilmente rimediabile che tuttavia genera un insegnamento incontrovertibile: (1) non insistere nell’indurre imprese che operano in mercati globalizzati fortemente concorrenziali a conservare scelte localizzative non competitive; (2) difendere il lato debole, i lavoratori, ricercando per essi soluzioni lavorative alternative; (3) se qualche produttore straniero di auto, magari asiatico, volesse insediarsi in Italia, non esitare a stendergli un bel tappeto rosso.

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