Esattamente 15 anni fa, con l’approvazione della legge 481 del 14 novembre 1995, il nostro paese avviava un’impegnativa riforma della regolazione delle utilities basata, come nel modello britannico, sull’assegnazione delle funzioni ad “Autorità amministrative indipendenti” costituite per i differenti settori. Si intendeva in tal modo superare il precedente modello di regolazione ministeriale, i cui risultati erano stati piuttosto deludenti, e introdurre una nuova regolazione, fondata su basi esclusivamente tecnico-economiche e impermeabile sia a obiettivi eterogenei di politica economica (quali mantenere sotto controllo l’inflazione o usare le utilities come ammortizzatore della disoccupazione) che alle interferenze della sfera politica.



La riforma del 1995 fu accelerata dalle esigenze derivanti dai processi di privatizzazione, destinati a interessare anche le utilities, e dalla necessità di governare i processi di liberalizzazione che l’Unione Europea si apprestava a richiedere agli Stati. La connessione della riforma della regolazione con i processi di privatizzazione è infatti testimoniata dall’art. 1 bis della legge 474 del 1994 “Norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli Enti pubblici in società per azioni” il quale stabiliva che le dismissioni di partecipazioni azionarie pubbliche fossero subordinate alla creazione di organismi indipendenti per la regolazione delle tariffe e il controllo della qualità dei servizi di rilevante interesse pubblico.



È dunque in attuazione di tale norma che la legge 481 riformava la regolazione affidandone i compiti ad Autorità appositamente costituite. Nel suo disegno originale essa prevedeva l’istituzione di quattro differenti autorità di settore: per l’energia elettrica e il gas, per le comunicazioni, per i trasporti, per i servizi idrici. Tuttavia nelle successive fasi di discussione del provvedimento, l’esigenza di pervenire all’approvazione della legge portò al sacrificio delle autorità meno urgenti, quelle riferite a settori problematici per i quali non era pensabile l’avvio di processi di privatizzazione delle relative aziende pubbliche. Delle quattro autorità originariamente previste ne veniva così compiutamente istituita solo una, quella per l’Energia elettrica e il gas, mentre l’Autorità per le comunicazioni, pur formalmente istituita dalla legge, rendeva necessario per la sua operatività un successivo provvedimento normativo.



Per effetto di questa strategia di “second best”, la riforma della regolazione attuata dalla legge 481 risultava parziale, richiedendo successive tappe di completamento nei settori lasciati scoperti. Essa aveva tuttavia il vantaggio di definire un preciso modello di Autorità, in grado di facilitare il lavoro del legislatore successivo al quale sarebbe infatti bastato replicare il medesimo per i restanti settori. Purtroppo tale strada non è stata coerentemente e compiutamente percorsa: l’Autorità per le comunicazioni veniva infatti costituita solo un paio d’anni dopo, deviando tuttavia dal modello originario (in conseguenza dell’assorbimento del Garante per l’editoria e dell’assegnazione di funzioni di garanzia anche in tema di servizi e contenuti); quella dei trasporti non vedeva mai la luce, nonostante diversi progetti nelle successive legislature; quella dei servizi idrici neppure, nonostante si sia pervenuti a un’importante riforma di settore nell’autunno di un anno fa; i servizi postali, infine, sono sinora rimasti orfani di un regolatore indipendente.

Poiché il governo del 1995 era consapevole della necessità di estendere alla generalità delle utilities, anche prima dell’istituzione di Autorità specifiche, i nuovi strumenti e criteri di regolazione introdotti dalla legge 481, emanò il 20 novembre 1995 un provvedimento ulteriore, la delibera CIPE “Linee guida per la regolazione dei servizi di pubblica utilità” (poi reiterata, per superare un’obiezione della Corte dei Conti, come delibera CIPE 24 aprile 1996), con l’obiettivo di stabilire precise linee guida per i Ministeri che dopo l’approvazione della legge 481 mantenevano competenze in tema di regolazione. L’obiettivo della delibera, promossa dal Dipartimento economico di Palazzo Chigi, allora diretto da Stefano Parisi, era triplice: (i) estendere i nuovi strumenti e criteri introdotti dalla legge 481 (ad esempio, il metodo del price cap) anche ai settori non regolati da Autorità; (ii) armonizzare e rendere più efficace la regolazione di questi settori; (iii) adattare gli strumenti della legge 481 a realtà ancora saldamente a proprietà pubblica, in molti casi caratterizzate da rilevanti problemi di efficienza produttiva e oggetto di consistenti trasferimenti a carico della finanza pubblica.

 

La delibera CIPE non era applicata in maniera diretta e autonoma dai singoli Ministeri competenti per settore, bensì da questi ultimi sulla base di provvedimenti che il CIPE avrebbe emanato sulla base di un’attività istruttoria condotta da un organismo tecnico introdotto dalla stessa delibera, il NARS (Nucleo di consulenza per la regolazione dei servizi di pubblica utilità), composto da rappresentanti della Presidenza del Consiglio e dei Ministeri con competenze di regolazione.

 

Questa soluzione transitoria, destinata a concludersi con l’effettiva costituzione delle nuove Autorità, ha prodotto effetti positivi nei primi anni di applicazione, ma i suoi risultati sono tuttavia andati affievolendosi nel tempo mentre le previste Autorità non sono mai state istituite. È così avvenuto che mentre le liberalizzazioni del mercato elettrico, del gas e delle TLC sono state realizzate alla fine degli anni ‘90 in presenza di Autorità in grado di esercitare con autonomia e competenza tecnica le loro funzioni, altre liberalizzazioni ora in corso di realizzazione, quali quelle del mercato postale e del trasporto ferroviario, non possono essere seguite in forma adeguata da Autorità di settore che ancora non esistono.

 

Nello stesso arco temporale intercorso dalla legge 481 sono state inoltre effettuate privatizzazioni di utilities in mercati privi di Autorità e senza provvedere alla loro istituzione, non ottemperando in conseguenza alla legge 474 del 1994: Autostrade per l’Italia, Aeroporti di Roma, Alitalia; è inoltre prevista la privatizzazione di Tirrenia, mentre in diverse occasioni si è parlato di cessione di quote di Poste Italiane e in un futuro prossimo potranno essere effettuate, sulla base della recente riforma, privatizzazioni anche dei servizi idrici.

 

Siamo davvero sicuri di poter, senza grandi conseguenze per il benessere collettivo, privatizzare monopolisti sregolati? L’esperienza del quindicennio trascorso porta a rispondere negativamente dato che i danni di una regolazione inesistente o inadeguata sono ben evidenti. Per il settore autostradale sono stati ben documentati nel libro di Giorgio Ragazzi, professore di economia pubblica all’Università di Bergamo, “I signori delle autostrade” (Il Mulino, 2008). Come sintetizza la presentazione del volume: “L’analisi economica del settore riguardante le concessionarie di autostrade consente di valutare gli intrecci tra interessi statali e locali, tra interessi pubblici e privati e i vari modi in cui i privati riescono ad accaparrarsi rendite a scapito della collettività. … Rivalutazioni monetarie, proroghe delle concessioni e [cattiva, aggiungiamo noi], regolazione delle tariffe possono generare alti profitti senza che l’opinione pubblica ne percepisca in nessun modo i costi”. Sarebbe andata nello stesso modo in presenza di un’Autorità per i trasporti che avesse operato come quella per il mercato elettrico e il gas?

Per quanto riguarda i servizi postali, ne abbiamo parlato noi stessi in diverse occasioni. Mi limito qui a ricordare il “Mistero del francobollo scomparso”, che non è il titolo di un giallo di Agata Christie, bensì il pasticcio regolatorio nato nel giugno 2006, quando il Ministro uscente delle comunicazioni approvò la richiesta di Poste Italiane e abolì il francobollo ordinario, trasformando magicamente con la sua bacchetta normativa tutte le corrispondenze ordinarie in prioritarie, ovviamente al fine di farci pagare il relativo, e più caro, francobollo e di “facilitare” il bilancio dell’azienda.

 

Non avendo cambiato giudizio riporto esattamente quello che scrissi allora: “Resta da chiedersi dove sia e cosa faccia il regolatore del settore postale: il ministero delle Comunicazioni, coadiuvato dal Nars-Cipe. Infatti, se tutte le corrispondenze diventano per decreto prioritarie, la loro qualità ritornerà inevitabilmente ‘ordinaria’, mentre quando fu introdotta la corrispondenza prioritaria si scelse un livello tariffario decisamente più elevato di quello ordinario proprio per evitare che un trasferimento di domanda eccessivo potesse impedire di realizzare i livelli qualitativi che erano stati promessi. Il provvedimento ha peggiorato pertanto in maniera notevole le condizioni dei consumatori dal punto di vista sia delle tariffe (in media fortemente rialzate) che della qualità (attraverso la riduzione degli standard richiesti e l’assenza della prescrizione di un monitoraggio indipendente). Più in generale, è in contrasto con i principi di una corretta ed efficace regolazione che dovrebbe proteggere i consumatori dal potere di mercato dell’operatore dominante e non il produttore dalle conseguenze sul suo bilancio di costi inefficienti di produzione e dal possibile emergere della concorrenza”. Sarebbe andata nello stesso modo in presenza di un’Autorità per servizi postali che avesse operato come quella per il mercato elettrico e il gas?

 

L’ultima affermazione mette in risalto il problema cruciale: la regolazione deve tutelare il consumatore, che è la parte debole del mercato, dai possibili abusi del monopolista (o dell’operatore dominante). Un’Autorità effettivamente indipendente e tecnicamente preparata è in grado di riuscirvi, mentre un regolatore subordinato al governo, sia esso regolatore ministeriale o autorità “dipendente”, finirà invece per tutelare proprio il monopolista ancora pubblico, e persino il monopolista privatizzato, dalle conseguenze dell’effettiva apertura alla concorrenza dello specifico mercato. Nell’ottica europea il regolatore ha la funzione di accompagnare un mercato alla concorrenza; nella sua interpretazione italiana di fatto, che è antitetica a quella che motivò il legislatore della legge 481 del 1995, ha invece la funzione di impedire che la concorrenza manifesti i suoi effetti. Il modello di fatto, in sostanza, è quelli di regolatori dipendenti per garantire monopolisti sregolati. Essi sono in grado di rendere vera la definizione di “liberalizzazione all’italiana” che proposi, scherzosamente ma non troppo, in un vecchio blog dell’Istituto Bruno Leoni: “Sostituzione dei divieti normativi che impediscono il libero accesso ad un mercato con ostacoli di differente natura ed equivalente efficacia”.

 

E non sono forse ostacoli di differente natura quelli messi in evidenza da Luca di Montezemolo e dagli altri azionisti di Nuovo Trasporto Viaggiatori in relazione alle prove del loro treno ad alta velocità che tra meno di un anno renderà non più monopolistico il mercato ferroviario sulle medie-lunghe percorrenze? E il fatto che il nuovo operatore Arenaways, che ha appena debuttato sul percorso circolare Torino-Milano-Alessandria-Torino, non possa caricare passeggeri nelle fermate intermedie perché oggetto di monopoli regionali assegnati a Trenitalia senza gara (contrariamente quanto previsto dall’affossata riforma del trasporto pubblico locali del 1996-98)? E le difficoltà incontrate dai vettori cargo non FS nell’uso di essencial facilities necessarie per movimentare le merci nelle stazioni? E il fatto che non vi sia traccia nel sito web di FS (intesa come gestore della rete e non come Trenitalia, titolare dei servizi di trasporto) dell’orario dei treni austro-tedeschi che DB e OBB offrono da un anno tra Milano, Innsbruck e Monaco di Baviera?

Dopo quello del francobollo scomparso si arriva così al “Mistero del treno fantasma”, il treno tedesco Milano-Monaco che circola a nostra insaputa (nostra in quanto consumatori) e che è così descritto da un blogger: “Ieri sera ho ospitato due amici trentini che partivano per un bel viaggio in India, beati loro. Nel raccontarmi le loro peripezie per raggiungere Milano in una serata di neve e disastri ferroviari, accennano al fantomatico treno tedesco che fa concorrenza alle ferrovie dello stato e che non risulta da nessuna parte. I biglietti non si possono comprare alle macchinette, nelle guide ufficiali delle FS non compare alcun accenno a questi treni, e se chiedi allo sportello informazioni, l’addetta, così dicono loro, strilla: ‘Non posso dire niente, non posso dire niente!’ […]. A Bolzano nemmeno il cartello. O si sa tutto prima di arrivare o non si capisce nulla. Allo sportello ti rispondono boccheggiando. Un solo bigliettaio, stimolato a dovere, ammette: ‘Ci hanno ordinato di non dire niente, nemmeno qual è l’agenzia che vende biglietti. È la concorrenza [all’italiana, aggiungo io]’. Insomma, la privatizzazione all’italiana. Formalmente esiste, perché la vuole l’Ue, ma funziona così: se posso ti metto i bastoni fra le ruote. Ecco degli esempi. Chi entra in stazione legge sul tabellone che alla tal ora c’è un Ec per Monaco o Bologna. Ma nessuno spiega dove si acquisti il biglietto. Le emettitrici automatiche, fra le opzioni di acquisto, non contemplano Ec. Nemmeno uno, nonostante ne viaggino cinque al giorno verso nord e altrettanti verso sud. Alla biglietteria non emettono i biglietti. Allo sportello informazioni non forniscono informazioni …”.

 

Eppure se noi andiamo in un qualsiasi aeroporto, o ne consultiamo il sito web, otteniamo con facilità tutte le informazioni che ci servono e il gestore aeroportuale è ben felice di permetterci di comperare i biglietti di qualsiasi vettore. Il gestore dell’infrastruttura ferroviaria evidentemente no, perché desidera che prendiamo solo i suoi treni e il regolatore ministeriale neppure perché è lui che, congiuntamente al suo collega del Tesoro, esercita le funzioni proprietarie sull’azienda che possiede sia la rete che i treni (trascurando che in realtà l’azienda è di proprietà del contribuente che vorrebbe almeno essere libero, come utente, di usarla o di non usarla). Siamo sicuri che la storia sarebbe stata la stessa in presenza di un’Autorità per i trasporti che avesse operato come quella per il mercato elettrico e il gas? Siamo sicuri di poter continuare a permetterci monopolisti sregolati per avere servizi peggiori e spendere più soldi (come contribuenti se non come utenti)?

 

Gli esempi precedenti portano a domandare cosa si intenda fare in merito all’esigenza, non risolta nel quindicennio trascorso, di garantire una regolazione indipendente e tecnicamente ineccepibile anche a questi settori. Si tratta di una domanda rafforzata dai risultati conseguiti nei due mandati settennali sin qui trascorsi dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas (AEEG), il primo guidato da Pippo Ranci, il secondo dal presidente uscente (scade tra un mese il suo mandato) Alessandro Ortis. Quello dell’AEEG si è rivelato un caso di successo, come anche la trasmissione Report del 14 novembre, dedicata alle Autorità di regolazione, ha riconosciuto. È un modello che non ha tuttavia avuto reiterazioni in settori per i quali esso sarebbe stato, e continua a essere, altrettanto necessario.

 

La regolazione di questi settori permane pertanto come problema aperto. In ripetute occasioni nel corso del 2010 il Presidente dell’Autorità garante della concorrenza ha suggerito di affidare la regolazione del mercato postale, la cui completa liberalizzazione è prevista per la fine dell’anno, all’Autorità per le comunicazioni (la quale ha manifestato consenso a tale ipotesi) mentre, dati i tempi e gli oneri necessari per la costituzione di una specifica Autorità per i trasporti, ha suggerito di affidare all’Antitrust tali compiti attraverso l’attivazione di un’apposita sezione. In relazioni ai servizi idrici si è inoltre ipotizzata una loro assegnazione all’Autorità per l’energia elettrica e il gas.

 

Si tratta di soluzioni potenzialmente in grado di rispondere alle esigenze di una corretta ed efficace regolazione. Un’ipotesi alternativa potrebbe essere invece quella di concentrare i compiti regolatori di tutti i servizi a rete in un unico organismo. Questo è il modello tedesco, in vigore ormai da diversi anni, e che sta prendendo piede anche nei paesi scandinavi. L’unica soluzione inaccettabile, invece, è lo status quo.