A meno che non si tratti di una scelta tattica, la posizione emersa ieri da parte del gruppo Fiat circa l’assenza di interesse al rinnovo degli incentivi auto per il 2010 è destinata a segnare una svolta epocale, un po’ come se arrivasse una nuova era glaciale mentre tutti si aspettano il global warming.
Cosa è successo esattamente? Che in un’intervista alla Stampa l’Ad di Fiat, Sergio Marchionne, ha dichiarato: “Sono agnostico sugli incentivi: il governo faccia la sua scelta e noi la accetteremo senza drammi”, mentre nel pomeriggio ha confermato in un comunicato di essere d’accordo con il governo se deciderà di non rinnovare gli incentivi.
Qual è la spiegazione razionale di questa posizione, tenuto conto che almeno nel breve periodo gli incentivi aiutano maggiormente i produttori come Fiat, specializzati nella realizzazione di auto piccole e poco inquinanti? La lettura più ovvia è che si tratti di una reazione al tentativo del governo di scambiare il rinnovo degli incentivi, che è rivolto tanto a Fiat quanto ai suoi concorrenti, con la richiesta, questa sì rivolta solo a Fiat, di impegnarsi a conservare un sito produttivo obsoleto quale Termini Imerese.
In sostanza solo a Fiat verrebbe chiesto di “pagare” in cambio degli incentivi, mentre a tutte le altre case che in Italia non producono neppure un’auto non si può chiedere nulla. Poiché Fiat non intende obbedire alle richieste del governo in relazione a Termini Imerese, allora si dichiara disinteressata alla contropartita del rinnovo degli incentivi; tanto se non verranno concessi tutte le case presenti nelle fasce che ne beneficiavano saranno penalizzate in ugual misura.
Se questa lettura è corretta, allora nulla è cambiato in realtà nel dibattito corrente che vede il rinnovo o meno degli incentivi al settore auto stabilmente (ed erroneamente) collegato al caso Fiat-Termini Imerese. Rinnovare gli incentivi, e quindi aiutare Fiat nonostante essa crei un rilevante problema occupazionale in Sicilia? Condizionare, ancora una volta, le scelte localizzative di Fiat grazie alla consueta carota di aiuti pubblici? Lasciare che Fiat se ne vada, ma non concedere più gli incentivi?
Ad avviso di chi scrive sono tutte domande mal poste, legate dal difetto comune di non basare la riflessione su un’analisi razionale, che lasci fuori campo preferenze e simpatie di ognuno e cerchi di isolare i fatti oggettivi di maggior rilievo.
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Quali possono essere questi fatti, accettabili proprio perché fatti e non giudizi di valore e sui quali fondare scelte adeguate di politica economica? In primo luogo le condizioni oggettive del mercato, inteso come incontro della domanda di nuove autovetture con l’offerta dei produttori, siano essi nazionali o esteri.
In secondo luogo, le condizioni della produzione nazionale, la quale soddisfa solo una quota limitata della domanda nazionale. In terzo luogo, gli effetti delle politiche adottate in passato: da un lato quelle di breve periodo, in sostanza gli incentivi stabiliti lo scorso anno; dall’altro quelle di lungo periodo che toccano principalmente due temi molto differenti quali la politica della tassazione dell’auto da un lato e la politica protezionistica, di riguardo, verso il principale in passato e ormai unico produttore nazionale dall’altro. Proviamo ad affrontarli.
Domanda e offerta
La domanda di nuove auto è inevitabilmente il punto di partenza dell’analisi. Sono stati appena pubblicati i dati (provvisori) sulle immatricolazioni del mese di gennaio ed è opportuno non farci fuorviare dall’elevata crescita percentuale rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Il +30% deriva infatti dal confronto con un gennaio 2008 particolarmente depresso, nel quale agli effetti della recessione in corso si erano aggiunti quelli derivanti dall’attesa dell’introduzione di incentivi pubblici.
In quel mese la domanda, in parte falcidiata dalla recessione e in parte rinviata nel tempo in attesa di vantaggi fiscali, era caduta complessivamente di un 32%, ragione per cui nel mese appena concluso ci siamo limitati a un recupero, peraltro solo parziale.
Non dobbiamo infatti lasciarci fuorviare dalle due percentuali molto simili: se partiamo da 100 e perdiamo il 32% scendiamo a 68 ma se da 68 recuperiamo il 30% riusciamo a risalire a qualche decimale sopra 88, che rimane tuttavia ancora molto distante dal 100 da cui eravamo partiti prima della crisi.
In sintesi, e ragionando in valori assoluti e non in tassi di variazione, sarà pur vero che le 206 mila auto immatricolate nel mese scorso sono molte di più delle 158 mila di dodici mesi prima, ma esse rimangono pur sempre molte meno delle 234 mila del gennaio 2008.
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Se consideriamo che sino a tutto marzo 2010 è possibile usufruire degli incentivi qualora si immatricoli una vettura prenotata entro la fine del 2009, è possibile concludere che il mercato dell’auto è tutt’altro che salvo. Gli incentivi hanno attenuato gli effetti della recessione, ma non li hanno annullati e se non verranno riproposti è ragionevole attenderci una caduta consistente; ne è prova il fatto che gli ordinativi raccolti in gennaio siano inferiori del 10% al gennaio 2009, mese nel quale essi erano stati più bassi del 32% rispetto a 12 mesi prima.
In sostanza, rispetto al gennaio di due anni fa, prima che la recessione si manifestasse, i contratti conclusi sono stati inferiori di quasi il 40% e la previsione del Presidente di Anfia Eugenio Razelli è di un crollo del mercato a 1,7 milioni di immatricolazioni nel 2010 in assenza di un’uscita graduale dalla fase degli incentivi.
La produzione
Come sanno i nostri lettori la produzione di auto sul territorio nazionale corrisponde solo al 30% delle vetture immatricolate, mentre il rimanente 70% rappresenta importazioni nette. Nel 2009 sono state prodotte in Italia solo 659 mila vetture a fronte di 2,16 milioni di auto nuove vendute; nel 2010 non abbiamo ancora il dato definitivo dell’anno ma dovremmo superare, seppure di poche migliaia, il deludente valore del 2009.
Perché in Italia, al contrario di tutti gli altri maggiori paesi dell’Europa occidentale, si producono così poche vetture? La risposta, anche se articolata, è piuttosto semplice: (a) perché c’è un solo produttore nazionale, il gruppo Fiat, mentre altrove producono differenti gruppi, appartenenti sia al paese che ospita gli stabilimenti che a paesi differenti; (b) perché il gruppo Fiat presidia prevalentemente le fasce più economiche e perché, (c) essendo molto conveniente delocalizzare la produzione di tali fasce, (d) il gruppo Fiat, nonostante il rapporto privilegiato coi governi che hanno guidato l’Italia, lo ha fatto pesantemente nel corso degli anni 2000 (sino al 2000-2002 le auto prodotte in Italia si attestavano a 1,4 milioni all’anno, oltre il doppio del 2008-09).
Una cosa analoga hanno fatto anche i produttori francesi, come è possibile verificare dal grafico sottostante, con la differenza che essi sono tuttavia presenti anche nei segmenti più elevati, ragione per cui l’effetto complessivo sulla produzione nazionale non è stato così drastico.
Ripartizione geografica della produzione delle case francesi
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Nei primi anni duemila le case francesi realizzavano sul territorio nazionale circa due terzi della loro produzione complessiva tanto nella fasce di gamma più alta quanto in quelle più economiche. Nel 2007, ultimo anno disponibile per questo tipo di dati, la produzione nazionale nella fascia media e alta, pur ridotta, continuava a essere superiore di un 20% rispetto alla produzione delocalizzata, mentre per le fasce più economiche ormai quasi due vetture su tre risultavano realizzate fuori dai confini nazionali, rovesciando il rapporto di pochi anni prima.
In sostanza, se la nostra lettura è corretta, Fiat alla pari dei produttori francesi ha seguito i dettami del mercato e delocalizzato la produzione delle fasce più basse solo che, non essendovi altri produttori sul territorio nazionale a presidiare le fasce alte, l’effetto complessivo sulla produzione nazionale è stato dirompente e l’eventuale salvataggio di Termini non sarebbe in grado di attenuarlo neppure marginalmente.
Possiamo allora dire che non ha sbagliato Fiat a delocalizzare, ma hanno pesantemente sbagliato i governi italiani del passato a ritenere che la produzione nazionale di auto dovesse necessariamente coincidere con quella del gruppo Fiat. Nessun altro governo europeo si è comportato in maniera analoga rispetto ai suoi produttori nazionali.
Gli incentivi e la tassazione
Sugli incentivi si è detto molto in precedenti occasioni. È sufficiente ricordare che si tratta di un classico provvedimento anticongiunturale, in grado di anticipare domanda in periodi in cui essa rischia una caduta eccessiva. Non produce tuttavia effetti permanenti, genera anzi riduzioni nelle vendite al momento della sua cessazione ed effetti distorsivi sulle scelte di allocazione della spesa dei consumatori tra differenti comparti.
I vantaggi maggiori non sembrano pertanto riguardare la loro capacità di sostenere il livello della domanda bensì di modificarne in senso favorevole all’ambiente, essendo commisurati alle emissioni inquinanti dei veicoli, la composizione. Riguardo al primo obiettivo, le misure adottate in Italia sono state più efficaci rispetto a Spagna e Regno Unito ma meno rispetto a Francia e Germania: negli ultimi due mercati hanno capovolto la precedente tendenza recessiva (che si era manifestata nel 2009 rispetto al 2008), in Italia la hanno fermata, in Spagna e Regno Unito la hanno solo rallentata.
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Riguardo al secondo obiettivo i risultati sono stati invece notevoli e possono essere apprezzati sia in termini di emissioni medie (CO2) dei nuovi veicoli immatricolati nel 2009 rispetto all’anno precedente, come ricordato nel contributo di due settimane fa, sia in termini di penetrazione delle vetture con alimentazione alternativa rispetto ai tradizionali benzina e diesel.
Grazie agli eco-incentivi, infatti, la quota di vetture ad alimentazione alternativa è triplicata tra il 2008 e il 2009, passando dal 7 al 22%, e in gennaio ha quasi raggiunto il 30% delle immatricolazione (era al 10% nel gennaio 2009). Gli incentivi hanno quindi prodotto effetti discreti sul livello della domanda, non ripetibili a lungo nel tempo, ma importanti benefici ambientali i quali possono invece essere resi permanenti modificando in senso ecologico la consistente tassazione sull’auto.
Si tratterebbe in sostanza di passare dagli eco incentivi alla eco tassazione, da incentivi temporanei pro ambiente a una tassazione permanente pro ambiente, come abbiamo proposto da un anno a questa parte su ilsussidiario.net. Una tassazione dell’auto pro ambiente avrebbe anche vantaggi in termini di equità fiscale e redistribuzione: poiché le auto più inquinanti sono anche quelle più grandi si tasserebbero di più i consumatori che sono disposti a spendere cifre elevate per disporre di caratteristiche dei veicoli che non sono essenziali rispetto alla loro finalità originale (che è quella di permettere alle persone di spostarsi).
Nel gennaio scorso, cinque su sei delle vetture vendute ad alimentazione alternativa riguardavano i segmenti più bassi (A, B e C) e limitandoci ad essi la quota delle alimentazioni alternative ha rappresentato quasi metà delle immatricolazioni, il quadruplo rispetto a gennaio 2009.
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Il legame non indissolubile tra Fiat e Italia
Accertato che gli incentivi hanno aiutato abbastanza il mercato e molto l’ambiente, l’ultima domanda è se essi hanno anche aiutato il gruppo Fiat rispetto agli altri produttori. La risposta in questo caso è che gli incentivi hanno avvantaggiato i produttori di auto dei segmenti più bassi, tra i quali Fiat, ma meno Fiat rispetto agli altri: la quota di mercato del gruppo, che quasi coincide con quella dei produttori nazionali, è infatti migliorata solo di qualche decimo di punto nel 2009 e continua anche in gennaio a rimanere al di sotto di un terzo delle vendite totali. I consumatori italiani che hanno comperato auto nelle fasce più basse avvalendosi degli incentivi sembrano aver avvantaggiato di più le case giapponesi, quelle francesi e la Ford rispetto al gruppo nazionale.
È evidente che gli incentivi, che sono destinati al consumatore, non sono in grado di avvantaggiare un produttore specifico e che non possono essere usati per condizionare le scelte industriali di Fiat. In Francia Sarkozy lo ha fatto verso le case francesi, ma ha messo sul piatto, oltre a incentivi rivolti a tutti, anche più di sei miliardi di euro di fondi pubblici destinati ai soli produttori nazionali. Molto meglio, quindi, il caso italiano.
Se ragioniamo in un’ottica più di lungo periodo dobbiamo osservare che lo scambio tradizionale tra protezionismo pubblico verso Fiat e scelte industriali condizionate dai governi italiani si è modificato già da molto tempo: negli anni ‘70 e primi ‘80 la Fiat poteva permettersi scelte industriali “nazionali” gravate di extracosti grazie al fatto che i governi erano in grado di ripristinare la sua competitività svalutando il cambio della lira. Allora Fiat poteva disobbedire al mercato per obbedire ai governi.
Con il processo di integrazione monetaria europea sfociato nell’euro questo non è più possibile e Fiat deve obbedire, volente o nolente, al mercato e disobbedire, quando vi è divergenza, ai governi. Però anche i governi italiani possono disobbedire a Fiat, smettendo finalmente di considerarla il produttore di bandiera, e se Fiat vuole chiudere Termini per ragioni di competitività non si vede come lo si possa impedire.
Ma si proteggano i lavoratori siciliani da un lato e si cerchi dall’altro un produttore estero di aiuto disponibile a insediarsi in Italia (possibilmente ma non necessariamente a Termini), rimediando finalmente all’errore di non aver voluto Ford a capo dell’Alfa Romeo quando uscì dalle partecipazioni statali.