Il ministro dell’Economia Tremonti è alla difficile ricerca di 25 miliardi di euro per stabilizzare il deficit pubblico del 2010 e rispettare in questo modo l’obiettivo minimo di finanza pubblica che istituzioni internazionali e mercati finanziari si aspettano che noi raggiungiamo.

Questa necessità rischia tuttavia di far scomparire dall’agenda politica per un bel po’ di tempo il tema della riduzione delle tasse: infatti di fronte alla necessità di 25 miliardi di entrate in più e/o spesa in meno ci si accontenta (a mio avviso erroneamente) che le tasse non aumentino, o che non aumentino troppo, e non si chiede più che siano ridotte. Eppure nelle scorse settimane si era sviluppato un interessante dibattito sul tema, avviato sulle colonne del Foglio di Giuliano Ferrara da un intervento dell’Ing. Carlo De Benedetti  e proseguito con i commenti di numerosi economisti e imprenditori.



De Benedetti aveva sostenuto senza incertezze che: “Lo choc potrà venire solo con una poderosa riduzione delle imposte che oggi gravano sul lavoro e, indirettamente, sulle imprese. Serve un abbattimento ma ssiccio e generalizzato delle imposte sulle persone fisiche e sulle società. Un intervento radicale, nell’ordine di molti punti percentuali su tutte le aliquote. Secondo i dati dell’Ocse e della Kpmg, l’Italia oggi è ai primi posti nel mondo per pressione fiscale. Malgrado le ripetute promesse di tagli, il peso del fisco resta intorno ai massimi storici. E pesa in particolare il cosiddetto “cuneo”, cioè proprio le imposte che trasformano buste paga pesanti per le imprese in buste paga leggere per i lavoratori. È soprattutto qui che bisogna agire.E bisogna farlo con un taglio tale da offrire un fattore nuovo di competitività alle imprese, ormai schiacciate nella concorrenza mondiale sulle retribuzioni; e in modo da rilanciare la propensione al consumo degli italiani, dando loro la certezza di guadagnare di più, subito e in prospettiva.”



La proposta di De Benedetti è stata valutata positivamente in diversi contributi successivi (presenti sul sito web del Foglio): per Stefano Cingolani “ribalta il paradigma che ha guidato la politica fiscale del centrosinistra anche negli anni (e sono molti, ben sette nel quindicennio della Seconda Repubblica) in cui è stato al governo. Una teoria e una prassi oscillante tra risanamento del bilancio pubblico e redistribuzione; con il pendolo che finiva sempre sul primo termine, aggravando la pressione fiscale per tutti”; per Antonio Martino, “le aliquote d’imposta dovrebbero essere ridotte ‘di molti punti percentuali’ come dice De Benedetti per le ovvie ragioni che non fruttano molto all’erario e penalizzano pesantemente il lavoro, la produzione, il risparmio e l’investimento. […] Il fatto è che il risanamento delle pubbliche finanze deve essere perseguito con lo sviluppo economico e non a scapito di esso”; per il responsabile economico del Ps Stefano Fassina, infine, “bisogna smettere di credere che la questione dell’abbassamento delle tasse sia soltanto una fissa degli integralisti del liberismo. Non è così. Conosciamo perfettamente i dati che ci arrivano costantemente dall’Ocse ed è sciocco nascondersi: oggi l’Italia è ai primi posti nel mondo per pressione fiscale e a questo, come notava giustamente De Benedetti, va aggiunto che i lavoratori italiani hanno una delle più pesanti tassazioni europee sulle proprie buste paga”.



D’accordo sulla necessità di abbassare le tasse per rilanciare la crescita molti imprenditori ed economisti interpellati dal Foglio, i quali manifestano anche convergenza su tre obiettivi strettamente collegati: (1) la riduzione delle tasse non può avvenire lasciando peggiorare i saldi di finanza pubblica, poiché in tal caso ci avvieremmo sulla strada della Grecia (Franco Caltagirone: “È prioritaria la stabilità dei conti dello stato”; Vincenzo Visco: “Attenzione a non dover fare poi manovre correttive brutali come nel 1992”); (2) è indispensabile ridurre la spesa pubblica (Nicola Rossi: “L’abbattimento della spesa è la precondizione”; Riccardo Gallo: “Abbattere il peso dello stato”; Giorgio Fossa: “Tagliare i costi della P.A.”); (3) è necessario sconfiggere l’evasione fiscale (Vincenzo Visco, Andrea Romano, Massimo Calearo).

 

Su quali imposte tagliare, le priorità indicate appaiono differenti: Diego della Valle indica i contributi sociali sul lavoro e ritiene improponibile l’abbassamento generalizzato delle aliquote Irpef, Visco valuta quella sull’Irpef come manovra costosa e quindi di difficile attuazione; molti imprenditori indicano come prioritaria l’Irap (Massimo Calearo, Paolo Galassi di Confapi). Non vi è dubbio tuttavia che si aprissero spazi per una riduzione delle imposte i diversi esponenti del “partito antitasse”, come lo chiama il Foglio, non farebbero fatica a trovare un rapido accordo sul da farsi. Purtroppo questi spazi non sono stati mai aperti, anzi sono stati subito chiusi dalla notizia che Tremonti è alla ricerca di 25 miliardi: da allora il “partito antitasse” sembra essersi ritirato in difesa e da “abbassare le tasse” si è passati a “non aumentiamo le tasse a chi già le paga”.

 

Non si possono solo ridurre le tasse

 

Purtroppo l’Italia è ai primissimi posti in Europa (e tra tutti i paesi sviluppati dell’Ocse) per pressione fiscale complessiva e al primo posto assoluto per pressione fiscale che grava sul fattore lavoro, come abbiamo visto in precedenti contributi sul tema.

 

Il nostro paese, inoltre, non è dotato di livelli di welfare state (per qualità e ampiezza delle prestazioni) paragonabili a quelli dei pochi paesi che lo precedono per pressione fiscale complessiva. Infine l’Italia è ritenuta detenere il record dell’evasione fiscale tra i paesi sviluppati, seguita probabilmente dalla sola Grecia (ma non ne possiamo essere certi).

 

Se mettiamo assieme tutte queste informazioni dobbiamo desumere di avere un cattivo rapporto tra prestazioni pubbliche da un lato e spesa/tassazione dall’altro, rapporto che peggiora notevolmente per quei cittadini che non possono sottrarsi al pagamento delle tasse e, tra essi, per coloro che hanno carichi familiari. Si tratta, come noto, di una situazione negativa che è andata stratificandosi lentamente e alla quale è molto difficile rimediare in un arco di tempo limitato.

 

La finanza pubblica italiana dei decenni successivi alla prima crisi petrolifera è infatti rappresentabile attraverso un circolo vizioso: una spesa pubblica crescente e difficilmente controllabile è stata affrontata attraverso una pressione fiscale crescente, realizzata tuttavia in un sistema nel quale il fisco riesce a controllare solo una parte dei contribuenti.

 

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Essa si è tradotta pertanto in una crescente evasione da parte di taluni e in una crescente oppressione fiscale in capo agli altri, fenomeni che si sono aggravati quando la maggiore pressione fiscale motivata dalla copertura della maggiore spesa precedente ha finito per indurre ulteriore spesa. Come è possibile interrompere questo circolo vizioso e trasformarlo in virtuoso considerando che sino nessuno ci è riuscito e pochi ci hanno provato?

 

È evidente che occorre tagliare il nodo in uno dei suoi tre segmenti: le tasse, l’evasione, la spesa. Peccato che se si tagliano le tasse a parità di spesa e di evasione, i saldi del bilancio pubblico si deteriorano ulteriormente e richiamano su di noi l’attenzione dei mercati finanziari e degli speculatori i quali chiederanno rendimenti più alti per continuare a comperare i nostri titoli. Tagliare le tasse, intese come aliquote e come gettito, non è quindi praticabile come strategia singola, perché farebbe peggiorare i saldi non solo per via del minore gettito, ma anche attraverso la crescita della spesa per interessi sul debito.

 

Il rischio “più tasse per tutti”

Non bisogna inoltre nasconderci che, se non si affrontano rapidamente i nodi dell’evasione e della spesa, si corre seriamente il rischio non solo di non poter abbassare le tasse, ma di vedercele ulteriormente accrescere dato che dopo i 25 miliardi di quest’anno nei prossimi ne serviranno molti di più per risalire dal 5,3% di disavanzo in rapporto al Pil del 2009 sino a valori accettabili nel periodo post crisi. Considerando l’alto debito pubblico dell’Italia, il quarto al mondo in valore assoluto a fine 2009 e il primo in Europa in rapporto al Pil (seguito da quello greco, che dovrebbe tuttavia superarci nel 2010), è probabile che ci venga chiesto non di risalire solo al vecchio valore del 3%, indicato dal trattato di Maastricht, ma molto di più, ad esempio in prossimità del pareggio di bilancio.

 

E il fatto che l’Italia cresca poco è un ulteriore incentivo a concederci un disavanzo piccolo: il disavanzo compatibile con la convergenza nel lungo periodo del rapporto debito/Pil al 60% richiesto da Maastricht è infatti pari al prodotto tra il tasso di crescita del Pil nominale e il valore del 60%.

 

Se il Pil nominale cresce al 5% annuo, allora il deficit al 3% del Pil è accettabile (infatti 5% * 60% = 3%).; se invece il Pil cresce solo del 2,5% allora il deficit richiesto non deve superare l’1,5% (infatti 2,5% * 60% = 1,5%). Se come probabile l’Ue ci chiederà di essere più virtuosi del passato e ci chiederà di farlo rapidamente, allora il rischio è di non fare in tempo a raccogliere i frutti di riforme strutturali dal lato della spesa.

 

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In tal caso il rischio che corriamo va sotto il nome di “più tasse per tutti” (ovviamente tutti quelli che già le pagano), come già accadde nel 1992 con la finanziaria del governo Amato e nuovamente nel 1996, con la finanziaria del primo governo Prodi adottata per saltare in extremis sull’ultimo vagone dell’unico treno in transito per Maastricht.

 

Il miglioramento di oltre quattro punti di Pil nel disavanzo del 1997 rispetto all’anno precedente fu infatti realizzato prevalentemente attraverso maggiori entrate e a parità di spesa corrente primaria (la spesa primaria è la spesa pubblica che non include gli interessi), proprio in conseguenza dell’impossibilità di ottenere nel brevissimo periodo risparmi rilevanti da riforme strutturali sulla spesa.

 

Le riforme strutturali sulla spesa: necessarie ma difficili

Ovviamente le riforme strutturali avrebbero dovuto essere realizzate successivamente, il risanamento completato, la virtù consolidata. Ma a questo punto la virtù non era più necessaria: perché fare le riforme strutturali sulla spesa primaria se si poteva contare sulla manna dell’abbattimento della spesa per interessi sul debito che l’euro provvedeva a spargere sui nostri conti pubblici?

 

E infatti l’euro ci ha regalato nel tempo ben sette punti di Pil di minor spesa per interessi, dall’11,5% del 1996 al 4,6% del 2009, permettendoci nel solo 2009 un risparmio di ben 107 miliardi di euro. Peccato che questo risparmio, che doveva essere prioritariamente utilizzato per abbassare sia il deficit che le tasse, sia stato invece interamente destinato nel decennio a una più elevata spesa pubblica primaria: essa era al 41% del Pil nel 1996 mentre ha sfiorato il 48% nel 2009. Così della nostra virtù passata è rimasta solo l’alta pressione fiscale.

 

E ovviamente non possono essere etichettate come riforme strutturali sulla spesa i semplici tagli di bilancio (siano essi orizzontali, verticali o diagonali) ai quali siamo stati abituati negli ultimi anni. L’approccio finanziario alle manovre di finanza pubblica è completamente errato perché non è in grado di riportare all’efficienza le sottostanti organizzazioni pubbliche che producono i servizi.

 

La loro inefficienza, che assume la forma di un eccesso di consumo di risorse per produrre i servizi, e in conseguenza anche di un eccesso di costi, ha natura organizzativa, industriale, e non contabile. Non può pertanto essere curata con i tagli di bilancio: poiché l’auto della P.A. ha un motore difettoso (consuma troppa benzina per ogni chilometro che percorre), il suo autista mette meno benzina nel serbatoio (assegna meno risorse). Ma con meno benzina la macchina farà meno strada. Occorre invece riparare il motore ma questo l’autista della macchina non lo sa fare, non lo ha mai fatto o comunque non vi è mai riuscito.

 

Così, in definitiva, siamo in una specie di impasse, in un vicolo cieco: dobbiamo abbassare le tasse perché non sono eque e perché ostacolano la crescita, ma non possiamo farlo se non passando attraverso riforme strutturali sulla spesa, che non abbiamo mai fatto e forse non sappiamo fare, e/o attraverso l’eliminazione dell’evasione fiscale, che non abbiamo mai fatto e forse non vogliamo fare. Ma dato che, continuando a non fare nessuna di queste cose, saremo obbligati a subire più tasse in futuro e a seguire la via greca, è la volta buona che dovremo razionalizzare con provvedimenti strutturali la spesa e far pagare le tasse agli evasori per abbassarle a chi ne paga troppe.

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