Molti italiani sono rimasti sorpresi dal rapido cambio di scenario che ha interessato la finanza pubblica italiana nelle ultime settimane: dal compiacimento per i migliori risultati relativi dell’Italia nell’anno 2009 alla necessità di una manovra integrativa di finanza pubblica per un importo di oltre 24 miliardi di euro per il prossimo biennio, che il ministro Tremonti ha condotto in porto e il governo ha approvato con urgenza.
I mercati e le istituzioni finanziarie internazionali, dalla Commissione europea. al Fondo monetario internazionale, saranno certamente soddisfatti e più fiduciosi sulla tenuta dei nostri conti pubblici. Essi guardano in particolare all’ammontare della manovra, meno alla sua composizione; invece i cittadini, che guardano molto di più alla composizione della manovra che al suo ammontare, potrebbero essere un po’ meno soddisfatti e un po’ meno tranquillizzati e questo sia che siano interessati dai provvedimenti sia che ne siano rimasti al di fuori.
È opinione comune, infatti, che questa manovra non sarà sufficiente ma dovrà avere un seguito tanto il prossimo anno quanto il seguente. È anche una previsione ragionevole: è vero che l’Italia ha realizzato un disavanzo in rapporto al Pil relativamente contenuto nel 2009, il 5,3%, molto inferiore ai paesi che sono ora osservati speciali dei mercati finanziari (i Pigs: Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna), ma risalire dal 5,3% sino a un valore compatibile con la stabilizzazione del debito in rapporto al Pil prima e con la sua convergenza al valore di Maastricht del 60% è particolarmente faticoso per l’Italia, in conseguenza della sua bassa crescita economica.
La Relazione unificata sull’economia e la finanza (Ruef) da poco presentata dal Ministro Tremonti prevede che quest’anno il Pil nominale dell’Italia cresca solo di 33 miliardi di euro (da 1521 del 2009 a 1554); se già quest’anno volessimo stabilizzare il rapporto debito/Pil, dato che tale rapporto era a fine 2009 a 1,16, dovremmo fare in modo che anche il debito aumenti solo di 1,16 volte l’aumento del Pil nominale e quindi non oltre 38 miliardi. Ma il debito è il fabbisogno della Pubblica amministrazione, la differenza tra i suoi pagamenti e i suoi incassi, che nel 2009 è ammontato a 88 miliardi di euro. La differenza tra 88 miliardi e 38 miliardi non è 25 miliardi, l’entità dell’attuale manovra, bensì 50, esattamente il doppio.
Inoltre se volessimo non solo fermare la crescita del rapporto debito/Pil ma riavviare la sua discesa verso il 60% di Maastricht, come il commissario per gli Affari economici e finanziari Olli Rehn ci chiederà nei prossimi anni, dovremmo tenere il fabbisogno al 60% della variazione del Pil nominale, che nel 2010 corrisponde a 20 miliardi di euro.
Ovviamente non dobbiamo farlo quest’anno, sarebbe inopportunamente recessivo, ma nei prossimi sì e la distanza tra gli 88 miliardi del 2009 e i 20 miliardi è 68 miliardi, quasi il triplo della manovra attuale. Quindi dobbiamo aspettarci altre due manovre equivalenti nel prossimo futuro.
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Le critiche alla manovra attuale
La manovra di Tremonti di questi giorni era indispensabile nel suo ammontare e urgente ed è certamente utile a tranquillizzare i mercati finanziari. Tuttavia appare criticabile per diverse caratteristiche degli interventi adottati. Tocca infatti molti gruppi sociali, ma non sembra superare un semplice test di equità: quanto colpisce chi è più in grado di contribuire, ad esempio quel 10% di famiglie maggiormente benestanti che secondo l’ultima indagine sui bilanci familiari della Banca d’Italia possiede il 45% della ricchezza nazionale? Sembrerebbe nulla o poco: ad esempio le stock option dei manager, ma solo se eccedono il triplo della remunerazione base. Si tratta di valori che il cittadino comune non riesce neppure a immaginare.
Allo stesso modo appare solo simbolico l’intervento sui compensi dei politici e dei dirigenti pubblici. Togliere il 5% agli stipendi dei dirigenti sopra 90 mila euro di remunerazione e il 10% sopra i 130 mila euro porta a risparmi simbolici e sacrifici trascurabili per gli interessati: 500 euro su 100 mila di retribuzione (-0,5%), 2 mila euro su 130 mila (-1,5%), 4 mila euro su 150 mila (-2,7%), 9 mila euro su 200 mila (-4,5%). Invece il blocco pluriennale degli stipendi ai normali dipendenti pubblici provocherà nel tempo una perdita di reddito stimabile nell’8% la quale corrisponde, ad esempio, a 2400 euro in meno su una remunerazione annua di 30 mila.
Egualmente simbolico l’accorpamento di alcuni enti pubblici e solo di alcune province (sembrerebbe appena 10 su 110). Corretto che siano accorpati gli enti che svolgono funzioni similari, come i piccoli enti previdenziali, ma gli altri andrebbero valutati nella relazione tra costi e benefici. Chi l’ha detto che l’Isae (Istituto di ricerca economica dello stesso Ministero dell’Economia) e l’Ice (Istituto commercio estero) siano inutili? Non è forse utile in sé la ricerca economica (ad esempio per aiutare a fare manovre economiche sensate) e la promozione dell’export dell’Italia?
Quanto alle Province, siamo in ritardo di diversi decenni dalla necessità della loro soppressione (vecchio cruccio del rigorista Ugo La Malfa), esattamente da quando sono state istituite le Regioni. Bisognava avere il coraggio di accorpare tutte le attuali 110 amministrazioni alle relative regioni per risparmiare sulla spesa. Eventualmente si potevano lasciare piccoli consigli provinciali, non dotati di apparati amministrativi, col compito di indirizzare le scelte regionali riguardanti gli specifici territori (nell’idea che più le scelte sono fatte vicino ai cittadini tanto più dovrebbero produrre effetti di benessere sociale).
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L’intervento sulle finestre pensionistiche scontenta gli interessati, ma attua solo rinvii di spesa, non risparmi permanenti. Infine l’idea che la manovra riduca la spesa e non aumenti le tasse è solo apparenza: il blocco per quattro anni degli aumenti agli stipendi pubblici equivale a una tassazione al 100% degli aumenti che si sarebbero verificati secondo le normali dinamiche contrattuali e gli scatti di anzianità, mentre i minori trasferimenti agli enti territoriali rappresentano risparmi di spesa solo per il bilancio dello stato, non per il conto consolidato della Pa.
Infatti gli enti che riceveranno di meno dallo Stato dovranno chiedere di più ai cittadini od offrire meno servizi, ma l’ipotesi più probabile è la prima. In ogni caso faticheranno moltissimo, avendo scarsa autonomia finanziaria, a mantenere prestazioni dignitose verso i cittadini i quali, peraltro, si rendono perfettamente conto che non vi sono grandi differenze tra il pagare di più e il ricevere di meno.
In sintesi si tratta di una manovra necessaria ma tipicamente fatta di tagli, non di riforme e con un po’ di aumenti di accise poteva anche passare per una manovra anni ‘70 o ’80. Invece le riforme, indispensabili, sono ancora tutte da realizzare e persino da pensare. Meglio quindi iniziare a farlo con largo anticipo, senza aspettare le prossime due manovre.
I rischi dei tagli di finanza pubblica
Non ho parlato sinora dei tagli orizzontali ai budget dei Ministeri per farlo in maniera più estesa. La riduzione orizzontale della spesa, fatta attraverso le consuete manovre di finanza pubblica, ha parecchie controindicazioni. Se si esclude infatti la spesa per interessi che, dato lo stock del debito è decisa dal mercato e non dalle leggi finanziarie, la rimanente spesa corrente si articola in due maxi aggregati, sostanzialmente equivalenti nelle dimensioni: a) la spesa per trasferimenti (principalmente alle famiglie, come i trattamenti previdenziali e assistenziali) che non può essere intaccata se non cambiando per legge i benefici previsti; b) la spesa per la produzione di servizi pubblici non erogati attraverso il mercato. In relazione alla seconda componente, il bilancio dello Stato stanzia valori di spesa per le distinte categorie e finalità senza tuttavia essere in grado di porre paletti su quantità e qualità dei servizi che con quei fondi saranno prodotti
Un esempio: uno stanziamento di 100 euro per produrre il servizio X può dar luogo a 20 unità prodotte a un costo unitario di 5, a 10 unità a un costo unitario di 10, a 5 unità a un costo unitario di 20 (solo per semplificare il ragionamento ipotizzo qualità costante). Nelle tre ipotesi il costo totale di produzione, che coincide con la spesa pubblica per quel servizio dato che esso non è allocato tramite il mercato, sarà sempre 100, ma il benessere del cittadino è evidentemente molto differente.
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Cosa succede se (trovandoci in Italia) vengono prodotte 10 unità a un costo unitario di 10 quando ne potrebbero essere prodotte 20 a un costo di 5 e Tremonti taglia con la finanziaria il 10% dello stanziamento, abbassandolo a 90 euro? Saranno ancora prodotte 10 unità ma a un costo unitario di 9 oppure ne saranno prodotte solo 9 a un costo unitario di 10? Lascio al lettore la risposta, ma io propendo nettamente per la seconda.
Se ho ragione, il cittadino che usa quel servizio starà peggio dopo il taglio se il risparmio di spesa non verrà trasferito a lui sotto forma di minori imposte e se non troverà sul mercato quella unità che lo Stato non gli garantisce più. È quindi molto probabile che dopo la riduzione di spesa stia peggio di prima.
Come riformare la spesa e accrescere l’efficienza dei servizi pubblici
Mentre una quota importante della spesa per servizi pubblici non destinati al mercato rappresenta servizi a domanda collettiva per i quali è inevitabile che quantità e caratteristiche siano definite attraverso processi di scelta collettiva (cioè dalla politica), una quota ancora maggiore rappresenta invece servizi a domanda individuale. Per essi noi cittadini siamo benissimo in grado di scegliere da soli (a condizione che la tassazione ci lasci la disponibilità dei soldi per farlo) e non abbiamo nessuna necessità di delegare le nostre scelte alla politica.
La produzione di servizi pubblici a domanda individuale potrebbe pertanto essere spostata dall’attuale recinto della pubblica amministrazione verso organizzazioni esterne, non necessariamente di tipo privatistico (quali società, fondazioni, cooperative, ecc.). Potrebbero essere senza problemi enti pubblicistici (quali enti pubblici economici) purché esterni alla Pa, da essa autonomi, e purché finanziati non più dallo Stato attraverso imposte bensì dai cittadini attraverso tariffe.
Un esempio: se un anno di frequenza alla scuola elementare ha un costo di produzione di 4 mila euro e uno di frequenza universitaria 6 mila, non vi è nessuna necessità che lo Stato mi tassi per questi servizi per poi erogarmeli “gratuitamente”. È sufficiente che la tassazione mi lasci il reddito aggiuntivo per poterli pagare. In tal modo, se sono benestante me li pagherò io e lo Stato mi permetterà di dedurli dal reddito imponibile, permettendomi così di recuperarne una quota; se invece non sono benestante mi permetterà di detrarli per intero dalle tasse; se, infine, sono povero e il mio debito d’imposta sui redditi è inferiore a tale importo riceverò un trasferimento monetario equivalente o un buono.
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Qual è il vantaggio di questa proposta, dato che nel preciso momento in cui venisse attuata noi pagheremmo una tariffa di 10 euro per ognuna delle quantità di servizio del mio esempio precedente invece di una somma equivalente attraverso le imposte? Che ora avremmo il coltello della scelta dalla parte del manico e incominceremmo a far pesare agli enti che ci forniscono servizi insoddisfacenti che il costo è troppo alto e la qualità è troppo bassa, a usare gli strumenti della voce (la lamentela) e dell’uscita (l’abbandono del fornitore in favore di un concorrente più valido), ben descritti dall’economista Albert Hirschman in “Exit, voice and loyalty”.
Gli enti produttori avrebbero tutto il vantaggio a soddisfare le nostre preferenze dato che dalle nostre scelte, e non dalla benevolenza di Tremonti, dipenderebbero i loro ricavi, i redditi dei loro dipendenti e la sopravvivenza delle stesse organizzazioni nel tempo. Questi sono i vantaggi della concorrenza e del mercato, sinora pochissimo capiti da chi è responsabile delle scelte pubbliche
Si potrebbe sperimentare questa ricetta sugli Atenei pubblici: espulsi dalla Pa dovrebbero contare esclusivamente sulle tasse degli studenti (che verrebbero coperti, sulla base del reddito e del merito, totalmente o parzialmente, da borse pubbliche). Così, finalmente, dovrebbero iniziare a usare i professori per produrre studenti anziché usare gli studenti per produrre cattedre []. Questa sarebbe una vera riforma, che potrebbe poi essere estesa ad altri servizi pubblici.
[1] In realtà ho un po’ estremizzato: l’Università italiana produce in effetti moltissimo in rapporto alle poche risorse a disposizione e riesce a realizzare discrete nozze anche coi fichi secchi. Ne è prova l’esercito di studiosi che insegna e fa ricerca un po’ in tutto il mondo. Quasi tutti hanno studiato in Italia, almeno sino alla laurea. Quindi tanto scadenti non dovremmo in realtà essere e riusciamo persino a formare gli studenti, almeno quelli motivati a studiare e che non reputano una perdita di tempo venire a sentirci a lezione (magari mentre commentiamo la manovra di Tremonti). Con un po’ di mercato e di concorrenza dovremmo per forza orientarci primariamente al prodotto, lasciando in secondo piano i fattori, le famose cattedre (che sono un po’ la moneta unica dell’Accademia italiana, peraltro non vigilata da una Bce).