Alcune settimane fa abbiamo commentato su queste pagine la manovra economica presentata con urgenza dal Ministro Tremonti per correggere le tendenze di finanza pubblica per il prossimo biennio e tranquillizzare i mercati finanziari. Il giudizio fu positivo per l’entità della manovra, ritenuta sufficiente, ma critico invece per quanto riguarda qualità e composizione dei diversi provvedimenti in essa inclusi. In sintesi, adeguandoci alle valutazioni in decimi utilmente reintrodotte un paio d’anni fa nella scuola, possiamo dire che la manovra di Tremonti meritasse un 6 e ½ per quantità e un 5 per qualità, per un voto complessivo (se pesiamo allo stesso modo i due giudizi) di 5 e ¾, quindi al di sotto della sufficienza.



Nei giorni scorsi il Partito Democratico ha presentato una proposta di manovra alternativa a quella di Tremonti alla quale dedichiamo l’analisi odierna, comparandola ove possibile con la manovra originaria. La proposta del Pd è molto articolata e in conseguenza è possibile esaminare solo gli aspetti principali, tuttavia il lettore interessato a un esame più ampio può fare riferimento alla seconda parte di questo documento sulla quale è basata la nostra analisi.



La prima parte del documento del Pd è invece dedicata a un esame critico dei provvedimenti del governo in tema di economia e finanza pubblica. Il Pd svolge, giustamente, il suo ruolo di partito di opposizione ed è apprezzabile che lo faccia contestando in maniera puntuale provvedimenti concreti, motivando le ragioni del dissenso, e proponendone altri.

Quattro punti sulla parte di “critica” ci preme tuttavia richiamare. Il primo riguarda il “pasticcio Alitalia”, per il quale ci è sufficiente rimandare a quanto abbiamo scritto negli ultimi due anni all’interno del Dossier Alitalia de ilsussidiario.net. Il secondo punto riguarda la completa eliminazione dell’Ici sulla prima casa, attuata due anni fa tra i primissimi provvedimenti economici dell’attuale governo. Il provvedimento era ragionevole e giustificato solo per prime case di dimensioni necessarie in funzione della numerosità familiare, non per le prime case di qualsivoglia dimensione. Poiché vi è differenza tra il bilocale abitato da tre persone e la villa di venti stanze, era equo esentare dall’Ici solo uno o due vani catastali per membro della famiglia, non tutti. La scelta effettuata ha invece generato due conseguenze negative rilevanti: da un lato ha avuto carattere regressivo, dall’altro ha depotenziato notevolmente una delle principali imposte locali – basi necessarie per il federalismo fiscale -, accrescendo il carattere derivato del finanziamento degli enti territoriali.



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Il terzo aspetto riguarda invece i tagli “orizzontali” alle spese di funzionamento della Pa., attuati da Tremonti, che non tengono conto della natura economica delle attività svolte dal settore pubblico. L’approccio solo finanziario ai conti pubblici, tipico della politica dei tagli, è idoneo esclusivamente nella parte di settore pubblico che preleva e ridistribuisce risorse monetarie, mentre è errato nella parte che produce servizi per i cittadini (istruzione, sanità, ecc.).

 

Lo stato che ridistribuisce soldi è assimilabile ad aziende di erogazione quali possono essere le fondazioni bancarie: se esse incassano meno dividendi dalle loro partecipazioni dovranno anche tagliare i benefici erogati. Lo stato che produce servizi è invece assimilabile ad aziende di produzione come la Fiat: se la 500 ha costi di produzione troppo elevati Marchionne non potrà tagliare sugli acquisti di tergicristalli e pneumatici, chiedendo ai clienti che se li portino da casa quando vanno a ritirare l’auto nuova. Il prodotto diverrebbe infatti impresentabile e invendibile.

 

Nella parte produttiva del settore pubblico accade un fenomeno analogo, dato che i tagli finanziari possono compromettere la qualità del prodotto. Tuttavia, mentre nel caso di beni di mercato possiamo sempre rivolgerci ad altri fornitori per proteggerci dal deterioramento qualitativo, nel caso dei servizi pubblici non abbiamo possibilità di scelta: o accettiamo la minore qualità del servizio erogato, a parità di tassazione, o possiamo rivolgerci al mercato pagando due volte: il prezzo del servizio utilizzato e le tasse per finanziare la produzione del servizio che non utilizziamo.

 

Il quarto punto riguarda la posizione critica del documento del Pd in relazione ai tagli imposti a regioni ed enti locali: “Le Regioni a statuto ordinario sono chiamate a uno sforzo impossibile in quanto i 4,5 miliardi di minori trasferimenti all’anno previsti si scaricheranno su una quota intorno al 15% dei bilanci regionali, dato che la stragrande maggioranza delle risorse intermediate dalle Regioni è dedicata alla spesa sanitaria. […] In alternativa alla diminuzione delle risorse, Regioni, Province e Comuni saranno costrette ad aumentare imposte e tariffe”.

 

In effetti la manovra di Tremonti appare maggiormente in linea con un’idea di stato-holding che non con quella di un federalismo fiscale in senso compiuto: è lo stato che ordina alle sue “partecipate” (le regioni e gli enti locali) di ridurre la spesa per far fronte ai minori finanziamenti concessi e lo fa, usando lo strumento legislativo, attraverso un meccanismo gerarchico, da controllore verso i controllati. È compatibile con la divisione di funzioni tra stato e regioni che è stata introdotta con l’avvio del federalismo? Sembra per lo meno dubbio.

 

Nel definire la manovra si sarebbe potuto invece usare un metodo differente, di tipo contrattuale, ragionando su basi paritetiche con i diversi livelli di governo per giungere a un disegno condiviso; in alternativa, ancora, individuare un unico valore percentuale di risparmi di spesa da applicarsi uniformemente su tutti i livelli di governo, dai ministeri ai comuni. È questa la proposta del Presidente Formigoni e non si può dire che non sia equa, che non sia semplice e che non sia comprensibile.

 

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È invece molto più facile, ma assai meno condivisibile, individuare i sacrifici necessari per poi ripartirli (quasi) tutti sui livelli inferiori di governo, per di può col vantaggio estetico per i conti pubblici derivante dal fatto che dal punto di vista del bilancio dello stato i minori trasferimenti a regioni ed enti locali figurano come risparmi di spesa.

 

Lo stato, in tal modo, non aumenta le tasse ma trasferisce l’ingrato compito agli enti territoriali che dovranno scegliere se farlo o tagliare servizi essenziali erogati ai cittadini. Purtroppo, invece, nel conto consolidato della Pa. i risparmi di spesa dello stato verso gli altri livelli di governo si elidono automaticamente con le corrispondenti minori entrate di questi ultimi, non producendo alcun effetto. Gli unici effetti, invece, saranno dati solo da ciò che riusciranno a fare gli enti territoriali: risparmi di spesa effettivi e/o maggiori entrate per compensare i tagli di Tremonti.

 

Veniamo ora alla parte propositiva del documento del Pd che si compone di misure organizzate secondo quattro direttrici e finalizzate, come sostenuto nel testo, alla crescita, al lavoro e all’equità. La prima direttrice riguarda interventi fiscali di riduzione della pressione fiscale sul lavoro e le imprese da compensarsi attraverso il recupero dell’evasione fiscale e una più elevata tassazione, con aliquota uniforme al 20%, dei redditi da capitale. Comprende inoltre strumenti per incentivare la partecipazione femminile al lavoro, bassissima nel nostro paese, quali maggiori detrazioni d’imposta per le donne lavoratrici in nuclei familiari con figli e l’introduzione di un contributo annuale di sostegno per ogni figlio a carico.

 

La seconda prevede un allentamento del patto di stabilità interno per evitare a regioni, province e comuni tagli rilevanti agli investimenti. La terza l’integrazione delle risorse previste per la scuola; la revisione degli interventi di contenimento dei costi del pubblico impiego che gravano sui giovani precari; la revisione degli interventi sugli enti di ricerca pubblici; la riforma del sostegno al reddito per i giovani disoccupati da lavori precari. La quarta prevede il riavvio delle liberalizzazioni in una serie di settori quali l’energia, la distribuzione, i servizi bancari, i servizi professionali, il trasporto pubblico.

 

Si tratta di interventi articolati e spesso condivisibili, relativi a numerosi fronti, che tuttavia in molti casi hanno per effetto di rinunciare a risparmi di spesa o richiedere maggiori esborsi finanziari. Non per questo si deve dire di no, bisogna solo trovare, e non è facile, fonti differenti di finanziamento. Alcuni esempi: perché rinunciare ad assumere precari nella Pa. se il loro lavoro è utile al funzionamento delle amministrazioni e ai servizi prodotti? Perché impedire agli enti territoriali con bilanci virtuosi di utilizzare le loro risorse per effettuare investimenti? Perché sostenere il reddito dei lavoratori di imprese in crisi ma non quello dei disoccupati da lavori precari? Perché accettare che giovani mamme rinuncino al lavoro perché non adeguatamente sostenute?

 

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Il problema è la quadratura del cerchio delle risorse economiche e la quadratura del cerchio si chiama equità delle imposte ed efficienza della macchina fiscale, in sintesi: “imposte eque prelevate da una macchina fiscale efficiente”. In Italia non c’è mai stata la seconda e, in conseguenza, se anche le imposte fossero eque nel loro disegno teorico, caratteristica comunque non realizzata, cesserebbero di esserlo nella loro applicazione pratica.

 

Infatti imposte eque prelevate solo da alcuni contribuenti e lasciate evadere ad altri non sono evidentemente più tali. Non è superfluo far notare che una macchina fiscale è efficiente se è in grado ex ante di evitare l’evasione, facendo quindi pagare le tasse a tutti, e non ha necessità di inseguire gli evasori ex post. Il primo caso è assimilabile a quello del fattore che ha le mucche nel recinto e non si trova nella necessità di ricercarle nella campagna; se invece è nella necessità di cercarle vuol proprio dire che il suo era un recinto bucato.

 

Naturalmente “imposte eque prelevate da una macchina fiscale efficiente” permetterebbero di abbattere l’attuale esorbitante pressione fiscale, in primo luogo quella che grava sul fattore lavoro, favorendo il ritorno alla crescita economica. Esse potrebbero inoltre finanziare con maggiore facilità quelle politiche di sostegno prima riprese dal documento del Pd. Permarrebbero tuttavia due rischi: in primo luogo imposte eque ma con aliquote elevate rischiano di essere eccessivamente distorsive, di scoraggiare le attività economiche e la produzione di imponibili; in secondo luogo non possiamo essere certi che il loro gettito non sia impiegato per finanziare produzioni pubbliche inefficienti.

 

Per evitare i due rischi basta usare un secondo principio: “mai usare le imposte quando si possono utilizzare le tariffe”. Esso prende atto che il settore pubblico non è un buon controllore delle produzioni pubbliche, che non riesce adeguatamente a orientarle verso l’efficienza attraverso gli strumenti normativi da un lato e le assegnazioni finanziarie dall’altro. Fortunatamente molti servizi pubblici sono a domanda individuale, non collettiva, e l’utente dei medesimi è il miglior controllore possibile purché disponga degli strumenti adeguati: deve essere lui, non il settore pubblico, ad apportare il ricavo se sceglie di usare il servizio; dove poter scegliere tra fornitori diversi. La prima condizione richiede l’uso delle tariffe (pago se uso) invece delle imposte (pago anche se non uso); la secondo richiede che vi sia concorrenza anche tra fornitori di servizi pubblici: pago il fornitore A se uso A, pago B se uso B (e A perderà il mio ricavo).

 

Si tratta, in breve, dell’uso di meccanismi di mercato anche all’interno del settore pubblico: le organizzazioni pubbliche che producono servizi a domanda individuale possono essere estromesse dal recinto della Pa e sottoposte a forme di concorrenza. Il settore pubblico non avrà quindi bisogno di prelevare tasse per finanziarle ma dovrà lasciare nelle tasche dei cittadini-utenti risorse aggiuntive per permettere loro di pagare i servizi pubblici a domanda individuale che consumano. Gli esiti di questa riforma sono: minori aliquote fiscali e quindi minori distorsioni, perimetro più ristretto per il settore pubblico tradizionalmente inteso, concorrenza tra produttori e conseguente efficienza nell’impiego delle risorse, qualità adeguata dei servizi. Si tratta in fondo di generalizzare il principio di concorrenza che il Pd propone di estendere a diversi settori di mercato in cui ora è carente attraverso condivisibili proposte di liberalizzazione.

 

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Il programma alternativo del Pd ha il pregio di individuare correttamente alcuni sentieri prioritari di riforma e per questo è migliore della manovra di Tremonti, la quale si limita ad interventi finanziari di tipo contabile-ragionieristico. Non si dimostra tuttavia ancora in grado di ordinare questi sentieri in una mappa “geografica” riformatrice completa e coerente.

 

La riflessione precedenti vanno in questa direzione e suggeriscono quattro criteri: usare le imposte solo quando non sono applicabili le tariffe; far produrre i servizi pubblici a domanda individuale da organizzazioni in concorrenza tra loro, finanziate dagli utenti attraverso tariffe e non dallo stato attraverso assegnazioni di bilancio; disegnare le imposte secondo i principi aristotelici dell’equità orizzontale e verticale; far pagare le imposte da una amministrazione fiscale che non abbia bisogno di inseguire i contribuenti dopo che hanno evaso.

 

Questi quattro criteri possono a loro volta essere sintetizzati in uno solo: applicare al settore pubblico il rasoio di Ockham (al posto delle forbici di Tremonti).

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