Vi sono alcuni aspetti non secondari nella vicenda Fiat-Pomigliano che risultano tuttora di difficile comprensione. Prima di illustrarli conviene tuttavia riassumere rapidamente l’intera storia: Fiat propone un piano di rilancio dello stabilimento di Pomigliano basato sulla futura produzione nell’ex fabbrica Alfasud, ora sottoutilizzata, della nuova Panda, rinunciando a insediarla nello stabilimento polacco di Tichy ove viene prodotto l’attuale modello.
L’investimento necessario è consistente, si parla di 700 milioni di euro, così come l’incremento previsto dei livelli produttivi nello stabilimento, nel grado di utilizzo degli impianti e nei livelli occupazionali. In cambio della sua decisione localizzativa Fiat chiede tuttavia precise garanzie in termini di organizzazione e produttività del lavoro, in particolare in relazione a orari e turni, dalle quali dipendono evidentemente la competitività dell’iniziativa e la redditività dell’investimento. La produzione dovrebbe infatti passare dagli attuali dieci turni settimanali (due turni giornalieri per cinque giorni a diciotto turni (tre per sei giorni, compreso il sabato notte).
In aggiunta Fiat chiede garanzie a fronte del rischio di reiterazione di episodi passati di assenteismo anomalo, i quali destarono all’epoca parecchio scandalo, ma nel far questo chiede di fatto, attraverso la domanda di eccezioni esplicite, di derogare dal contratto nazionale di lavoro di settore e da vigenti norme legislative. In particolare, con le “clausole di esigibilità”, Fiat chiede che gli accordi prevedano sanzioni per sindacati e singoli lavoratori che mettano in atto comportamenti, quali scioperi spontanei, tali da violare “in tutto o in parte e in misura significativa le clausole dell’accordo”.
Su tali richieste Fiat è giunta a un accordo con quattro diverse sigle sindacali (Fim, Uilm, Fismic e Ugl) ma non con la Fiom, sindacato di categoria della Cgil, nonostante il sindacato madre a cui appartiene si sia espresso in favore dell’accordo.
Si può sostenere, in sintesi, che dietro il parere favorevole delle precedenti organizzazioni vi sia un ragionamento di tipo teleologico-conseguenzalista: l’obiettivo di salvare livelli occupazionali in un periodo di grave recessione e in un’area di minor sviluppo economico del paese rende accettabile la possibilità di derogare, eccezionalmente, da norme e accordi che codificano “diritti” dei lavoratori.
Invece dietro il parere negativo di Fiom è rinvenibile un approccio di tipo deontologico-proceduralista che non rende accettabile lo scambio tra diritti e stati finali di tipo utilitario. Come sostenuto dal responsabile di Fiom Landini: “Pensiamo che la Fiat debba ritirare quella parte delle proposte che va oltre i contratti e le leggi e che ha poco a che vedere con una trattativa per aumentare l’impiego degli impianti”.
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L’accordo tra Fiat e sindacati favorevoli è stato sottoposto a referendum tra i lavoratori dello stabilimento i quali si sono espressi a favore, ma con una maggioranza notevolmente inferiore al previsto e non tale da rassicurare l’investitore. Hanno infatti votato contro quasi quattro dipendenti su dieci, mentre il numero degli iscritti a Fiom lasciava prevedere che si sarebbero fermati a due.
A questo punto la situazione è particolarmente ingarbugliata e non è chiaro quale strategia potrà adottare Fiat: (i) confermare il suo impegno, data la vittoria dei sì, ma correndo il rischio di futuri incidenti di percorso; (ii) rinunciare al progetto, dato l’elevata percentuale di dipendenti contrari; (iii) riaprire la trattativa con tutte le organizzazioni sindacali, mettendo tuttavia in difficoltà le sigle del sì; (iv) riaprirla solo con queste ultime ma conservando il rischio di ostruzionismo da parte dei contrari; (v) chiedere al governo una procedura simil Alitalia consistente nella creazione di una new company attraverso la quale riassumere i soli dipendenti favorevoli.
Le voci sulle possibili strategie del post referendum sono state tra le più disparate con l’unica certezza consistente nel fatto che sia Fiat a dover mettere prossimamente sul tavolo le sue carte. Nessun commentatore sembra tuttavia essersi posto la domanda chiave se il piano Fiat di rilocalizzazione della Panda a Pomigliano abbia buone prospettive di successo e sia effettivamente in grado di dominare l’ipotesi alternativa di conservare la produzione del modello in Polonia.
In effetti l’incremento di produttività incorporato nel piano appare notevole: col passaggio da dieci a diciotto turni di lavoro settimanali la produttività degli impianti aumenta dell’80%, mentre con il passaggio da cinque a sei turni settimanali per lavoratore la produttività del lavoro sembrerebbe aumentare del 20% (senza considerare tuttavia le componenti legate alla riduzione dell’assenteismo e ai probabili differenti ritmi di lavoro rispetto al passato durante i turni). Possono bastare a rendere il nuovo modello Panda non più costoso rispetto all’ipotesi alternativa di produrlo a Tichy? Ad avviso di chi scrive la risposta è negativa e il piano Marchionne-Pomigliano appare controintuitivo rispetto allo stato dell’arte in tema di conoscenze sui vantaggi delle delocalizzazioni.
I vantaggi di Tichy rispetto a Pomigliano sono molteplici ma i due principali rispondono al nome di differenziale nel livello dei prezzi tra Polonia e Italia e di differenziale di cuneo fiscale sul lavoro tra i due paesi. Il livello dei prezzi in Polonia è significativamente inferiore rispetto all’Italia e questo richiede un minor salario nominale in Polonia rispetto al nostro paese per garantire un identico salario reale, cioè la possibilità per i due operai, polacco e italiano, di comperare un identico paniere rappresentativo di beni di consumo.
L’Eurostat ha da pochissimo pubblicato i “Comparative price levels” relativi ai consumi finali delle famiglie per i 27 paesi membri nell’anno 2009: da essi risulta che, posto uguale a 100 il costo di un paniere rappresentativo di beni di consumo nella media dei 27 paesi, lo stesso paniere costerebbe 106,5 in Italia e 58,6 in Polonia; ponendo invece il paniere uguale a 100 in Italia esso costerebbe in Polonia solo 55.
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In sostanza bastano 55 euro di salario nominale in Polonia per permettere l’acquisto degli stessi beni per i quali in Italia ne servono 100. Se ipotizziamo quindi che i dipendenti polacchi esigano lo stesso salario reale degli italiani (ipotesi poco plausibile dato che, essendo più poveri, è probabile che si accontentino di meno) e garantiscano identica produttività fisica (ma potrebbero in realtà essere disponibili a carichi di lavoro maggiori), Marchionne producendo a Tichy risparmierebbe già il 45% sul monte retributivo.
A questo punto l’analisi passa a considerare anche il cuneo fiscale. Quando deve spendere in tutto Marchionne per far avere netti in busta paga 55 al suo dipendente polacco e 100 a quello italiano (soldi coi quali compreranno panieri simili)? Sempre secondo Eurostat (Taxation trends in the European Union), il peso del fisco sul fattore lavoro è del 35% in Polonia e del 44% in Italia.
Quindi Marchionne dovrebbe spendere 84,6 in Polonia [dato che 84,6*(1-0,35)=55] e 178,6 in Italia [dato che 178,6*(1-0,44)=100]. Tuttavia considerando che il dato Eurostat è un tasso implicito che scaturisce dal rapporto tra il gettito di contributi e imposte che gravano sul lavoro, posto al numeratore, e l’imponibile da contabilità nazionale delle medesime, posto al denominatore, esso risulta sottostimato per effetto dell’evasione fiscale e contributiva che certo non è attuabile da un grande azienda come Fiat.
Se applichiamo invece la legislazione fiscale e contributiva arriviamo a stimare un carico complessivo sul lavoro pari al 49% (per un lavoratore con remunerazione pari alla media nazionale). In questa ipotesi Marchionne per far arrivare un salario netto di 100 euro al suo dipendente dovrebbe spendere complessivamente 196 euro.
Breve riepilogo: nella prima delle due ipotesi il lavoratore italiano costerebbe, a parità di salario reale, 2,1 volte quello polacco (infatti 178,6/84,6=2,1), mentre nella seconda costerebbe 2,3 volte (infatti 196/84,6=2,3). Ora è evidente che il dipendente italiano non può garantire una produttività pari a 2,1 o 2,3 volte il suo collega polacco per compensare il suo maggior costo del lavoro.
E questa è anche la ragione del fatto che Tichy appare una soluzione dominante rispetto a Pomigliano e che il progetto Marchionne della Panda a Pomigliano non riesce a convincerci se non andando a ricercare vantaggi ulteriori, non inclusi nel ragionamento precedente, e che non sono stati sinora esplicitati. L’unica certezza è che se il governo vuole scoraggiare le delocalizzazione produttiva deve abbattere al più presto la pressione fiscale sul fattore lavoro (che è la più alta al mondo).