Nel mondo occidentale per liberalizzazione di un mercato si intende il processo attraverso il quale vengono rimosse le barriere legali, i vincoli normativi che impediscono l’accesso agli operatori che desiderano operare nel medesimo. Prima della liberalizzazione, solitamente l’offerta è riservata a un monopolista posseduto dal settore pubblico; dopo la liberalizzazione, il mercato è generalmente aperto a una concorrenza effettiva realizzata da una pluralità di operatori.



Spesso i processi di liberalizzazione sono accompagnati anche da processi di privatizzazione degli operatori pubblici e nella generalità dei casi da una riforma della regolazione finalizzata a introdurre regole e arbitri neutrali, non sottoposti alla sfera politica, al fine di garantire una competizione su basi paritetiche tra gli operatori e a tutelare i consumatori.



Rispetto al significato sopra illustrato, accolto nelle discipline economiche e giuridiche, e valido in tutto il mondo, il termine “liberalizzazione” deve essere adeguatamente e differentemente interpretato nel caso italiano. In un vecchio blog dell’Istituto Bruno Leoni lo avevo così definito alcuni anni or sono: “Sostituzione dei vincoli normativi che impediscono il libero accesso a un mercato con ostacoli di differente natura ed equivalente efficacia”.

Quella italiana è una variante gattopardesca, finalizzata a cambiare tutto nella forma, affinché nulla muti nella sostanza. In Italia, le vere liberalizzazioni non piacciono perché mettono in discussione il carattere corporativo del nostro sistema economico, l’abitudine a non guadagnarci vantaggi e meriti nella competizione di mercato, ma a contrattare regole del gioco e medaglie direttamente con l’arbitro. Questo comporta di non liberalizzare di nostra iniziativa, ma solo quando l’Unione europea ce lo impone e in tal caso farlo il meno possibile, il più tardi possibile, nel modo peggiore possibile.



Il caso del mercato postale è un esempio da manuale di questa strategia ed è interessante raccontare la storia della sua mancata liberalizzazione nell’arco di oltre un trentennio. In primo luogo, giova ricordare le date rilevanti delle decisioni comunitarie sul tema: storicamente il mercato postale nei paesi dell’Unione era oggetto di regole nazionali ed era organizzato sottoforma di monopolio legale affidato a imprese pubbliche nazionali.

L’Unione europea ha iniziato a occuparsene nella seconda metà degli anni ‘80, ha prodotto un Libro Bianco nel 1990, il quale ha ravvisato l’esigenza di uniformare gli standard di qualità dei differenti paesi e di creare col tempo un mercato unico, ha emanato una prima direttiva, timidamente liberalizzatrice, nel 1997, una seconda nel 2002 che ha ulteriormente aperto il mercato e una terza nel febbraio 2008, la quale ha previsto la caduta delle residue barriere legali e la piena apertura del mercato con la fine del 2010.

Per effetto diretto della terza direttiva postale dell’Unione europea, il mercato italiano del recapito postale, così come quello degli altri paesi dell’Unione che non avevano spontaneamente completato la liberalizzazione, è completamente liberalizzato dallo scorso 1° gennaio. Si tratta ovviamente di una liberalizzazione solo legale, sulla carta, che sulla base delle considerazioni prima esposte non ci aspettiamo che coincida con un’effettiva libertà di entrata e con regole paritetiche di gioco per gli aspiranti competitori di Poste Italiane. Ci aspettiamo invece di trovare sulla strada che si apre al di là dei cancelli legali ora aperti gli “ostacoli di differente natura ed equivalente efficacia” in grado di compensare le soppresse barriere all’entrata. Ma prima un po’ di storia del settore postale italiano è necessaria.

 

La prima direttiva europea, quella del 1997, fu recepita nel nostro paese nel 1999. Sino ad allora il settore era regolato dal Codice Postale del 1973, il quale aveva introdotto un regime parzialmente libero da una punto di vista legale, dato che assoggettava a riserva solo le corrispondenze aventi carattere personale e lasciava al di fuori le corrispondenze commerciali, la pubblicità indirizzata, i periodici. Inoltre il monopolio era posto in favore dello Stato, non dell’azienda pubblica, e permetteva un pluralismo degli operatori, dato che garantiva concessioni, limitatamente al perimetro comunale delle principali città, anche a numerose agenzie di recapito private.

 

Purtroppo la timidissima liberalizzazione richiesta dalla prima direttiva europea, relativa alle corrispondenze sopra i 350 grammi e quelle con tariffa superiore a 5 volte il valore base (non più del 3-4% del mercato), era molto più ristretta di quella già presente sul mercato italiano. E poiché l’Italia era più virtuosa di quanto richiesto dalla direttiva, il governo di allora scelse di ricondurre la nostra virtù a quella minima necessaria e il monopolio legale fu ampliato sino al massimo consentito dall’Europa e posto direttamente in favore di Poste Italiane. Gli altri operatori furono invece privati della concessione e, poiché sarebbe stato sconveniente mandare a casa i loro dipendenti per creare il monopolio, fu data loro l’opportunità di sopravvivere come appaltatori dell’azienda pubblica nel mercato rimonopolizzato.

 

È evidente che traendo queste aziende la maggior parte dei loro ricavi dalle commesse di Poste non potevano essere granché libere di competere con Poste nella piccola area rimasta legalmente libera. Da allora, in conseguenza, non vi è più stato in Italia né pluralismo degli operatori, né concorrenza nonostante in due tappe successive, nel 2003 e nel 2005, la seconda direttiva postale abbia legalmente riaperto segmenti consistenti e non solo simbolici del mercato. Dal 2005 a oggi, circa metà del mercato del recapito è stata legalmente libera nel nostro paese, ma gli operatori diversi da Poste Italiane, cancellati col provvedimento del 1999, non potevano più trarne vantaggio.

Il mercato del recapito, in assenza di concorrenza è rimasto asfittico e sottosviluppato. Il suo contributo al Pil nazionale e all’occupazione non arriva alla metà rispetto all’intera Unione europea (comprendendovi i paesi dell’est a sviluppo economico minore dell’Italia). Anche i pezzi annui recapitati per abitante non arrivano alla metà del dato medio dell’Unione e a un terzo rispetto ai paesi con mercati più sviluppati (Scandinavia, Olanda, Regno Unito). Persino gli sloveni spendono mediamente in un anno più degli italiani per servizi di recapito.

 

Le quantità recapitate, inoltre, sono in declino da lungo tempo, ma nell’ultimo anno la caduta si è notevolmente accentuata: nel 2009 i pezzi totali (escluso il non indirizzato) sono scesi di 600 milioni di unità, passando dai 5,9 miliardi del 2008 ai 5,3 dell’ultimo esercizio (-11% in un solo anno, seppur di grave recessione); furono invece 6 miliardi nel 2007 e 6,2 nel 2006. Nell’ultimo anno Poste Italiane ha perso 208 milioni di euro nel recapito, dopo aver ricevuto compensazioni a vario titolo dallo Stato per oltre 680 milioni; lo sbilancio tra costi di produzione e ricavi da mercato è stato in conseguenza di quasi 900 milioni di euro. Non si può pertanto sostenere che il protezionismo pubblico dell’ultimo decennio sia almeno riuscito a creare vantaggio all’azienda: in realtà, ingessando il mercato e ostacolando la concorrenza ha danneggiato la sua stessa capacità competitiva nei servizi di recapito.

 

Nel suo complesso, invece, il gruppo Poste Italiane rappresenta una storia di successo, caso unico tra le imprese a proprietà pubblica: ha realizzato oltre 20 miliardi di ricavi totali nel 2009, 1,6 miliardi di risultato operativo, 904 milioni di utile e una redditività industriale dell’8% che rappresenta un record tra le aziende postali europee (e probabilmente mondiali). Ma i servizi di recapito sono ormai scesi al 26% dei ricavi totali del gruppo. Poste Italiane è diventata una grande e redditizia azienda di servizi bancari e assicurativi che, marginalmente, svolge ancora il compito di consegnare la posta.

 

Siamo così arrivati alla terza e ultima direttiva postale, quella che prevede la piena liberalizzazione del mercato per l’intera Unione (salvo alcuni paesi minori e alcuni di nuova adesione per i quali vi è la proroga di un biennio). Chi scrive, oltre ad aver fatto parte di diverse commissioni ministeriali e dell’azienda Poste Italiane negli anni ‘90, ha anche partecipato nel 2007-08 a una commissione tecnica del Ministero delle Comunicazioni, incaricata di studiare un rapido recepimento della terza direttiva postale che stava per essere emanata dall’Unione europea. Ma il governo di allora cadde a gennaio 2008, mentre la direttiva arrivò solo a febbraio, ragion per cui non fummo in alcun modo utili.

Nel successivo mese di aprile, il sottosegretario al Ministero delle Comunicazioni così concludeva, alla vigilia delle nuove elezioni, un intervento a un convegno sul tema organizzato dal mio Ateneo: “L’agenda (per il governo che verrà) è dunque rappresentata dai seguenti punti i quali delineano tre precisi obiettivi: (1) In primo luogo adeguare al più presto la nostra regolazione del mercato alla nuova direttiva europea, programmando la liberalizzazione completa del mercato e definendone le regole; (2) In secondo luogo riordinare gli strumenti della regolazione (istituzioni e modalità tecniche), in modo da garantirne indiscusso carattere tecnico/economico e assoluta neutralità in relazione alla parti in competizione sul mercato. Anche se nulla vieta e nulla impedisce a un regolatore ministeriale di agire in questa direzione, la quasi totalità dei 27 paesi europei si è ormai dotata di un regolatore indipendente e nel caso italiano la soluzione migliore appare l’assegnazione delle funzioni all’Autorità Garante delle Comunicazioni, come già indicato nella legislatura che si è chiusa nel progetto di riordino delle Autorità indipendenti; (3) Assicurare, infine, la garanzia dell’universalità, in primo luogo la copertura del servizio nell’intero territorio nazionale, attraverso strumenti che non siano distorsivi della concorrenza. In un momento difficile per l’economia nazionale, è importante orientarci al mercato e alla concorrenza per il futuro dell’Italia. Il mercato postale italiano ha grandi potenzialità ed è necessaria maggiore concorrenza, nel rispetto dell’universalità del servizio, per garantire la crescita del mercato stesso; vi è inoltre bisogno di operatori che siano in grado di competere con l’ex monopolista. Qualunque Governo uscirà dalle urne elettorali dovrà essere necessariamente favorevole al processo di liberalizzazione”.

 

È stato così? Sembrerebbe di no e a dircelo è un osservatore del quale non si può sospettare una posizione di parte, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Essa aveva già sostenuto un anno fa, nel formulare le “Proposte di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza”, la necessità dell’istituzione di un regolatore indipendente per il mercato postale. Il presidente Catricalà ha inoltre evidenziato in ripetute occasioni durante l’ultimo anno che “l’Autorità per le Comunicazioni potrebbe vigilare sul sistema postale”.

 

L’Agcom, a sua volta, ha manifestato in una segnalazione a governo e parlamento le ragioni che giustificano l’estensione al mercato postale dei compiti dell’Autorità, tra le quali non è secondario il fatto che in quasi tutti i paesi dell’Unione il regolatore delle telecomunicazioni abbia anche competenza sui servizi postali, mentre nel solo Regno Unito vi è un organismo dedicato allo specifico mercato. L’attivazione di un arbitro indipendente del mercato, già richiesto dalla direttiva del 1997, è precondizione essenziale per garantire la regolarità della competizione e la sua mancata adozione in Italia ha dato luogo due anni fa all’apertura di una procedura d’infrazione da parte dell’Unione europea.

Nonostante la terza direttiva europea sia datata febbraio 2008, l’Italia ha tuttavia aspettato la vigilia di Natale 2010 per recepirla, senza peraltro seguire i consigli delle due Autorità. Il provvedimento di recepimento è ora all’esame delle competenti commissioni parlamentari e sembra rappresentare, anziché l’effettivo strumento della liberalizzazione, il veicolo dei famosi “ostacoli di differente natura ed equivalente efficacia” in grado di vanificare la portata della liberalizzazione legale. Tali ostacoli sono identificati nei seguenti punti dall’Antitrust in un parere a Governo e Parlamento dello scorso 15 gennaio, nel quale ne domanda la rimozione:

 

1) L’Autorità incaricata della regolazione non è un organismo indipendente bensì un’agenzia sottoposta agli indirizzi del Ministero dello Sviluppo Economico;

 

2) Il compito di garantire il servizio universale viene assegnato in blocco e per un periodo lungo a Poste Italiane in via diretta, senza l’utilizzo di procedure ad evidenza pubblica.

 

3) Non è utilizzata la possibilità, indicata dalla direttiva, di “designare più imprese per fornire i diversi elementi del servizio universale e/o per coprire differenti parti del territorio nazionale”.

 

4) Il servizio universale è inoltre identificato nel perimetro maggiore possibile, fattore che accresce l’onere per l’impresa che dovrà essere rimborsato dal committente pubblico.

 

5) Al prestatore del servizio universale sono garantiti benefici fiscali, quali l’esenzione dall’Iva, i quali “costituiscono un vantaggio concorrenziale nei confronti degli altri operatori”;

 

6) Le modalità di finanziamento dell’onere del servizio universale possono anch’esse rappresentare un fattore di distorsione della concorrenza e di penalizzazione dei nuovi entranti.

 

7) Gli invii raccomandati relativi alle procedure giudiziarie e notifiche a mezzo posta sono ingiustificatamente mantenuti sotto riserva legale;

 

8) Le licenze agli operatori per i servizi rientranti nell’area universale sono assegnate dal Ministero dello Sviluppo Economico e non dall’Autorità di regolazione.

 

A questo punto il processo di liberalizzazione del mercato postale è di fronte a un bivio: o l’Antitrust riesce a convincere le commissioni parlamentari a non dare il via libera al testo proposto dal Governo, oppure vi è davvero il rischio che gli otto ostacoli prima elencati riescano a neutralizzare gli effetti attesi dalla liberalizzazione legale. In tal caso, a noi consumatori (ma anche contribuenti del costo del servizio universale) non resterebbe che archiviare un’altra liberalizzazione “made in Italy”.