Il dibattito sulle privatizzazioni si svolge su due binari paralleli destinati a non convergere: da un lato i molti critici delle privatizzazioni dialogano prevalentemente tra di loro portando una miriade di motivazioni a sostegno delle loro posizioni; dal lato opposto i pochissimi favorevoli non hanno bisogno di rafforzare le loro argomentazioni, essendone ben convinti, e per loro l’elemento di maggiore interesse è rappresentato dalla dimensioni dei processi che potrebbero essere attuati, dai tempi necessari e dall’ammontare dei ricavi possibili: cosa è privatizzabile, in quanto tempo, quanto si potrebbe ricavare. I primi non sembrano avere nessuna intenzione di ascoltare le ragioni degli altri e i secondi, in conseguenza, ben poche possibilità di farsi ascoltare. Di questo passo è molto difficile prendere decisioni collettive razionali e condivise nell’interesse del Paese.



Appartenendo al secondo gruppo, provo allora, in via preliminare, a confutare brevemente le principali argomentazioni utilizzate dagli anti-privatizzazioni per arrivare poi a ragionare sulle privatizzazioni fattibili. Una motivazione molto diffusa è la cosiddetta valenza strategica delle imprese tuttora a controllo pubblico; poiché sono strategiche come è possibile alienarle e correre il rischio che cadano, come appare verosimile, sotto controllo estero? Tuttavia, che cosa si intenda per strategico non viene mai precisato, lasciando sorgere il sospetto di una motivazione circolare: poiché non si desidera privatizzarle allora sono strategiche ed essendo strategiche non si possono evidentemente privatizzare.



Vi sono a mio avviso due soli possibili significati dell’aggettivo strategico riferito a imprese pubbliche: (i) che sono essenziali per la crescita economica del Paese; (ii) che sono essenziali per il funzionamento dell’intero sistema economico. La seconda motivazione è sicuramente vera, tuttavia non si comprende come queste imprese cesserebbero in tale ruolo qualora dovessero essere trasferite nella proprietà di privati, italiani o stranieri. Forse i nuovi proprietari provvederebbero a ridimensionarle o a chiuderle dopo aver speso molto per comperarle tutte intere? Non sembra nel loro interesse. Forse i nuovi proprietari, se stranieri, provvederebbero a sradicare le reti per trasportarle nel loro Paese? Tecnicamente molto difficile. In realtà, continuerebbero, tanto gli eventuali proprietari italiani quanto gli stranieri, a servire la domanda italiana perché è da essa che dipende il loro successo economico, la realizzazione dei loro profitti. La prima motivazione, a sua volta, può anche essere vera, ma allora non si comprende come la crescita economica sia scomparsa da oltre un decennio, nonostante tutte queste imprese pubbliche, dai radar dell’economia italiana.



Un’altra motivazione molto diffusa è che non è consigliabile vendere ulteriori quote delle aziende pubbliche quotate (Eni, Enel e Finmeccanica) perché lo Stato è già sceso attorno al 30% del capitale e la cessione di ulteriori quote rischierebbe di far perdere il controllo pubblico di queste aziende. Al che il liberista pro-privatizzazioni risponde che non c’è proprio nulla di male a cedere il controllo e che anzi nel mondo anglosassone è proprio questo che si intende quando si parla di privatizzazioni, non la vendita di quote che preserva il controllo. Queste sono privatizzazioni all’italiana. Nel Regno Unito, ad esempio, quando Margaret Thatcher negli anni ’80 ha privatizzato ha esattamente ceduto il controllo. Ma a questo punto il sostenitore dell’impresa pubblica dirà che non si può perdere il controllo, perché si tratta di imprese strategiche e quindi ritorniamo al discorso già affrontato.

Un’argomentazione ulteriore è che privatizzare in questo momento non è conveniente. Alle quotazioni attuali, molto deprezzate, si tratterebbe infatti di una svendita; molto meglio continuare a percepire i dividendi. Il ragionamento è valido, ma si applica tuttavia solo all’eventuale cessione di ulteriori quote non di controllo sul mercato che non potrebbe avvenire a prezzi difformi rispetto alle quotazioni borsistiche. Molto diverso è invece il quadro se si è disponibili a cedere il controllo e a vendere a una controparte industriale disponibile a pagare un premio per il medesimo. E in ogni caso non è necessario privatizzare tutto subito, basta avviarsi in maniera credibile sulla strada delle privatizzazioni dichiarando, e agendo di conseguenza, che si è disponibili anche a cedere il controllo nel medio periodo purché a prezzi congrui, in linea con le quotazioni raggiunte da queste aziende prima della recessione.

Il ragionamento non si applica, inoltre, alle numerosissime aziende non profittevoli, che non distribuiscono dividendi, e in particolare a quelle che continuano a gravare consistentemente sulla finanza pubblica (prevalentemente nel settore dei trasporti pubblici). In questi casi privatizzare serve in primo luogo ad alleggerire gli oneri sul bilancio pubblico facendo in modo che soggetti privati riportino a efficienza la gestione di queste imprese.

Argomentazione debole, infine, è quella della vendita dei gioielli di famiglia. Saranno pure gioielli, ma qualunque soggetto privato che si ritrovi a essere molto indebitato li venderebbe per alleggerire i debiti. Perché per il settore pubblico dovrebbe essere diverso?

Purtroppo nessun commentatore mette in primo piano l’esigenza di valutare le performance delle imprese pubbliche italiane in raffronto alle performance di imprese europee analoghe, sia pubbliche che private. Si tratta di un metodo molto pragmatico che potrebbe far fare molti passi avanti alla discussione: esiste un’impresa di servizi pubblici che rispetto a quella italiana dia un contributo al Pil maggiore, abbia un livello di domanda e un livello di occupazione in rapporto alla popolazione maggiore, applichi livelli tariffari minori, richieda sussidi minori (se necessari per garantire il servizio nelle aree periferiche) e realizzi una profittabilità migliore? Se esiste allora è un caso dominante, un benchmark di riferimento.

Vediamo allora quali sono i benchmark di riferimento per due importanti servizi di pubblica utilità: nel caso delle poste, le migliori imprese europee sono quella olandese, totalmente privata, quella svedese-danese (si sono fuse tre anni fa), totalmente pubblica, e quella tedesca, parzialmente privatizzata; nel caso delle ferrovie, i sistemi di imprese più efficienti sono quello svedese, basato su imprese totalmente pubbliche, e quello britannico, basato su imprese privatizzate da più di quindici anni (con l’eccezione del gestore della rete).

Rispetto a questi casi di riferimento, sostanzialmente equivalenti tra di loro, le imprese italiane dei due settori sono distanti anni luce, come avremo occasione di verificare in futuri contributi. Che fare allora? Se avessimo una gestione pubblica efficiente come quella delle poste e delle ferrovie svedesi anche i liberisti più incalliti avrebbero poche frecce privatizzatorie al loro arco. Gli svedesi non pensano proprio a privatizzare poste e ferrovie, anche perché il loro debito pubblico in rapporto al Pil è un terzo di quello italiano, superando di pochissimo il 40%. Invece, l’Italia non ha il debito, non ha le poste e non ha le ferrovie della Svezia e, allora, sulla base di un ragionamento pragmatico, il consiglio è di privatizzare le cassette delle lettere e i treni per ridare efficienza a questi settori e per permettere una liberalizzazione effettiva e non solo di facciata.

Le privatizzazioni servono in primo luogo a rimettere ordine nei relativi mercati, a far uscire il settore pubblico dalle gestione e a ricondurlo al ruolo esclusivo di arbitro, a realizzare un effettivo meccanismo di concorrenza nel mercato su basi paritetiche tra i diversi operatori. Esse sono molto utili anche nell’ipotesi estrema che nessun soldino giunga nelle casse pubbliche, mentre i ricavi da privatizzazione rappresentano solo uno degli obiettivi di tali processi, non quello più importante.

Si perviene così alla domanda che sta più a cuore ai sostenitori delle privatizzazioni: cosa è privatizzabile (nella senso della rinuncia al controllo pubblico), in quanto tempo, quanto si potrebbe ricavare? Alla prima parte ho già risposto in precedenti contributi: tutte le imprese pubbliche tranne la rete ferroviaria (perché non vi è alcun caso europeo in cui sia privata). Per la seconda l’orizzonte di riferimento è il medio periodo: tra i cinque e gli otto anni. In relazione alla terza, valutando tutte le imprese pubbliche, nazionali e locali, tra i 70 e i 100 miliardi, si può pensare a proventi in media all’anno dell’ordine di grandezza di 10 miliardi di euro lungo il periodo sopra indicato.

Poco rispetto alle dimensioni del debito pubblico? Apparentemente si. D’altra parte è lo stesso ordine di grandezza indicato da Tremonti nel seminario svoltosi al Tesoro per il rilancio delle privatizzazioni, anche se Tremonti intende con privatizzazioni soprattutto le cessioni di immobili pubblici, una forma anch’essa utile, ma che non riduce di un millimetro il potere d’interferenza del settore pubblico nei mercati e come tale risulta preferita da ministri statalisti in cerca di quattrini.

Accanto ai proventi diretti delle privatizzazioni bisogna tuttavia considerare anche quelli indiretti, i risparmi di spesa per interessi sul debito generati dalla ripresa della credibilità dell’Italia attraverso la riduzione dello spread coi Bund tedeschi: 100 punti base di spread in meno portano a regime a un risparmio di circa 20 miliardi all’anno che si ripete tutti gli anni, mentre i proventi delle privatizzazioni sono una tantum. I proventi indiretti potrebbero essere un multiplo consistente di quelli diretti e persino una privatizzazione che risultasse a entrate dirette pari a zero per il settore pubblico potrebbe generare rilevanti effetti indiretti.

Come si può abbassare di 100 punti base lo spread? Vendendo un po’ di palazzi, vendendo a prezzi bassi quote non di controllo di imprese quotate oppure privatizzando i servizi postali, il trasporto ferroviario e magari anche la Rai?

 

(6 – fine)