In tema di nuove e ulteriori tasse, il ripristino dell’Ici sulla prima casa sembra essere l’ipotesi più probabile in alternativa all’adozione di una patrimoniale straordinaria finalizzata a ridurre direttamente lo stock del debito. Poiché sulle conseguenze negative e l’inopportunità della seconda abbiamo già scritto la scorsa settimana, non resta che esaminare le ipotesi più probabili di modificazione della prima in parallelo con i cambiamenti che sarebbe invece opportuno realizzare per ragioni di equità.



Breve storia: dall’Isi all’Ici e all’esenzione della prima casa

Bisogna in primo luogo ricordare che l’Ici è un’imposta nata male nei primi anni ‘90 e cresciuta anche peggio, come aliquote e come gettito, nel corso degli anni. Essa fu infatti introdotta come Isi, imposta straordinaria sugli immobili, e quindi con carattere una tantum, nella manovra straordinaria del governo Amato dell’estate 1992 (decreto legislativo 11 luglio 1992, n. 333). Si trattava già in origine di un’imposta di tipo patrimoniale, dato che l’imponibile era dato dal valore catastale degli immobili, calcolato moltiplicando per un coefficiente la rendita catastale assegnata ai medesimi. L’aliquota fissata per l’Isi era il 4 per mille.



L’introduzione di questa imposta creò notevole scompiglio e perplessità ai contribuenti per una serie di ragioni:

1 – Era un’imposta nuova e inattesa;

2 – Si applicava a un imponibile sconosciuto agli stessi contribuenti, dato che in quel periodo il catasto aveva appena rivisto le rendite catastali. I proprietari di immobili dovettero quindi mettersi pazientemente in fila al catasto tutti assieme per conoscere l’imponibile sul quale calcolare il debito d’imposta.

3 – Oltre al costo di adempimento derivante dalla caccia al tesoro del contribuente per scovare il suo imponibile bisogna inoltre ricordare che nella primavera dell’anno successivo i contribuenti si ritrovarono a dover compilare in aggiunta al già lungo modello 740 anche un ampio formulario aggiuntivo per la dichiarazione dell’Isi. Il nuovo formulario era potenzialmente idoneo alla lettura ottica dei dati, ma purtroppo i lettori all’uopo acquisiti dall’amministrazione finanziaria non si rivelarono adatti allo scopo.



Il carattere straordinario dell’Isi durò solo cinque mesi dato che alla fine dello stesso anno l’imposta veniva trasformata in tributo annuale con la denominazione di Ici (decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 504). Anche se l’imposta, sostituendo trasferimenti dallo stato centrale, ha avuto il merito di rappresentare una fonte di gettito autonomo rilevante per i comuni, in grado di accrescerne l’autonomia finanziaria, si può tuttavia sostenere che essa sia nata male per diverse ragioni:

1 – Prima di essa le rendite immobiliari, pur sottostimate, erano assoggettate all’imposta Irpef progressiva tramite la loro dichiarazione nel modello 740. Era allora proprio necessario introdurre una nuova imposta? Non sarebbe bastato rivalutare le rendite lasciando invariata l’imposizione progressiva e trasferendo il gettito immobiliare dell’Irpef ai comuni? In tal modo si sarebbero evitati in costi di adempimento dei contribuenti e conservata la progressività.

2 – Chi ha disegnato l’Ici non era certo un seguace di Aristotele il quale nell’Etica Nicomachea aveva introdotto i concetti chiave di equità orizzontale e verticale. Trattare in maniera egualitaria chi si trova nelle medesime condizioni e in maniera differenziata chi si trova in condizioni differenti richiede di conoscere e tenere in conto le caratteristiche rilevanti del contribuente. Con un’imposta sul reddito si può fare in maniera agevole, con un’imposta sul patrimonio, e in particolare su quello immobiliare, molto meno.

3 – A parità di rendita e di valore catastale, infatti, un’abitazione può essere abitazione di vacanza o tenuta a disposizione oppure prima casa, e in tale ipotesi essa può essere abitata da nuclei familiari più o meno numerosi. L’Ici prevedeva in origine una detrazione d’imposta pari a 200.000 lire per abitazione prima casa, poi divenuti 103,3 euro, strumento correttivo in grado di differenziare sulla base dell’uso, ma non dell’ampiezza familiare.

4 – La detrazione in cifra fissa aveva l’ulteriore controindicazione di concedere beneficio fiscale alla prima casa con quota decrescente all’aumentare della rendita catastale: abitazioni in aree rurali e nel Meridione erano esentate in quota maggiore a causa del minore livello della rendita, il contrario nella aree urbane e al Nord.

5 – Il coefficiente per ricavare il valore catastale dell’immobile a partire dalla rendita catastale era inspiegabilmente molto differenziato a seconda della tipologia del medesimo: 100 per le abitazioni, 50 per gli uffici, solo 34 per i negozi.

6 – Le aliquote Ici erano stabilite per tutti i comuni in un range compreso tra il 4 e il 7 per mille, eccessivamente ampio e discrezionale per ogni data area territoriale ed eccessivamente differenziabile tra prima casa e altre tipologie. Si lasciava in tal modo eccessivo spazio ai comuni, in particolare quelli delle località turistiche, per sovratassare le seconde case, i cui titolari non votano nel comune specifico, in favore di aliquote molto contenute per i proprietari-elettori residenti.

7 – Bisogna inoltre considerare che la rendita di un immobile abitativo deriva dalla moltiplicazione del numero dei vani catastali per la rendita unitaria che è definita al momento dell’iscrizione dell’immobile in catasto. Essa riflette in conseguenza il valore storico dell’immobile, non quello corrente, e accade in conseguenza molto spesso che un immobile più centrale e pregiato, ma più antico, goda di una rendita inferiore, e paghi in conseguenza meno tasse, rispetto a un immobile di identiche dimensioni meno pregiato e più periferico, ma di più recente costruzione.

8 – I vani catastali, inoltre, non coincidono con i vani abitabili, ma conteggiano anche come frazione di vano locali di servizio quali corridoi, bagni, ripostigli, ecc. Ad esempio, un bilocale non corrisponde mai a due vani catastali, ma più probabilmente a tre. Accade così che i vani catastali crescano meno che proporzionalmente all’aumentare della metratura e dei vani effettivi, penalizzando le abitazioni più piccole e i proprietari meno abbienti.

Esaminate le principali criticità dell’Ici che esistono dalla sua introduzione vediamo ora le principali modifiche all’imposta che sono intervenute nel tempo. In primo luogo, bisogna ricordare che dal 1993 in avanti l’Ici si è aggiunta all’Irpef che già gravava sugli immobili, prima casa compresa, e solo in anni più recenti la rendita della prima casa è fuoriuscita dall’imponibile dell’Irpef. Se consideriamo che a metà degli anni ‘90 la rendita catastale era assoggettata ad aliquote Irpef comprese tra il 20% e il 50% e che il valore catastale dell’immobile, pari a 100 volte la rendita, era assoggettato ad aliquote Ici comprese tra il 4 e il 7 per mille, corrispondenti a un prelievo aggiuntivo sulla rendita compreso tra il 40% e il 70%, perveniamo a un prelievo complessivo (Irpef+Ici) sulla rendita compreso tra un minimo del 60% e un massimo del 120%. Anche se le rendite sono da sempre sottostimate non si tratta certo di valori contenuti.

Il prelievo sulla prima casa in particolare è sempre stato ritenuto particolarmente iniquo e nel programma elettorale per le elezioni del 2006 il centrodestra aveva proposto l’abolizione del tributo per questa tipologia. Il nuovo governo di centrosinistra preferì invece aumentare le detrazioni Ici prima casa fino a un massimo di 303 euro, esentando in tal modo circa il 40% delle famiglie italiane e riducendo sensibilmente l’imposta anche per le altre. Fu infatti aggiunta un’ulteriore detrazione per l’abitazione principale, pari all’1,33 per mille del valore catastale dell’immobile, a eccezione delle abitazioni rientranti nelle categoria catastali più lussuose (A1, A8 e A9, rispettivamente abitazioni signorili, ville e castelli). L’importo di questa ulteriore detrazione non poteva superare i 200 euro che si aggiungevano pertanto ai tradizionali 103. Anche se il governo Prodi andava nella direzione dell’alleggerimento della pressione fiscale sulla prima casa, il mantenimento di una detrazione monetaria proporzionale al valore dell’immobile conservava gli aspetti critici in precedenza ricordati, in particolare il fatto di non tener conto delle dimensioni delle famiglie.

Nel 2008 il ministro Tremonti attraverso il decreto legislativo 93/2008, entrato in vigore il 29 maggio 2008, aboliva del tutto l’Ici sulla prima casa (con la consueta esclusione delle abitazioni signorili, delle ville e dei castelli). Purtroppo neanche il provvedimento Tremonti risulta esente da critiche, in particolare per il fatto di aver permesso la totale esenzione dall’Ici di abitazioni anche di grande dimensioni, purché non rientranti nelle tre categorie precedenti, indipendentemente dalle dimensioni delle famiglie che le occupano. Si è in tal modo creato spazio per comportamenti elusivi: una famiglia di quattro persone, ad esempio, può rendere esenti dall’Ici quattro diverse abitazioni spostando opportunamente la residenza dei suoi membri.

 

Come riformare l’Ici: modulandola sulle dimensioni familiari

È evidente che occorrerà intervenire nuovamente sull’Ici e il Presidente del consiglio Monti è stato chiaro al riguardo nel suo discorso di insediamento alla Camere. Vi sono ragioni di gettito per cambiare ancora l’Ici, ma a maggior ragione – dato che si vorrà ottenere più entrate da questa imposta – è necessario intervenirvi con grande rispetto dell’equità. Non si può trascurare che la prima casa non è un bene voluttuario, come può essere uno yacht o un’auto sportiva, ma una necessità e almeno una quota della medesima, espressa in vani effettivi, vani catastali o metri quadri di superficie, deve continuare a restare esente.

Come già ricordato in una precedente occasione, non è il caso di ritornare a tassare la prima casa tout court e il fatto che una famiglia sia proprietaria dell’immobile in cui abita non può rappresentare una condizione da penalizzare. Tuttavia, non è nemmeno equo esentare tutte le prime case indipendentemente dalle loro dimensioni e dalla numerosità delle famiglie che vi abitano. La soluzione equa per eccellenza è quindi è un’Ici modulata sulle dimensioni familiari, tale da esentare i bisogni abitativi minimi. La soluzione più semplice è senz’altro quella di applicare l’Ici ai soli vani catastali eccedenti il numero di componenti della famiglia. Ad esempio, una famiglia di quattro persone sarebbe esente per quattro vani catastali, mentre pagherebbe quelli residuali. Un single, invece, sarebbe esente per un solo vano e pagherebbe per tutti gli altri. Se le due famiglie dell’esempio abitassero entrambe in una casa di sette vani catastali la prima pagherebbe l’imposta sui 3/7 del valore catastale dell’immobile mentre la seconda su 6/7. L’ideale sarebbe poter esentare 1,5 vani pro capite, trattandosi di vani catastali e non effettivi, tuttavia esigenze di gettito potrebbero non consentirlo.

Come non riformare l’Ici: gonfiando gli imponibili per far lievitare il gettito

Il rischio maggiore della revisione dell’Ici è che si utilizzi un pur necessario avvicinamento delle rendite catastali ai valori di mercato, strumento in grado di superare le attuali disparità tra immobili accatastati in epoche diverse, per gonfiare gli imponibili e incrementare in tal modo in maniera consistente e ingiustificata il gettito. È una strada che va in direzione opposta all’equità e di fronte alla quale, se fosse proposta, occorrerebbe manifestare tutta la contrarietà possibile. Avvicinare le rendite ai valori di mercato è positivo perché permette di allineare i valori catastali superando le disparità che si sono stratificate nel tempo; è tuttavia necessario ridurre in maniera equivalente le aliquote in modo tale che, nella media degli immobili, il prodotto tra le rendite nuove e le aliquote nuove non sia dissimile dal prodotto tra le rendite vecchie e le aliquote vecchie.

È importante in ogni caso che siano chiari i punti seguenti:

1 – Il valore catastale di un immobile non deve riflettere il valore corrente di mercato, bensì un valore prudente e normale, non alterato da tendenze rialziste o ribassiste di breve periodo. Potrebbe essere un valore medio calcolato su un periodo piuttosto lungo, ad esempio un decennio o più.

2 – Il prezzo corrente degli immobili rappresenta solo il prezzo degli immobili che a quel prezzo sono stati effettivamente comprati e venduti; non può essere automaticamente utilizzato per rappresentare il valore degli immobili che sono rimasti nella proprietà dei medesimi soggetti. Se in un determinato quartiere di una determinata città il prezzo medio al metro quadro degli immobili scambiati quest’anno è di 4.000 euro, non possiamo sostenere automaticamente che il valore di tutti gli altri immobili del quartiere sia di 4.000 euro. Cosa succederebbe, infatti, al prezzo se molti altri proprietari decidessero di vendere?

3 – Se il prezzo di un immobile sale nel tempo il suo proprietario non diventa necessariamente più ricco, potrebbe anche diventare più povero. Faccio due esempi, riferiti entrambi a una coppia che compra in una grande città un appartamento e vede dopo un po’ di anni il suo prezzo triplicare. Nella prima ipotesi si tratta di una coppia di mezza età che, al momento in cui il prezzo risulta triplicato, va in pensione e può permettersi di vendere la casa per comperarne, a un prezzo minore, una molto più grande con giardino e vista mare in una località di vacanza. Questa coppia sta senz’altro meglio rispetto alla condizione di partenza. La seconda coppia è di novelli sposi e quando il prezzo risulta triplicato ha due figli piccoli e vorrebbe trasferirsi in una casa più grande, ma con i nuovi prezzi degli immobili non può permetterselo mentre avrebbe potuto farlo nell’anno di acquisto del primo immobile. È allora più povera in termini di beni ai quali può accedere, anche se sembra più ricca in termini puramente di valore di mercato del suo patrimonio. Eviti per favore il fisco di tassare ricchezza solo apparente o immaginaria.