I lettori de Il Sussidiario conoscono già le ragioni per le quali la manovra Monti non ci entusiasma:
1) Non contiene riforme strutturali di grandi capitoli della spesa pubblica a eccezione delle pensioni;
2) Non riduce il peso dell’intervento statale nel sistema economico: non riavvia seri processi di privatizzazione e contiene solo limitati provvedimenti di liberalizzazione delle attività economiche;
3) Non modifica l’assetto di mercati nei quali imprese pubbliche statali detengono ancora posizioni monopolistiche di fatto (ferrovie, poste, gas naturale);
4) È prevalentemente basata su aumenti di entrate fiscali (in misura ancora maggiore rispetto alle manovre di Tremonti);
5) Le maggiori tasse ricadono sugli stessi contribuenti che già pagano le imposte attuali e accrescono quindi l’oppressione fiscale senza riuscire a contrastare efficacemente l’evasione;
6) La manovra ha effetti recessivi ed è pro ciclica, dato che ci troviamo in una nuova fase negativa della congiuntura economica;
7) Essendo basata su una molteplicità di provvedimenti di piccolo e medio taglio non riesce a tener conto dell’effettiva capacità contributiva dei cittadini e a garantire con certezza il requisito costituzionale della progressività del sistema fiscale;
8) Conferma una pericolosa asimmetria tra cittadini e Stato: i cittadini sono ancora una volta chiamati a pensare in primo luogo alle esigenze dello Stato prima di quelle proprie e dei propri familiari non percettori di reddito, mentre lo Stato può tranquillamente continuare a pensare a se stesso prima dei propri cittadini.
In sostanza i cittadini sono chiamati a fare più sacrifici affinché lo Stato possa continuare a non farne. Un esempio numerico è in grado di confermare questa affermazione: nel 2010 la spesa pubblica totale è stata pari al 50,6% del Pil e con l’aumento della spesa per interessi nei prossimi anni è probabile che aumenti di ulteriori due punti percentuali. Tuttavia a sostenere questa spesa pubblica così alta non è tutto il Pil prodotto annualmente dagli italiani, ma solo la sua parte emersa, stimabile in circa l’80% di quello totale. In sostanza, il settore pubblico finirà, anche grazie a questa manovra, per pesare per i due terzi del Pil prodotto alla luce del sole, un valore che non trova riscontro in nessun’altra esperienza internazionale, attuale o passata.
Riconfermate queste valutazioni critiche è tuttavia doveroso chiederci se non siano possibili interventi migliorativi della manovra in corso di discussione in Parlamento che ne accrescano l’equità pur a parità di effetti sui saldi e senza alterare l’impianto della medesima, modifiche di più ampio respiro che non appaiono proponibili le prime, avendo promesso sconsideratamente all’Europa il pareggio di bilancio nel 2013, e non appaiono fattibili le seconde. Mi limito a tre proposte che toccano gli aspetti principali della manovra: 1) pensioni; 2) Ici-Imu; 3) tasse sui beni di lusso.
1) Introdurre un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte per finanziare una indicizzazione più ampia delle pensioni medio-basse
L’ampia riforma delle pensioni è l’unica parte della manovra Monti che può essere in gran parte condivisa. Sull’attuale spesa pensionistica grava infatti la caratteristica che le pensioni in essere, calcolate in passato col criterio retributivo, sono tutte più elevate di quelle che sarebbero state invece definite col criterio contributivo, quindi attraverso un principio di equivalenza attuariale tra contributi versati nella vita lavorativa e trattamenti erogati nel periodo di pensione. Inoltre, più sono alte e più grande è il vantaggio ricevuto rispetto ai contributi versati, purtroppo a spese delle giovani generazioni obbligate a versare aliquote proibitive (il 33% per gli iscritti Inps), le più alte d’Europa, per ricevere in età elevata rispetto ai padri e ai nonni una frazione molto più piccola delle ultime retribuzioni. È allora da approvare il passaggio, fortemente voluto dal Ministro Fornero, al sistema contributivo pro rata dal prossimo gennaio e l’allungamento degli anni di contribuzione necessari per andare in pensione prima dell’età standard. Tre cambiamenti sembrano tuttavia auspicabili rispetto all’attuale impianto.
Chi era in procinto di conseguire i requisiti per ottenere la pensione di anzianità vedrebbe ora allungarsi di parecchi anni il periodo da trascorrere ancora al lavoro. Poiché la penalizzazione sembra eccessiva, essa potrebbe essere sostituita da una di tipo economico: ad esempio, chi per effetto dell’attuale manovra dovrebbe lavorare ulteriori cinque anni potrebbe accettare per gli ultimi cinque anni lavorativi già trascorsi il calcolo pro rata del trattamento secondo il criterio contributivo al posto del retributivo in cambio del via libera al suo pensionamento.
Le nuove regole non debbono ovviamente essere applicate a chi un lavoro non ce l’ha più perché è stato messo in cassa integrazione di lungo periodo a seguito di processi di ristrutturazione aziendale (vedasi caso Alitalia). Questi lavoratori, qualora impossibilitati ad accedere alla pensione di anzianità a causa delle nuove regole, non possono evidentemente continuare nel loro lavoro precedente, che hanno perso da tempo, ed è quindi corretto esentarli.
A chi è già in pensione e ha usufruito di regole di calcolo generose e non sostenibili era giusto chiedere un sacrificio in termini di non adeguamento del trattamento in funzione dell’inflazione. Lo si sarebbe dovuto tuttavia limitare alle pensioni di importo superiore alla media, mentre nell’obiettivo di risparmi di spesa consistenti l’indicizzazione piena è stata garantita solo ai trattamenti minimi (che ammontano appena a 468 euro al mese) e ai titolari di trattamenti sino al doppio del minimo (quindi 936 euro al mese) forse ritenuti dal governo prodighi scialacquatori, l’indicizzazione è stata confermata solo per metà dell’inflazione. Sarebbe invece opportuno garantire un’indicizzazione piena sino al doppio del minimo e anche un’indicizzazione attenuata sino al triplo. Il costo di queste modifiche potrebbe essere finanziato da un contributo di solidarietà, giustificato dai costi del sistema sanitario, da applicarsi con aliquota proporzionale (ad esempio, il 6% o più) agli importi delle pensioni che eccedono (sempre a titolo di esempio) il quadruplo del minimo.
2) Introdurre una No-Ici area finanziandola con una reintroduzione dell’Invim
Il fisco è consapevole che la prima casa, almeno entro dimensioni ragionevoli, non è un bene voluttuario ma è necessaria ai cittadini per abitarci? Da come è stata reintrodotta dal nuovo governo l’Ici sulla prima casa sembrerebbe proprio di no. Su di essa graverà infatti un’Ici al 4 per mille e sulle altre abitazioni al 7,6 per mille, aliquote che i Comuni potranno, e anzi dovranno, visti i tagli ai trasferimenti governativi, alzare rispettivamente sino al 6 e al 10,6 per mille.
L’imponibile sarà dato dagli attuali estimi catastali rivalutati tuttavia del 60%. Se si considera che gli estimi delle abitazioni sono pari a 100 volte la rendita catastale, già rivalutata del 5% diversi anni fa, questo significa che sulle prime case si pagherà ogni anno dal 64% al 96% dell’attuale rendita catastale e sulle altre case dal 122% al 170% della rendita, un vero esproprio attuato da una tassa di tipo patrimoniale che non considera in maniera adeguata se la proprietà tassata è effettivamente in grado di produrre un reddito oppure no perché usata dai proprietari. Ed è penalizzante per le famiglie: più grande è il numero di componenti più grande, si spera, sarà anche la casa abitata e più elevata, in conseguenza, anche l’Ici dovuta. Evidentemente per il governo dare un tetto ai nostri figli o ai nostri genitori è un lusso che non ci dovremmo permettere. E chi colpisce questa imposta? Ovviamente i proprietari di immobili che non sono tuttavia solo ricchi percettori di rendite, ma per 19,7 milioni su 24,3 totali lavoratori dipendenti o pensionati e che, ovviamente, non potendo pagare il fisco cedendogli metri quadri di abitazione, dovranno farlo a spese dei loro attuali consumi.
Appare dunque necessario modificare il provvedimento al fine di introdurre una no-Ici area per la prima casa commisurata al numero di componenti della famiglia (Un vano a testa? Tot metri quadri a testa?) assieme a un’esenzione totale per chi ha redditi ridotti, inferiori a una certa soglia. Queste esenzioni potrebbero essere agevolmente finanziate da una reintroduzione dell’Invim, l’imposta abolita nel 1992 che colpiva l’incremento di valore degli immobili realizzato al momento della loro cessione. Se oggi vendiamo a 160 una casa acquistata diversi anni fa a 100, sull’incremento di valore, al netto dell’inflazione che si è verificata nel periodo, non sarebbe irragionevole essere chiamati a versare una percentuale non esorbitante al fisco (ad esempio, tra il 10% e il 15%). In tal modo si ricaverebbero ogni anno diversi miliardi di euro, più che sufficienti a compensare le esenzioni prima casa.
3) Introdurre una tassa d’immatricolazione sulle supercar per attenuare il bollo delle utilitarie
È vero che anche i ricchi con la manovra Monti piangeranno, come auspicato diversi anni fa da un partito della sinistra radicale? Lecito dubitarne dato che pagheranno qualcosa, ma solo se dispongono di supercar, di aerei ed elicotteri privati non immatricolati in Irlanda o paesi simili e di yacht, ma a condizione di tenerli ostinatamente d’estate in porti italiani anziché a Saint Tropez o posti analoghi. Infine, se si sono avvalsi dello scudo fiscale dovranno (forse) dare l’1,5% al fisco in più rispetto al 5% già dato ai tempi di Tremonti, per un totale in percentuale dell’imponibile che non arriva tuttavia a un decimo di quanto pagato da un lavoratore con reddito medio.
Val la pena allora di ricordare che un tempo sui beni di lusso gravava un’aliquota Iva maggiorata che era pari al 36% e che a un certo punto l’Unione europea impose di ricondurre all’aliquota normale. Per i beni di lusso registrati quali le auto lo stesso effetto economico si ottiene tuttavia affiancando all’aliquota Iva ordinaria, ora al 21%, una tassa d’immatricolazione pari al 15% del valore. Si tratta di uno strumento ampiamente usato all’estero, soprattutto nei paesi nordici. Si potrebbe utilizzare il relativo gettito per attenuare invece il bollo auto sulle utilitarie, quelle normalmente utilizzate dai contribuenti tartassati per recarsi in ufficio o in fabbrica. Quanto agli yacht forse basterebbe accontentarci di non esentarli dal pagamento dell’imposta di fabbricazione sul gasolio quando fanno il pieno nei porti italiani mascherati da bandiere di comodo.