A maggio 2010, quando Tremonti fece la prima manovra straordinaria di finanza pubblica, sostenemmo su queste pagine e in altre sedi che essa fosse sostanzialmente sbagliata: grande, con gli occhi di allora, nelle dimensioni, ma deludente per qualità in quanto non affrontava, e in conseguenza non risolveva, i problemi strutturali del nostro settore pubblico. Anche i mercati internazionali furono probabilmente dello stesso avviso, dato che nelle settimane successive alla sua presentazione lo spread tra i nostri Btp e i Bund tedeschi fece un gradino di crescita (all’incirca da 100 a 150 punti base) che è poi rimasto invariato sino alla primavera di quest’anno. Nella scorsa estate sono arrivate due nuove manovre, quella di inizio luglio, approvata dal Parlamento a tamburo battente, e quella di agosto, divenuta legge dello Stato in settembre. Rispetto al 2010 sono cambiate le dimensioni, più che raddoppiate, ma non la qualità, dato che neppure nelle nuove manovre si sono affrontati i nodi strutturali. E dopo ognuna di esse lo spread ha continuato impietosamente a crescere sino a superare la pericolosa soglia dei 500 punti base.



Poiché il governo Monti, virando a 180 gradi rispetto alla strategia di Tremonti, dovrà affrontare questi nodi strutturali è utile formulare un breve catalogo dei “vizi capitali” della finanza pubblica italiana, gli errori macroscopici che minano dalle fondamenta l’intera costruzione del settore pubblico. Intervenire su di essi è fondamentale per garantire che le riforme sui differenti problemi che si trovano sui piani più elevati risultino efficaci, durevoli e risolutive. I vizi capitali della finanza pubblica italiana sono individuabili in numero di sette.



1 – Copertura solo finanziaria, non economica, della spesa pubblica

L’articolo 81 della nostra Costituzione prevede che ogni legge che stabilisce nuove o maggiori spese debba indicare i mezzi finanziari per farvi fronte. Ma essi possono essere rappresentati, in essenza di restrizione esplicita da parte di questo articolo, tanto da entrate fiscali quanto da accensione di prestiti; nel secondo caso la spesa avviene in deficit e porta all’accumulo di debito, destinato a creare problemi di sostenibilità se si manifesta per lungo tempo crescente in rapporto al Pil. Né la Costituzione, né le leggi ordinarie italiane si sono mai poste l’obiettivo di perimetrare i casi nei quali finanziare la spesa in deficit risultava giustificabile: se si escludono le esigenze di grandi investimenti infrastrutturali negli anni della ricostruzione postbellica si tratta essenzialmente dei periodi di recessione economica e a condizione di operare in avanzo nelle fasi espansive dei cicli.



Nella nostra storia repubblicana, le norme non hanno pertanto tutelato i conti pubblici dal rischio che i governi varassero provvedimenti a vantaggio dei loro elettori o anche di tutti i cittadini di oggi scaricandone tuttavia gli oneri, attraverso il debito, sui cittadini di domani. Il nostro Parlamento sta finalmente rivedendo questa lacuna attraverso l’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio, ma fintanto che la nuova regola non avrà completato il suo lungo iter questo difetto della nostra finanza pubblica rimane a pieno titolo in questa lista.

2 e 3 – Evasione e oppressione fiscale

La seconda falla nella finanza pubblica, vero e proprio buco nero, è l’evasione fiscale e va considerata congiuntamente con la terza, il fenomeno che ne rappresenta il duale: l’oppressione fiscale verso i contribuenti che non possono evadere. Quando il sistema fiscale fu definito nelle sue caratteristiche attuali, all’inizio degli anni ‘70, la pressione fiscale era contenuta e i contribuenti si dividevano in due categorie: i tassati da un lato e quelli lasciati relativamente liberi di non pagare le tasse dall’altro. Col passare del tempo, tuttavia, le crescenti necessità di entrate fiscali sono state interamente coperte aggravando la pressione sui primi, che si sono trasformati in tartassati, anziché ridistribuire il carico tra i due gruppi. Così ci troviamo ora da un lato con almeno 120 miliardi di imposte evase (oltre ai redditi esentasse dell’economia illegale) e, dall’altro, con una pressione fiscale da Guinness dei primati per chi le tasse le paga. Già la pressione fiscale ufficiale, calcolata come rapporto tra gettito per le casse pubbliche e Pil, pari a poco meno del 43%, rappresenta il sesto valore più elevato tra i 27 paesi dell’Unione (dopo Danimarca, Svezia, Belgio, Francia e Austria) ed è più elevata di tre punti e mezzo rispetto alla media degli altri 26 paesi. La pressione fiscale ufficiale è tuttavia notevolmente sottostimata, dato che deriva dal rapporto tra le entrate fiscale effettive, al netto dell’evasione fiscale, e il Pil, computato invece al lordo dell’economia sommersa. È invece corretto mettere a rapporto le entrate fiscali effettive con la sola parte emersa del Pil, quella sulle quali le tasse vengono pagate. Se accogliamo la stima del Centro Studi Confindustria di un’economia sommersa pari al 20% del Pil totale, i 43 euro di gettito fiscale ogni 100 di Pil vanno correttamente messi a rapporto con gli 80 riferiti al solo Pil emerso. In tal modo tuttavia la pressione fiscale effettiva risulta del 54% ed è destinata a superare abbondantemente il 56% dopo le manovre estive. Si tratta già da ora di undici punti sopra il dato “ufficiale” dell’Italia e di cinque punti sopra il dato ufficiale più alto al mondo che è il 49% della Danimarca.

I contribuenti tartassati italiani, che non dispongono notoriamente del sistema di welfare danese o svedese, hanno dunque pieno titolo a figurare nel Guinness dei primati della fiscalità mondiale. Bisogna inoltre ricordare che il peso totale del settore pubblico, dato dalla spesa pubblica complessiva e pari al 51% del Pil, corrisponde al 64% circa del Pil emerso. Com’è possibile continuare a sostenerlo?

 

4 – Espansionismo della spesa pubblica primaria

Il quarto vizio capitale della finanza pubblica italiana è l’espansionismo, apparentemente inarrestabile, della spesa pubblica primaria (la spesa pubblica totale meno gli interessi sul debito): tra il 1960 e il 1970 è cresciuta di 4,6 punti percentuali rispetto al Pil, nel decennio ‘80 di ulteriori 4,8 punti e nel decennio ’90 di altri 7,2 punti, per un totale di 16,5 punti nel trentennio (dal 27,5% al 44%). Nel decennio ‘90, a fronte di un rischio serio di sostenibilità del debito, i governi che si sono succeduti sono riusciti a ridurla di 4,1 punti, ma in quello successivo, tra il 2000 e il 2009 è nuovamente risalita di 7,9 punti, il risultato peggiore tra tutti i cinque decenni presi in considerazione. I quasi otto punti in più dell’ultimo decennio sono stati finanziati per 1,7 punti da minor spesa per interessi, per 1,8 punti grazie a maggiori entrate fiscali e per 4,5 punti attraverso il ricorso al debito.

5 – Approccio finanziario, anziché economico, alla gestione dei conti pubblici

Il quinto errore è rappresentato dalla gestione esclusivamente finanziaria dei conti pubblici. Essa è adeguata nella parte di settore pubblico che, prelevando e ridistribuendo risorse monetarie, è assimilabile a un’azienda di erogazione. È invece errata nella parte di settore pubblico che produce servizi per i cittadini (istruzione, sanità, assistenza, ecc.). Lo Stato che ridistribuisce soldi è assimilabile a una fondazione bancaria: se incassa meno dividendi dovrà anche tagliare i benefici erogati. Lo Stato che produce servizi è invece assimilabile a un’azienda di produzione quale può essere la Fiat: se la 500 ha costi di produzione troppo elevati non si potrà certo tagliare sugli acquisti di tergicristalli o pneumatici dato che il prodotto diverrebbe impresentabile.

L’approccio esclusivamente finanziario alle manovre di finanza pubblica è completamente errato perché non è in grado di riportare all’efficienza le sottostanti organizzazioni pubbliche che producono i servizi. La loro inefficienza, che assume la forma di un eccesso di consumo di risorse per ogni livello realizzato di produzione, e in conseguenza di un eccesso di costi, ha natura organizzativa, industriale, e non contabile. Non può pertanto essere curata con i tagli di bilancio: poiché l’auto della Pa ha un motore difettoso, e consuma troppa benzina per ogni chilometro che percorre, il suo autista mette meno benzina nel serbatoio, assegna meno risorse. Ma con meno benzina la macchina farà meno strada. Occorre invece riparare il motore, ma questo l’autista della macchina non lo sa fare e in ogni caso non ci ha mai provato.

 

6 – Modello burocratico preweberiano

Il sesto errore è l’adozione di fatto da parte del nostro settore pubblico di un modello burocratico preweberiano: per Max Weber, carattere essenziale delle organizzazioni burocratiche moderne è l’essere governate da ordinamenti generali e astratti che vincolano non solo gli amministrati e gli apparati amministrativi, ma anche chi detiene il potere. In tale modello: a) gli ordini sono legittimi solo se chi li emana rispetta l’ordinamento giuridico impersonale dal quale riceve il potere di comando; b) l’obbedienza è dovuta solo nei limiti di tale ordinamento; c) le risorse appartengono all’amministrazione e sono impiegate secondo quanto previsto dall’ordinamento, non sono appropriabili dai burocrati e neppure dai titolari pro tempore delle funzioni di comando.

È invece sufficiente osservare la realtà italiana per comprendere come sopravvivano e siano dominanti caratteri di quel modello arcaico che Weber chiama “patrimoniale”: i funzionari appartengono ai detentori del potere, hanno il compito di soddisfarne le preferenze, discrezionalmente definite, e vengono da essi compensati, in primo luogo attraverso gli sviluppi di carriera, per la fedeltà e capacità dimostrata nello svolgere tale compito. L’ordinamento generale è debole e non riesce a proteggere la libertà delle organizzazioni e dei funzionari nello svolgere i propri compiti istituzionali, non è in grado di limitare chi detiene il potere e di impedire, conseguentemente, che si appropri dei mezzi dell’amministrazione.

 

7 – Ipertrofia della politica

L’illustrazione del sesto difetto fa da premessa al settimo e ultimo, l’ipertrofia della politica, la politica-blob che ovunque si espande e tutto tende a occupare. O, se si preferisce, il suo duale: l’incapacità dell’ordinamento di contenere, perimetrare, incanalare la politica, regolarne le funzioni e tenerla nettamente distinta dalle risorse economiche che pur è chiamata ad allocare. La politica serve a definire le scelte collettive delle nostre comunità, a prendere quelle decisioni che non possiamo adottare singolarmente o all’interno dei nostri piccoli gruppi volontari.

Le decisioni politiche richiedono l’uso di risorse, ma esse devono servire a raggiungere gli obiettivi collettivi che sono stati scelti, non a soddisfare le esigenze degli intermediari delle decisioni. Poiché il personale politico che intermedia le scelte collettive non ha diritti di proprietà sulle risorse, non potrà trattenere il residuo di una loro gestione efficiente, come invece avviene per gli imprenditori attraverso i profitti. Se la gestione pubblica è efficiente, tutti i vantaggi andranno ai cittadini; se invece i politici desiderano remunerarsi potranno farlo solo distraendo risorse dal loro utilizzo per i fini istituzionali delle organizzazioni che diverranno in conseguenza inefficienti.

Osservazioni di sintesi

La chiave di lettura offerta dal settimo vizio ha l’effetto di rovesciare l’interpretazione di tutti i precedenti: l’assenza di limiti alla spesa in deficit, la libertà concessa a taluni di evadere e l’oppressione fiscale sugli altri, la crescita ininterrotta della spesa, l’adozione di un modello burocratico “patrimoniale” anziché weberiano non appaiono più come difetti non voluti del nostro settore pubblico, bensì condizioni necessarie per massimizzare le risorse controllabili dalla politica e la possibilità di decidere discrezionalmente della loro destinazione. I sei vizi della finanza pubblica non sono rimediabili senza il settimo, che tuttavia non è un vizio dell’economia pubblica, ma solo della cattiva politica ed è ben difficilmente superabile con normali strumenti politici, dato che richiede la recisione del cordone ombelicale tra politica e risorse, tra chi è correttamente delegato dalla collettività, attraverso le elezioni, a deciderne l’uso e chi effettivamente lo realizza. Ma questa è l’unica riforma nello stesso tempo indispensabile e sufficiente, dato che le altre seguirebbero quasi in automatico.

Potrà riuscirci un governo di emergenza nazionale di origine tecnica, laddove questo compito era impensabile per governi politici di tipo tradizionale? Ovviamente ce lo auguriamo, non mancando tuttavia di rilevare che la somma di 18 alte competenze tecniche non genera automaticamente una visione e che solo la congiunzione delle une con l’altra è in grado di portare il Paese fuori dalla tempesta internazionale.