Gli italiani che pagano le tasse si sono accorti della manovra Monti, i mercati finanziari a quanto pare no. Lo spread tra i rendimenti dei titoli decennali italiani e quelli degli equivalenti titoli tedeschi è infatti risalito in neppure due settimane dall’approvazione della manovra da parte del governo, avvenuta lo scorso 4 dicembre, al di sopra della soglia critica dei 500 punti base, un valore superato per la prima volta negli ultimi giorni del governo Berlusconi e che era stato tra le principali ragioni della caduta del medesimo. Il significato economico dello spread è molto semplice: per compensare il maggior rischio percepito del debitore sovrano Italia rispetto a quello tedesco i mercati ottengono un rendimento del 5% annuo più elevato sui titoli decennali acquistati.



Una spiegazione addotta al nuovo rialzo dello spread è la cessazione degli acquisti di titoli pubblici effettuata per somme cospicue a sostegno delle quotazioni da parte della Banca centrale europea nelle precedenti settimane. La stessa decisione ha tuttavia riguardato anche i titoli pubblici della Spagna, ma lo spread tra i rendimenti spagnoli e quelli tedeschi non ne ha risentito in maniera equivalente, con la conseguenza di un allargamento notevole dello spread Italia-Spagna a danno dei nostri titoli.



L’analisi di quest’ultimo risulta particolarmente illuminante per capire il giudizio relativo che i mercati finanziari danno, in questa forma molto sintetica, della politica economica italiana: a metà novembre, nei giorni più critici che portarono alla caduta del precedente governo, lo spread Italia-Spagna risultava in crescita, ma non tale da superare in maniera stabile i 70 punti base; con l’incarico di formare il governo dato al Prof. Monti esso si riduceva drasticamente sin quasi ad azzerarsi ma ritornava successivamente a valori positivi di poco inferiori ai 100 punti base che venivano solo in misura limitata abbassati dalla manovra italiana di inizio dicembre. Ieri lo spread Italia-Spagna era invece ai livelli record di quasi 170 punti base: per la precisione 340 lo spread Spagna-Germania a fronte di quasi 510 quello Italia-Germania. Cosa è avvenuto in queste poche settimane per spiegare un allargamento così consistente della forbice?



In Italia principalmente la maxi manovra del nuovo governo che abbiamo apprezzato per la riforma delle pensioni, ma abbondantemente criticato per l’assenza di interventi dal lato della spesa pubblica e di programmi di privatizzazione, per una timidezza arrendevole sul fronte delle liberalizzazioni e, soprattutto, per il basarsi in via quasi esclusiva, se considerata al netto delle pensioni, su aumenti di tasse. In Spagna non è avvenuto nulla di significativo: il Partito popolare di Rajoy ha vinto, come prevedibile, le elezioni legislative lo scorso 20 novembre, conseguendo una solida maggioranza, ma il nuovo governo si è insediato solo pochi giorni fa e non ha ancora attuato alcun provvedimento di politica economica, limitandosi ad annunciare un pacchetto di misure per gli ultimi giorni dell’anno.

Esse non saranno tuttavia comparabili con quelle italiane: nessun inasprimento fiscale, anzi alcune attenuazioni sono previste rispetto a misure ritenute eccessive del precedente governo, nessun intervento che riduca la capacità di spesa della popolazione meno abbiente, prevalenti interventi dal lato della spesa pubblica e, soprattutto, nessuna accelerazione del programma di rientro dall’elevato disavanzo pubblico rispetto al Pil che, lo ricordiamo, è oltre la metà più elevato di quello italiano: il 6% nel 2011 nella migliore delle ipotesi, e dunque il dato effettivo sarà maggiore, contro il previsto 3,9% italiano.

Si può sostenere in sintesi che Spagna e Italia differiscono per due principali ragioni:

1) Alla Spagna l’Unione europea non ha chiesto di riportare il bilancio in pareggio in pochi anni, né un rapido rientro dall’elevato deficit in rapporto al Pil e quindi neppure drastiche manovre fiscali necessarie per conseguirlo; all’Italia lo ha invece chiesto e il nostro Paese ha promesso di conseguirlo attraverso una correzione dei conti pubblici che sfiora i cinque punti di Pil in soli due anni.

2) In conseguenza, la Spagna non attuerà manovre addizionali di finanza pubblica a carattere recessivo tali da peggiorare ulteriormente le prospettive dell’economia (che è già prevista in recessione nell’ultimo trimestre dell’anno). L’Italia ne ha invece già attuate tre (quattro a seconda dei conteggi) in un solo semestre.

Perché i mercati finanziari non dovrebbero valutare, attraverso lo strumento dello spread, queste differenze? L’obiettivo delle ripetute manovre italiane è molto semplice: conseguire il pareggio di bilancio e interrompere in tal modo la crescita del debito anche in valore assoluto e non solo in rapporto al Pil. Peccato che il consolidamento fiscale sia tutt’altro che ininfluente sulla crescita economica. Il Fmi ha studiato gli effetti sul Pil reale di correzioni di bilancio attuate nell’arco di un trentennio da paesi avanzati ed è pervenuto alla stima di elasticità di risposta che nella migliore delle ipotesi risulta pari a circa 0,5 (lo ha ricordato De Nardis su lavoce.info).

Questo significa che se poniamo pari a 100 la correzione di bilancio attuata dovremmo attenderci una perdita di Pil (minor crescita del Pil rispetto all’assenza di correzione) pari a circa 50 nell’arco di un biennio. Ovviamente il bilancio pubblico perderà anche le entrate fiscali su quei 50 che possiamo stimare, considerando la nostra fiscalità marginale prossima al 60%, più vicine a 30 che a 25. Alla fine la correzione fiscale attesa per 100 si rivelerà solo di 70 e forse anche meno se consideriamo che il minor Pil, oltre alle minori entrate fiscali, darà probabilmente luogo anche a una maggior spesa per protezione sociale. E se con quel 100 si preventivava ragionieristicamente di raggiungere il pareggio di bilancio esso non sarà in realtà più alla portata, ma richiederà ulteriori correzioni dei conti che non faranno che accentuare il rallentamento dell’economia in un avvitamento recessivo. Non è forse ciò che abbiamo già iniziato a fare con queste tre manovre in meno di sei mesi?

Vi sono peraltro differenze di rilievo ulteriori che debbono essere oggetto di attenta considerazione tra Spagna e Italia in due aspetti chiave dell’economia pubblica:

1) Il primo riguarda la differente pressione fiscale e il differente peso del settore pubblico nel sistema economico: la pressione fiscale in Spagna era cinque punti al di sotto di quella italiana negli anni precedenti la recessione (2006-07) e nel 2010 era scesa a dieci punti; la spesa pubblica totale in rapporto al Pil era nove punti al di sotto di quella italiana prima delle recessione e si è ridotta a sei punti nel 2010.

2) Il secondo aspetto riguarda il ben differente peso del debito pubblico rispetto al Pil: a fine 2010 era al 60% in Spagna contro il 119% in Italia (ed è questa la ragione principale per cui l’Unione europea è assai più tollerante verso il più elevato disavanzo spagnolo di quanto non lo sia con quello italiano).

Queste differenze sono portatrici di almeno tre importanti insegnamenti: il primo ci dice che aggiustamenti fiscali rapidi e consistenti sono assai meno tollerabili dall’economia italiana rispetto a quella spagnola, data la nostra maggiore pressione fiscale; il secondo che correzioni dal lato della spesa sono assai più auspicabili e opportune in Italia, dato il maggior rapporto tra spesa pubblica e Pil; il terzo che il vero problema della finanza pubblica appare la consistenza del debito e la sua sostenibilità. Ma la sostenibilità del debito si persegue coltivando ragionevolmente la crescita economica e non inseguendo a qualunque costo il pareggio di bilancio, obiettivo intermedio non necessario e non sufficiente per interrompere la crescita del rapporto debito/Pil e per reindirizzarlo al 60% indicato dal trattato di Maastricht.

Infatti, se a causa di una recessione di discreta entità, che appare probabile nel 2012, il Pil dovesse ridursi anche in termini nominali (con la caduta reale non compensata dal deflatore) il rapporto debito/Pil continuerebbe a crescere anche con un debito che risultasse stazionario in termini nominali per effetto di un raggiunto pareggio di bilancio. Al contrario, con una crescita del debito, determinata da un fabbisogno annuo di segno consueto, ma inferiore a 1,2 volte la crescita del Pil nominale, il rapporto ricomincerebbe efficacemente a ridursi.

Il problema del debito pubblico si può affrontare in due differenti modi: agendo sul conto economico del settore pubblico oppure agendo sullo stato patrimoniale. Nella prima ipotesi si persegue il pareggio di bilancio contenendo le spese e/o aumentando le entrate. Questa strategia è in ogni caso recessiva, ma se si tassa, e in particolare se si tassano coloro che già spendono tutti i loro redditi, lo è di più rispetto al risparmiare selettivamente sulla spesa attraverso la ricerca di economie e l’eliminazione degli sprechi. Nella seconda ipotesi, che è quella tipica di tutti i soggetti troppo indebitati, si cerca di ridurre il debito dismettendo cespiti patrimoniale. Questa è la strategia delle privatizzazioni e della riduzione del ruolo dello Stato nel sistema economico. Non è recessiva nel breve periodo ed è molto probabile che sia espansiva nel medio-lungo, dipendendo tuttavia molto da cosa si dismette e da come. Ad esempio, la privatizzazione di imprese a controllo pubblico, portando a una loro miglior gestione in mercati maggiormente liberalizzati, è attesa condurre a una crescita dei mercati in cui esse operano, come un ampio numero di esempi europei ha validamente dimostrato.

Le due principali tipologie di asset pubblici privatizzabili sono rappresentate da immobili e da imprese. Essi non possono tuttavia essere collocate sullo stesso piano: privatizzare immobili può portare a introiti più consistenti, ma ha il difetto di non ridurre il peso dello Stato nel sistema economico perché non diminuisce il ruolo dello “Stato produttore”. Per ridurre il debito è dunque necessario privatizzare anche gli immobili, ma per ridurre il ruolo dello Stato e accrescere quello del mercato è necessario cedere le imprese pubbliche. E con cessione di imprese si intende la rinuncia al controllo pubblico, non la semplice vendita di quote di minoranza che non sarebbe stata chiamata privatizzazione ai tempi di Margaret Thatcher.

Vi sono due argomenti principali utilizzati da chi si oppone a questa idea. Il primo osserva che la cessione di asset non ha nel breve periodo effetti consistenti sullo stock del debito, che nel frattempo continua a crescere. È vero, tuttavia essa può avere un ruolo cruciale nel diminuire in maniera consistente il fabbisogno annuale, sostituendo depressive manovre di incremento delle imposte. L’effetto principale atteso è in realtà di tipo indiretto: se si dà il segnale che lo Stato intende ritirarsi dagli spazi tipici del mercato lo spread dovrebbe ridursi. Alla fine la minor spesa per interessi, come già avvenuto negli anni ‘90, sarebbe un multiplo dei proventi da privatizzazioni. Questo vale evidentemente per la cessione del controllo di imprese, non per quella degli immobili.

Il secondo argomento addotto è quello del presunto carattere strategico delle imprese candidate alla privatizzazione. Le imprese cosiddette strategiche sono in realtà solo imprese essenziali al nostro sistema economico. È essenziale che rimangano in Italia? Che rimangano anche a proprietà italiana? O che rimangano a proprietà italiana pubblica? Vi sono molti esempi internazionali in grado di dimostrare che basta la prima condizione. E nel caso delle imprese a rete non si vede come qualche acquirente straniero potrebbe sradicare le reti dal suolo per trasferirle nel suo Paese. È però evidente che se si privatizza in maniera trasparente vendendo a chi paga di più arriveranno necessariamente acquirenti stranieri che ai nostri politici di professione non piacciono perché essi non parlano inglese mentre gli stranieri non parlano il politichese. Ma in tal caso noi contribuenti saremmo davvero garantiti circa l’effettivo ritiro dello Stato e della politica dalle attività che hanno natura propria di servizi di mercato. E anche lo spread dovrebbe esserlo.