Perché i mercati hanno portato l’Italia al centro della crisi internazionale appena pochi giorni dopo la consistente manovra di finanza pubblica presentata dal ministro Tremonti? Come abbiamo ricordato nel precedente contributo su queste pagine si tratta delle seconda manovra per consistenza nella storia della Repubblica, dopo quella presentata nel lontano 1992 dal governo Amato; inoltre, se sommiamo le dimensioni finanziarie della manovra di quest’anno, pari a regime a 48 miliardi, con quella della manovra di soli 14 mesi fa, pari a 25 miliardi, otteniamo un valore complessivo molto simile a quello della famosa manovra Amato: espresso in vecchie lire del 1992 si tratta di 90.000 miliardi per le due manovre Tremonti contro 92.000 miliardi per quella dell’epoca.



La manovra di quest’anno, inoltre, è quasi doppia della manovra dello scorso anno e si inserisce in una dinamica dei saldi di finanza pubblica che sono comunque in miglioramento: il disavanzo pubblico in rapporto al Pil è sceso dal 5,4% del 2009 al 4,6% del 2010, più rapidamente rispetto a quanto dichiarato in corso d’anno nei documenti di finanza pubblica e oltre il mezzo punto di riduzione che l’Unione europea ci chiedeva. Esso, inoltre, assume in entrambi gli anni valori meno elevati sia rispetto all’area dei paesi Euro, i quali hanno conseguito un disavanzo complessivo del 6,3% nel 2009 e del 6,0% nel 2010, migliorando solo di pochi decimi, sia rispetto ai 27 paesi dell’intera Unione, i cui valori sono stati ancora peggiori (6,8% nel 2009 e 6,4% nel 2010).



È quindi ovvio chiederci: perché se un anno fa i mercati non ci consideravano in alcun modo un Paese problematico e se nel frattempo siamo migliorati più degli altri e persino promettiamo il pareggio di bilancio nell’arco dei prossimi tre anni, obiettivo non più conseguito da 137 anni a questa parte, ora hanno cambiato idea e ci hanno messo sotto tiro? Poiché il quadro economico, in particolare quello pubblico, non è peggiore di un anno fa, la risposta più ovvia sembra essere il deterioramento del quadro politico, con i crescenti problemi della maggioranza di governo, l’assenza di alternative credibili e la stessa riduzione di fiducia nel ministro Tremonti, da un lato più diffusamente e apertamente criticato da parti della sua maggioranza, dall’altro non immune da effetti negativi di immagine derivanti dalle serie vicende giudiziarie di un ex collaboratore di primissimo piano. In sintesi, la cabina di comando della nave Italia sembra tutt’altro che salda e quindi il vascello appare molto più facilmente attaccabile.



Questa interpretazione appare tuttavia parziale e non tiene conto che il movimento della nave è da molti anni pesantemente rallentato da una zavorra di problemi che non sono mai stati affrontati con la dovuta decisione. Si tratta, in realtà, di un problema unico che ha una manifestazione duale: un mercato troppo stretto a fronte di uno Stato troppo largo. Le conseguenze del primo sono la debolissima crescita economica, quelle del secondo l’eccesso sia di spesa pubblica che di pressione fiscale rispetto al Pil e quindi anche la debole crescita che ne consegue la quale richiama ulteriore spesa e quindi ulteriore tassazione, in un avvitamento che ricorda quello del cane che morde la propria coda. Poiché la pressione fiscale insegue la crescita della spesa senza mai raggiungerla, si crea un problema di lungo periodo, il debito pubblico, che è la vera zavorra del nostro sistema.

A essere precisi il problema chiave non è neppure lo stock del debito, pur consistente in valore assoluto (il quarto al mondo, essendo stato da poco superato da quello tedesco) e in percentuale del Pil (di nuovo il 120% e in crescita, come nella prima metà degli anni ’90), bensì il fatto che esso continui ad aumentare nel tempo (in percentuale del Pil e in valore assoluto). Poiché il suo gradino annuale di crescita è il fabbisogno (i pagamenti del settore pubblico che non possono essere finanziati dagli incassi), è proprio il fabbisogno (principalmente determinato dal disavanzo di bilancio della Pa) il vero problema. Ma anche il fabbisogno non sarebbe un problema grave se il Pil crescesse a velocità accettabile. Invece, l’alto fabbisogno annuo risulta un multiplo della crescita (in valore assoluto) del Pil nominale: 2,3 volte nel 2010, prevedibilmente 2,0 nel 2011.

Per fermare la crescita del rapporto debito/Pil, il rapporto tra fabbisogno e variazione assoluta del Pil dovrebbe stare non al di sopra del 120%, mentre per avviarne la convergenza al 60% richiesto da Maastricht dovrebbe stare non al di sopra del 60%. In realtà, non sarebbe neppure necessario il pareggio di bilancio, perseguito dall’ultima manovra, anche se esso accelera evidentemente il percorso di rientro.

In sintesi, si può sostenere che per uscire dall’attuale impasse occorre fare due cose molto nette e concettualmente molto semplici: (a) rilanciare la crescita economica; (b) interrompere la crescita del debito. Come si fa? Si può provare a copiare quello che hanno fatto al riguardo altri governi in situazioni simili, compresi governi italiani del passato. Per rilanciare la crescita senza maggior spesa pubblica, anzi con minor spesa, bisogna liberalizzare molto i mercati. Quali e in che modo lo ha scritto in dettaglio e con grande chiarezza l’Antitrust nei primi mesi del 2010 in un parere a governo e Parlamento che avrebbe dovuto essere recepito nella legge annuale di concorrenza, legge che, a un anno e mezzo di distanza, non ha ancora visto la luce. Nel 2011 l’inascoltata Antitrust non ha neppure formulato quello che avrebbe dovuto essere il nuovo parere annuale.

Per fermare la crescita del debito, i governi degli anni ‘90 usarono come strumento temporaneo le politiche di privatizzazione: vendere asset pubblici, non asset privati come implicitamente sostengono i fautori della patrimoniale, per evitare debito pubblico. Purtroppo anche il termine privatizzazione sembra essere stato depennato dal vocabolario economico dell’Italia contemporanea. Qualsiasi soggetto eccessivamente indebitato cercherà infatti di ridurre i propri debiti cedendo asset patrimoniali suoi (mentre solo gli stati sono in grado di espropriare allo scopo asset altrui).

Purtroppo nessuno sostiene ancora che con un debito pubblico così alto l’impresa pubblica semplicemente non ce la possiamo più permettere e che tutte le imprese pubbliche, di proprietà dello Stato quanto degli enti territoriali, debbono essere restituite al mercato. Esse, infatti, producono servizi per il mercato, compensati dai consumatori attraverso i prezzi. Per quali ragioni non dovrebbero stare sul mercato anche dal punto di vista della proprietà e operare in concorrenza come le altre normali imprese di mercato? Forse perché se pubbliche producono più crescita? In astratto non si dovrebbe escludere, ma in Italia non si è mai verificato. Privatizzare le imprese pubbliche serve in realtà non solo a ottenere gettito per le casse pubbliche, ma anche, e soprattutto, a rendere effettivamente liberi i relativi mercati.

Privatizzare è necessario, ma non sufficiente: bisogna anche metter mano con provvedimenti strutturali alla spesa pubblica, cosa che non è avvenuta neppure nei momenti più critici della storia della nostra finanza pubblica (la crisi del 1992-93 e l’esame di ammissione a Maastricht del 1996-97). Al riguardo la manovra del 1992 non intervenne, mentre dopo quella del 1996 si poté contare sulla manna dell’abbattimento della spesa per interessi sul debito pubblico, dovuta alla convergenza sui valori europei dei tassi d’interesse pagati sul debito italiano.

Per ridare efficienza alla spesa pubblica si dovrebbe provare a rovesciare l’attuale modello organizzativo pubblico, consistente in una molteplicità di organizzazioni, agenzie, uffici per i quali il finanziamento tramite tassazione garantisce che possano pagare i fattori produttivi che usano. Queste organizzazioni, agenzie e uffici, pur restando pubblici, possono essere resi autonomi, separati tra di loro e da chi li finanzia, messi in concorrenza e pagati per i servizi che effettivamente producono anziché per i fattori produttivi che consumano.

Si tratterebbe in sostanza di prendere dall’economia di mercato due dei tre elementi chiave che la caratterizzano: l’uso del sistema dei prezzi e la concorrenza, senza necessità di adottare anche il terzo, la proprietà privata. Organizzazioni pubbliche in concorrenza tra di loro, finanziate sulla base della quantità e qualità di quello che producono, sarebbero indirizzate sulla via dell’efficienza e poste di fronte al rischio di procedure di fallimento/liquidazione/accorpamento in caso di performance non adeguate. Nel caso dei servizi pubblici a domanda individuale, che sono circa i due terzi del totale, l’ideale è che sia il cittadino-consumatore a pagare direttamente il prezzo utilizzando un’equivalente riduzione delle tasse e, in caso d’incapienza, trasferimenti pubblici ad hoc o voucher.

Questa riforma avrebbe il vantaggio di sottrarre cospicue risorse a chi sinora ha effettuato scelte inefficienti senza subirne conseguenze (classe politica e dirigenza pubblica a essa sottoposta) e di ridarle ai cittadini i quali hanno un robusto incentivo, l’interesse personale, a usarle in maniera corretta e a non sprecarle.

I tre provvedimenti proposti definiscono una manovra composta da riforme strutturali caratterizzate da effetti consistenti e duraturi, il contrario delle tradizionali manovre fatte di provvedimenti eterogenei, spesso incoerenti e contradditori, dagli effetti incerti e in ogni caso limitati nel tempo. Si tratta in sintesi di: (1) liberalizzare i mercati per sbloccare l’economia; (2) privatizzare e mettere in concorrenza le imprese pubbliche; (3) scomporre il settore pubblico e mettere in concorrenza anche gli enti pubblici.

Sintetizzando ulteriormente si potrebbe parlare di concorrenza (tra le imprese private), concorrenza (tra le imprese ex pubbliche) e ancora concorrenza (persino tra gli enti pubblici). Sono tre interventi coerenti (o uno solo?), giustificati dalle due seguenti osservazioni: (i) i sistemi economici privati si basano sui tre pilastri della proprietà privata, dell’uso del sistema dei prezzi e della concorrenza tra gli operatori, ma in Italia il terzo pilastro è in molti casi debole o assente e deve essere ripristinato; (ii) i sistemi pubblici non usando la proprietà privata rinunciano anche al sistema dei prezzi e alla concorrenza, ma si tratta di scelte non necessarie e dannose ai fini delle performance del settore pubblico e dell’efficienza complessiva del sistema economico. Proviamo quindi a introdurre questi strumenti.

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