Esattamente una settimana fa, martedì 12 luglio, scrivevo su queste pagine come due riforme essenziali per rilanciare l’economia italiana e mettere in sicurezza i conti pubblici fossero la liberalizzazione dei troppi mercati tuttora protetti e la privatizzazione delle imprese pubbliche, sia quelle di proprietà dello Stato centrale che quelle di proprietà degli enti territoriali.



Nell’occasione notavamo anche come i termini liberalizzazione e privatizzazione fossero apparentemente scomparsi dal lessico della politica economica del nostro Paese, pur essendo riconosciuti come i principali rimedi ai malanni di cui sta soffrendo l’economia italiana, la scarsa crescita e l’elevatissimo debito pubblico. I due vocaboli non erano neppure citati nel decreto legge della manovra Tremonti, approvato dal Consiglio dei Ministri venerdì 1° luglio, e sino a lunedì 11 le uniche privatizzazioni di cui si poteva trovar traccia nelle fonti di notizia sul web risultavano quelle della Grecia, del Portogallo e dell’Albania.



Sempre lunedì 11 solo due politici italiani, nessuno dei quali appartenente a partiti di governo, parlavano della necessità delle privatizzazioni: Enrico Letta e Benedetto della Vedova. Martedì 12, lo stesso giorno del nostro articolo, i due termini ricomparivano invece improvvisamente nel dibattito, come due naufraghi insperatamente ritrovati nonostante si fosse da tempo interrotta ogni ricerca. Liberalizzazioni e privatizzazioni sembravano ritornate inaspettatamente in primo piano.

Le delusioni della manovra di Tremonti

Le speranze dei pochi sostenitori italiani dell’economia di mercato (di concorrenza) erano tuttavia destinate a durare molto poco: solo tre giorni dopo il loro ritrovamento, i due naufraghi delle liberalizzazioni e privatizzazioni venivano rapidamente rimessi su una scialuppa e nuovamente abbandonati nel mare aperto; infatti, nella versione dalla manovra approvata definitivamente alla Camera in tempi record venerdì scorso i due termini compaiono, ma in articoli di nessun impatto immediato e con un’infinitesima probabilità di effetti degni di rilievo nel medio-lungo periodo.



Si ha invece l’impressione che essi siano stati inseriti come specchietti per le allodole, al fine di attrarre favorevolmente l’attenzione degli osservatori internazionali e compiacere i mercati, ma senza nessuna reale intenzione di realizzare in breve tempo queste riforme, nonostante la loro necessità e urgenza. Per quanto riguarda le privatizzazioni, infatti, la manovra prevede che entro la fine del 2013, quindi tra due anni, cinque mesi e due settimane, siano approvati uno o più piani per la (successiva) dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti non territoriali. In sostanza, il paziente dichiara che prenderà la medicina solo dopo che avrà superato la malattia.

Per le partecipazioni degli enti territoriali sono invece previsti incentivi per gli enti che vorranno procedere a dismissioni, i quali potranno pertanto scegliere liberamente se cogliere la ciliegina degli incentivi o conservare tutta la torta delle imprese partecipate. Non vi sono dubbi sulla scelta che adotteranno. Infine, per quanto riguarda le liberalizzazioni saranno avviati al riguardo confronti con le categorie interessate le quali, come noto a tutti i lettori, saranno felicissime di farsi liberalizzare. Perché anche il consistente taglio alle detrazioni fiscali per lavoratori e famiglie non è stato subordinato a un confronto con i contribuenti interessati?

In sintesi possiamo sostenere che su questi temi la manovra faccia esattamente l’opposto del necessario. Eppure “Senza le privatizzazioni lanciate venti anni fa oggi l’Italia sarebbe la Grecia” come ha ricordato Federico Fubini su Il Corriere della Sera di mercoledì 14, citando i dati dell’economista Edoardo Reviglio. E come hanno sostenuto, riferendosi alla grandi imprese tuttora possedute dallo Stato, Roberto Perotti e Luigi Zingales su Il Sole 24 Ore dello stesso giorno: “Queste privatizzazioni non solo ridurrebbero la spesa per interessi, ma darebbero un segnale molto forte ai mercati e agli italiani, e toglierebbero il terreno sotto i piedi al clientelismo, all’inefficienza e alla corruzione”.

 

Le perplessità sulle privatizzazioni

Sui principali quotidiani nazionali non mancano tuttavia perplessità sulla praticabilità delle privatizzazioni. Come scrive Il Sole 24 Ore giovedì 14: “In verità il mercato è piuttosto scettico sulla possibilità che si possa valorizzare senza svendere (ammesso in alcuni casi di trovare compratori) società che finora sono al 100% di controllo pubblico. […] Prendiamo le Poste: a un primo sguardo può sembrare un boccone appetibile […]. Investitori e banchieri d’affari sono però convinti che il mercato non sarebbe pronto a comprare un coacervo in cui il settore recapiti è un business in perdita e ormai senza futuro su cui grava tra l’altro la gran parte dei 153 mila dipendenti. Servirebbe quanto meno un forte efficientamento di questo settore […]. Anche Fs, seppure l’ad Mauro Moretti non escluda un’ipotesi listing, ha problemi simili: sono troppe le attività sotto il cappello della holding, di cui un’importante fetta poco redditizia. Privatizzare la Rai nelle condizioni economico-finanziarie in cui versa fa sorridere, ammesso che la politica voglia rinunciare a questo strumento di potere mediatico. […] Cdp (Cassa depositi e prestiti) potrebbe essere un bocconcino ghiotto: il valore sarebbe ben superiore a 10 miliardi, ma difficilmente il ministero dell’Economia vorrebbe condividere con altri privati (visto che le Fondazioni bancarie hanno già il 30%) il potere in una società che – oltre a gestire il risparmio postale e a fare da tesoreria per il ministero – sta diventando il braccio operativo e strumento di intervento dello Stato in un’economia nazionale sempre più in difficoltà”.

Massimo Mucchetti scrive lo stesso giorno su Il Corriere della Sera un articolo dal titolo “La strada (e le illusioni) delle privatizzazioni. Piccolo manuale per gli errori da evitare” in cui risponde alle posizioni di Perotti e Zingales. Argomenti simili a quelli di Mucchetti si trovano lo stesso giorno anche nel commento di Antonella Olivieri su Il Sole 24 Ore. Per Mucchetti le principali difficoltà sul cammino delle privatizzazioni sono:

1) Vendere alle quotazioni correnti equivarrebbe a svendere.

2) È sconsigliabile vendere a fermo (a fondi/intermediari privati). Non fu fatto negli anni ’90 e i risultati in termini di incassi successivi ottenuti dimostrano che si fece bene a evitare questa modalità.

3) Anche vendere alla cieca (non sapendo a priori a chi andranno le aziende) sarebbe un errore. Il rischio è che vadano a capitalisti senza capitali (che finirebbero per zavorrarle coi debiti contratti per la loro acquisizione; vedasi caso Telecom).

4) “Qualcuno mette in lista la Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), ma dimentica che la Cdp finanzia opere pubbliche ed enti locali secondo regole impensabili per una banca e con il risparmio postale garantito dallo Stato. Le Poste, a loro volta, non sono state privatizzate in nessun Paese civile: semmai si può ragionare sul Bancoposta, gioiello del gruppo”.

5) “Eni, Enel e Terna pagano dividendi superiori agli interessi che lo Stato risparmierebbe sulla quota di debito pubblico tagliata dismettendole. […] Finmeccanica, infine, è l’ultima grande azienda tecnologica basata in Italia. Vogliamo perdere anche questa?”

6) Di rilevante interesse anche la riflessione conclusiva di Mucchetti: “Possiamo anche dirci: vendiamo tutte le imprese pubbliche prima di pagare qualcosa di tasca nostra. Ma i conti dicono che sarebbe una goccia nel mare del debito pubblico. Insomma, non saranno le privatizzazioni a evitare l’esame di coscienza di un Paese che è vissuto al di sopra delle proprie possibilità”.

 

Perché i critici delle privatizzazioni hanno torto

Immaginiamo che la quasi totalità dei lettori di questi ultimi articoli, non solo i lettori comuni ma anche i più informati e persino coloro che hanno formazione economica (ad esempio, gli studenti di economia), sia sia convinta delle numerose difficoltà e controindicazioni dei processi di privatizzazione per il nostro Paese. Esse sussistono indubbiamente, ma debbono essere valutate congiuntamente ai vantaggi e alle opportunità dei medesimi; inoltre, le difficoltà possono essere superate e le controindicazioni depotenziate attraverso la scelta di procedure e modalità adeguate di realizzazione.

Gli argomenti addotti negli articoli critici sulla possibilità che si riesca a privatizzare ampiamente, rapidamente e bene sono in realtà confutabili. È vero che il valore delle aziende pubbliche è una piccola percentuale del debito pubblico: la stima di Mucchetti non raggiunge i 70 miliardi, quella di Perotti e Zingales arriva a 140 miliardi, mentre il debito ammonta a 1900 miliardi. Le imprese pubbliche varrebbero quindi tra il 3,5% e il 7% del debito, una quota molto ridotta se l’obiettivo delle privatizzazioni fosse quello di rimborsare il debito. Ma in realtà dal punto di vista della finanza pubblica le privatizzazioni servono prioritariamente ad arrestare la crescita del debito, dapprima in rapporto al Pil e successivamente anche in valore assoluto.

Lo si può comprendere con la metafora della diga: l’acqua che si accumula nell’invaso rappresenta i disavanzi annui del settore pubblico che si stratificano nel debito, la diga in muratura che impedisce lo straripamento rappresenta invece lo stock di titoli del debito che sono collocati sui mercati. A ogni aumento di livello dell’acqua bisogna sempre far preventivamente corrispondere un aumento dell’altezza della diga. Se l’operazione non riesce si rischia lo straripamento e in casi gravi il crollo del sistema. Per evitare il rischio occorre fermare la crescita del livello dell’acqua.

Lo si può fare in due modi: attraverso un pareggio di bilancio in brevissimo tempo, che rischia tuttavia di non realizzarsi se perseguito, come nella manovra di Tremonti, attraverso aumenti repentini di pressione fiscale che deprimono la crescita, o attraverso proventi da privatizzazioni tali da permettere l’attuazione di vere riforme della spesa in grado di portare al pareggio, ma in tempi più lunghi. Tremonti ha scelto la prima strada, noi consigliamo vivamente la seconda.

È anche vero che privatizzare alle quotazioni di oggi equivarrebbe a svendere. Si potrebbe tuttavia avviare un processo molto ampio di privatizzazioni da realizzarsi gradualmente e a prezzi auspicabilmente crescenti. Per far questo tutte le partecipazioni attualmente detenute dal Tesoro dovrebbero essere traferite a una “Autorità per la garanzia del debito e le privatizzazioni”, gestita in autonomia dal governo da persone di chiara fama, indipendenza di giudizio e competenza tecnica, che avrebbe il compito di collocarle nel tempo sul mercato secondo le modalità e tecniche ritenute più opportune, anche attraverso l’emissione di obbligazioni convertibili. I proventi, come già nella precedente esperienza degli anni ‘90, verrebbero utilizzati per il riacquisto sul mercato di titoli pubblici.

Per quanto riguarda le imprese pubbliche locali si potrebbe invece dare un certo tempo agli enti proprietari per scendere gradualmente di quota (ad esempio, sotto il 50% in una prima tappa, sotto il 40% o il 30% in una seconda e così via). Se alla scadenza l’ente proprietario non ha provveduto, le azioni eccedenti il limite previsto sono anch’esse trasferite all’Autorità per le privatizzazioni che provvede direttamente alla loro cessione. Alla predetta Autorità potrebbe inoltre essere conferito il patrimonio immobiliare pubblico non utilizzato per finalità istituzionali. Una soluzione come quella sopra delineata avrebbe un’elevata capacità di segnalare ai mercati intenti molto seri dei decisori pubblici in tema di privatizzazioni senza l’esigenza di vendere subito a prezzi bassi quote consistenti di imprese pubbliche.

Non è vero, inoltre, che vi siano aziende pubbliche non privatizzabili:

1) Anche le imprese o i loro segmenti deficitari e problematici possono essere venduti, non ai risparmiatori, ovviamente, ma a imprese operanti nei medesimi settori che si siano dimostrate in grado di svolgere quel mestiere senza perdere soldi (il riferimento va in particolare al recapito postale e al trasporto ferroviario merci). È evidente che nel caso delle utilities tali imprese non possono che essere estere, dati il preesistente assetto monopolistico del mercato.

2) La vendita in passato a capitalisti senza capitali che hanno zavorrato l’azienda coi debiti contratti per acquisirla è una conseguenza del fatto che i privatizzatori hanno ritenuto necessario che vi fosse un nocciolo duro di controllo, per di più in capo a soggetti italiani. Bastava rinunciare alla seconda condizione o a entrambe, accettando anche l’ipotesi di una public company. In fondo anche se un soggetto estero dovesse acquisire il controllo di un servizio a rete non si corre il rischio che possa sradicare la rete dal territorio per traferirla nel suo Paese. I principali operatori telefonici italiani dopo Telecom sono tutti a proprietà straniera, mi pare senza alcuna conseguenza per il funzionamento del nostro mercato delle Tlc.

3) Il fatto che la redditività delle aziende quotate sia superiore al costo del debito necessario per mantenere la proprietà pubblica è vero solo in riferimento alle loro quotazioni attuali e ai rendimenti dei titoli pubblici prima della recentissima impennata. È certamente destinato a non esserlo più se lo spread coi bund tedeschi continua a crescere.

Non si vede, infine, quali drammatiche conseguenze si possano verificare qualora lo Stato perda il controllo di aziende, considerate strategiche, come Enel, Terna, Eni, Finmeccanica. Esistono non pochi stati economicamente molto sviluppati che non possiedono aziende in questi settori (talvolta in nessun settore) senza che il loro Pil pro capite e la loro crescita risultino inferiori a quella italiana. Forse in quei paesi le aziende simili non sono strategiche? Oppure sono strategiche, ma a metterle a disposizione del Paese ci pensa benissimo il mercato senza dover scomodare la politica e il contribuente?

 

(1 – continua)