Un limite del dibattito sulle privatizzazioni che si è da pochissimo riaperto in Italia deriva dal fatto che i diversi interventi e analisi si concentrano sul caso particolare del nostro Paese, senza una riflessione di ordine più generale sul significato delle privatizzazioni. In cosa consistono? Quali conseguenze comportano? Sono prevalentemente positive oppure no? È inoltre trascurato il loro legame con liberalizzazioni/riforme della regolazione dei mercati, l’altra indispensabile faccia della medaglia se si desidera un esito favorevole per il benessere collettivo del passaggio al mercato.



Poiché per privatizzazione si intende il passaggio dalla proprietà pubblica a quella privata di imprese, immobili o altri attivi patrimoniali, bisogna sfatare in primo luogo l’assunto, molto caro sia alla sinistra radicale che alla destra colbertista, che pubblico sia sempre bello e buono e privato il suo esatto opposto. Pubblico e privato identificano solo la proprietà di strumenti di produzione, mentre nulla rivelano sull’uso effettivo che di essi viene fatto. I proprietari privati di imprese possono anche essere avidi e antipaticissimi massimizzatori dei profitti, alla Paperon de Paperoni, tuttavia se operano in mercati molto concorrenziali il loro saggio di profitto risulterà moderato e i risparmi di costo e miglioramenti di qualità che realizzeranno tenderanno a beneficiare prevalentemente i consumatori.



A cosa servono liberalizzazioni e privatizzazioni

Mentre la proprietà privata non coincide con benefici solo privati, la proprietà pubblica non coincide necessariamente con benefici pubblici. Le gestioni pubbliche non ambiscono generalmente a fare profitti, ma quasi sempre producono con sprechi di costo anche notevoli (a vantaggio della numerosità del personale che alle elezioni vota e a vantaggio dei fornitori) e non hanno incentivi ad accrescere la qualità. In diversi studi di efficienza svolti nel nostro Ateneo, circa una decina di anni fa veniva fuori una sorta di regolarità empirica: i costi di produzione necessari nelle poste, nelle ferrovie, nel trasporto pubblico locale risultavano sempre circa due terzi dei costi effettivamente sostenuti. In sostanza, ogni 100 euro di costi necessari (calcolati sulla base di realtà produttive europee comparabili) i costi effettivi erano circa 150, con uno spreco del 50%.



Nel caso del trasporto pubblico locale (Tpl), come mettemmo in evidenza in un paper dell’Istituto Bruno Leoni, questa scoperta porta a una conseguenza paradossale: poiché il Tpl è finanziato grosso modo per due terzi da trasferimenti pubblici e per un terzo dalle tariffe pagate dai consumatori, si può sostenere che le tariffe che paghiamo servano solo a coprire le inefficienze, mentre i trasferimenti pubblici recuperano i costi necessari. In sostanza, se il comparto fosse efficiente potremmo viaggiare tutti gratis, a parità di trasferimenti pubblici, oppure dimezzare i trasferimenti pubblici a parità di tariffe. Se questa risultava l’efficienza delle produzioni pubbliche per il mercato, quale sarà stata e sarà tuttora l’efficienza di produzioni pubbliche non per il mercato quali i servizi forniti dalle amministrazioni pubbliche?

Dobbiamo allora chiederci: se un saggio (al lordo delle tasse) di remunerazione del capitale del 7%, peraltro non condivisibile in quanto rigidamente fissato per legge, era moralmente inaccettabile ed è stato rimosso dal recente referendum, uno spreco del 50% dobbiamo ritenerlo accettabile solo perché non genera vantaggi sotto forma di profitti? Quanto stipendio, in termini di mesi/giorni/ore di lavoro, è necessario ora rispetto a 10 o 20 anni fa per comperare un’utilitaria, un computer, un telefonino, un’ora di conversazione telefonica o di accesso telefonico a internet? Qual’era il costo e la qualità di un’utilitaria 20 o 40 anni fa? E quello di un pc o di un telefonino quando furono immessi per la prima volta sul mercato?

Perché la qualità di questi beni si è notevolmente accresciuta nel tempo e il loro prezzo è salito molto meno dell’inflazione (nel caso delle auto) o si è persino ridotto anche in maniera drastica (negli altri casi ricordati)? Perché oggi grazie ai vettori low cost possiamo viaggiare su buona parte delle rotte europee a prezzi più bassi di quelli della corsa del taxi verso l’aeroporto? Forse perché questi beni e servizi sono prodotti da imprese pubbliche che perseguono direttamente l’interesse collettivo? Oppure perché sono prodotti da imprenditori privati tutti altruisti e benevolenti verso i consumatori? O, piuttosto, perché i relativi mercati sono molto concorrenziali?

Si può allora sostenere che mentre in presenza di estesa concorrenza il privato identifica il perseguimento involontario di interessi collettivi con mezzi di proprietà privata, il pubblico identifica spesso (in assenza di classi politiche di alto livello e di apparati burocratici di tipo weberiano) il perseguimento volontario di interessi privatissimi con strumenti di proprietà di tutti. Se si finisce in questa trappola, caratterizzata da ipertrofia del pubblico e afasia della concorrenza, come ampiamente riconosciuto nel caso italiano, è un ottimo rimedio quello di privatizzare i mezzi per fare in modo, introducendo la concorrenza, di ripubblicizzare i fini. A questo servono le privatizzazioni, ancor prima di far cassa per le esigenze di finanza pubblica.

Pochi sanno che la produzione pubblica italiana più efficiente era quella della vecchia Alitalia: nel 2004, sette anni dopo la completa apertura del mercato comunitario dei voli, il suo costo per posto chilometro offerto era più elevato solo del 6% rispetto alle consorelle europee. Nonostante una discreta efficienza costo Alitalia è fallita lo stesso: (i) riusciva a vendere solo una percentuale troppo bassa dei posti offerti; (ii) la proprietà pubblica le ha impedito di disporre dei fondi per finanziare gli investimenti necessari a rinnovare e accrescere la flotta; (iii) i vincoli politici, e sindacali, le hanno impedito di portare a termine le indispensabili aggregazioni internazionali. In dieci anni dalla liberalizzazione il mercato aereo italiano è raddoppiato e un’Alitalia statica e senza strategie ha visto dimezzare le sue quote di mercato, mentre i ricavi unitari venivano erosi dalla concorrenza dei vettori low cost. L’esito è noto a tutto: esaurimento dei mezzi propri a causa delle perdite, commissariamento, cessione d’azienda e messa in liquidazione della vecchia società.

Dall’analisi precedente sono evidenti i rischi di un’impresa pubblica a seguito della liberalizzazione: che non riesca a scrollarsi di dosso in maniera sufficientemente rapida le inefficienze acquisite quando operava in monopolio; che non riesca a crescere e a effettuare gli investimenti necessari a causa delle ristrettezze finanziarie del suo azionista. Vi è tuttavia un rischio ancora peggiore: che al fine di neutralizzare le due possibilità precedenti lo Stato agisca, in qualità di regolatore del mercato, in funzione protettiva dell’impresa di sua proprietà e alteri in tal modo l’equa concorrenza sul mercato. Se questo avviene, la liberalizzazione risulta solo di facciata: i vincoli legali che impedivano il libero accesso al mercato sono rimossi, ma solo per essere sostituiti da ostacoli di differente natura e auspicata equivalente efficacia.

L’insegnamento è quindi duplice: (i) se si vuole accrescere l’efficienza e il benessere collettivo è necessario liberalizzare i mercati; (ii) se si vuole liberalizzare sul serio è opportuno anche privatizzare le imprese pubbliche. Inoltre, poiché il passaggio dal monopolio alla concorrenza non è né istantaneo, né, in molti mercati, completo, è necessaria un’attività di regolazione dei mercati svolta da Autorità indipendenti che operino su basi esclusivamente tecnico-economiche, al riparo da ogni influenza della sfera politica. E infatti, in Italia, all’istituzione originaria dell’Autorità per l’Energia elettrica e il Gas nel lontano 1995 non è stato dato seguito adeguato in nessun altro settore. Ma di questo avevo già parlato tempo fa su queste pagine .

 

Le imprese cedibili e i principali ostacoli da superare

A fronte di robusti vantaggi, qualora adeguatamente precedute da effettive liberalizzazioni e da riforme della regolazione, non vi sono ostacoli generali insuperabili per le privatizzazioni, ma solo difficoltà specifiche relative alle singole aziende che possono e debbono essere superate. Esaminiamo le principali criticità, ricordate nei diversi articoli citati nella scorsa puntata.

Nel caso di Cassa depositi e prestiti il fatto che la raccolta si basi sul risparmio postale garantito dallo Stato è un evidente ostacolo alla perdita del controllo pubblico sull’azienda, ma non alla parziale privatizzazione che in effetti è già avvenuta per il 30% a beneficio delle Fondazioni bancarie. Un ulteriore 19% è quindi cedibile già nel breve periodo, mentre nel lungo periodo la cancellazione della garanzia statale sulla raccolta renderebbe praticabile anche la privatizzazione totale. Rai, Poste e Ferrovie non sono evidentemente cedibili così come sono. Già una quindicina d’anni fa, quando ero consulente presso la Presidenza del Consiglio, mi convinsi e sostenni (un po’ provocatoriamente) che fosse necessario dividere la Rai in due, le Poste in tre e le Ferrovie in quattro distinte aziende.

 

La Rai

In Rai convivono due distinti gruppi di programmi, mescolati nelle diverse reti: quelli di gran lunga predominanti sono programmi di tipo commerciale, non dissimili da quelli trasmessi dalle reti private e che non è corretto finanziare col canone, ma solo con la vendita degli spazi pubblicitari; poi vi sono programmi minoritari di tipo culturale e informativo che non è possibile finanziare con entrate commerciali e risulta invece corretto sostenere con fondi pubblici. La proposta di allora consisteva nel concentrare i programmi del primo tipo sui canali principali, rimuovere il vincolo alla raccolta della pubblicità e privatizzarli.

A distanza di un quindicennio l’ipotesi è ancora più facilmente praticabile grazie alla tecnologia digitale che ha permesso di accrescere il numero dei canali. Rimarrebbe in tal modo una piccola tv pubblica, non orientata all’audience e col compito di coprire temi non attraenti per le tv commerciali nel campo della cultura, della formazione e dell’informazione. La privatizzazione della parte commerciale non porterebbe probabilmente a grandi entrate per le casse pubbliche, ma costituirebbe il segnale più forte ai mercati che si intende davvero ridurre il peso dell’intervento pubblico nel sistema economico. Come una nobildonna fortemente indebitata che si è impegnata coi creditori a vendere i suoi gioielli, la politica italiana risulterebbe più credibile se iniziasse da quello a cui tiene di più.

Le Poste

Le Poste erano allora e sono tuttora: (i) un’azienda di recapiti postali; (ii) il Bancoposta; (iii) una rete di sportelli multiservizi. Nel tempo intercorso è sorta nel gruppo anche un’azienda assicurativa. Nel caso delle Poste i nodi principali sono due. Il Bancoposta va molto bene, ma i suoi risultati economici dipendono dai rapporti coi suoi due principali clienti, la Cdp e il Tesoro, per i quali effettua la raccolta. Esso, inoltre, non colloca strumenti propri salvo i conti correnti e servizi connessi, e non ha libertà d’impiego della raccolta. Su questi aspetti occorre formulare riflessioni: estendere il raggio d’azione del Bancoposta anche dal lato degli impieghi? Aggregarlo alla Cdp?

Il secondo nodo è invece decisamente problematico e riguarda le performance negative in termini di risultati economici, volumi declinanti e qualità incerta del recapito postale (suggerisco sul tema un mio articolo dello scorso anno per Milano Finanza) In questo segmento, che è necessario separare dal resto dell’azienda, occorre un rilancio urgente che solo una partnership con un’azienda europea di recapito molto efficiente può dare. Nella primavera 2008 avevo proposto, con un articolo su Il Sole 24 Ore, di scorporare tale segmento e di verificare l’interesse di altre aziende di recapito a una sua acquisizione. Poste Italiane avrebbe potuto scambiarne la proprietà con azioni dell’azienda europea acquirente.

Poco tempo dopo tale proposta un progetto analogo era presentato dal primo ministro laburista britannico Gordon Brown in relazione alla poco brillante Royal Mail, ma veniva successivamente accantonato a seguito di una forte opposizione sindacale. Il partner prescelto dal governo britannico era l’operatore nazionale olandese TNT, impresa di successo a livello mondiale che è stata totalmente privatizzata dal governo olandese (nessuna azione è più di proprietà pubblica) nonostante un tempo si chiamasse “Poste reali olandesi”. Essa rappresenta la più evidente dimostrazione di come si possano fare buoni profitti recapitando solo lettere, pacchi e plichi espresso, senza bisogno di servizi bancari e assicurativi per garantire l’utile di bilancio.

 

Le Ferrovie

Le Ferrovie erano ai tempi della mia proposta e sono tuttora: (i) una rete infrastrutturale; (ii) un servizio passeggeri a lunga distanza; (iii) un servizio passeggeri regionale a breve-media distanza; (iv) un servizio di trasporto merci. L’idea, a metà strada tra la separazione svedese della rete dai servizi di trasporto realizzata nel lontano 1988 e la complessa riforma britannica della prima metà degli anni ’90 che aveva anche ripartito i servizi in una molteplicità di compagnie passeggeri e compagnie merci, consisteva nel creare quattro aziende per la gestione dei quattro segmenti prima indicati (senza alcuna holding che le contenesse). Tale separazione risultava strumentale rispetto a una serie di obiettivi, allora non esplicitamente dichiarati nella loro completezza:

1) Disporre, come nel caso britannico e svedese, di un gestore di rete (che non offre direttamente servizi di trasporto) interessato a massimizzarne l’uso, senza preferenze per le possibili compagnie utilizzatrici. Se invece il gestore della rete è anche il preesistente fornitore dei servizi preferirà senz’altro che essa rimanga sottoutilizzata pur di continuarne a fare un uso esclusivo o comunque prevalente e prioritario.

2) Creare le condizioni per la privatizzazione del servizio passeggeri a lunga distanza.

3) Aprire la rete alla concorrenza.

4) Assegnare tramite gare (concorrenza per il mercato) i servizi passeggeri regionali per i quali sono necessarie sovvenzioni pubbliche.

5) Creare le condizioni per l’eventuale privatizzazione anche del gestore dei trasporti regionali.

6) Privatizzare il servizio cargo in favore di un operatore industriale efficiente, quasi certamente straniero. Si tratta della scelta fatta in anni più vicini ai nostri dalle ferrovie olandesi e danesi, le quali hanno ceduto il loro servizio cargo a DB Shenker del gruppo tedesco Deutsche Bahn.

Nel caso delle ferrovie l’idea di separazione in quattro aziende fu accolta e su di essa fu elaborata quella che divenne la Direttiva Prodi del febbraio 1997. Una durissima opposizione sindacale provvide tuttavia a farla accantonare dopo uno sciopero generale dei ferrovieri che fermò l’Italia. Ho raccontato lo scorso anno questo tentativo di riforma su Chicago-Blog, al quale rimando. L’idea della separazione finalizzata al rilancio delle ferrovie era durata solo due settimane. Fu un vero peccato, perché si perse un’occasione che ci avrebbe posto all’avanguardia nelle riforme dei sistemi ferroviari europei. Quali sono state le conseguenze: dal 1990 al 2009 i passeggeri km trasportati dalle ferrovie svedesi sono cresciuti di oltre il 70%; dal 1994, anno della riforma, al 2010 i passeggeri km trasportati dalle ferrovie britanniche sono cresciuti dell’85%; dal 1990 al 2009 i passeggeri km trasportati dalle ferrovie italiane sono cresciuti solo dell’8%.

In conclusione, si può sostenere che non esistono aziende pubbliche non privatizzabili in nessun mercato. Persino nei settori a più alta presenza di imprese pubbliche si trovano casi molto riusciti di privatizzazione: le poste olandesi sono private al 100%, mentre quelle tedesche sono a controllo pubblico ma collocate sul mercato ben oltre il 50%. Entrambe registrano profitti elevati e si caratterizzano per un’elevata internazionalizzazione e per un’elevata qualità dei servizi. Nel settore ferroviario abbiamo la Gran Bretagna in cui tutte le compagnie di trasporto sono private ormai da più di un quindicennio.

Vi è in realtà un solo segmento di servizi pubblici in Europa senza casi di gestione privata: le reti ferroviarie. Hanno provato solo gli inglesi a privatizzarla, ma l’esperienza è durata appena un quinquennio: il gestore chiudeva i bilanci in utile e distribuiva dividendi, ma non era in grado di effettuare e sostenere finanziariamente le manutenzioni straordinarie e i rinnovi necessari per un adeguato funzionamento della rete. Di fronte agli incidenti che si verificarono il governo Blair fu obbligato a rinazionalizzarla. Questo è pertanto l’unico settore nel quale è opportuno sconsigliare la privatizzazione. Per tutte le restanti imprese pubbliche privatizzare non solo è possibile, ma anche doveroso, vista la situazione drammatica in cui ci troviamo, e non privatizzare in tempo è molto costoso, per i contribuenti e per gli stessi lavoratori. Nel caso di Alitalia 9 miliardi in 9 anni e 9.000 occupati in meno, come ho ricordato un po’ di tempo fa.

 

(2 – continua)