C’era una volta la manovra annuale di finanza pubblica. Arrivava puntuale a fine settembre, impegnava il Parlamento sino a Natale e di solito ci faceva pagare più tasse dal gennaio successivo.
Giulio Tremonti, ritornato al dicastero di via XX settembre con le elezioni del 2008, ci ha aveva promesso che avrebbe eliminato questa stanca tradizione, riformando le procedure di bilancio e facendo in modo che i conti pubblici fossero sempre in ordine. Da allora, come abbiamo potuto osservare, le manovre si sono moltiplicate.
Lo scorso anno, sino a tutto aprile, ci aveva assicurato che non vi sarebbe stato alcun bisogno di interventi straordinari di finanza pubblica, ma in maggio ci appioppava una manovra d’emergenza da 25 miliardi. In seguito, e per oltre dodici mesi, ci rassicurava nuovamente che i conti pubblici sino al 2013 erano perfettamente in ordine e non vi sarebbe stata necessità se non di piccoli interventi di manutenzione. Infatti, la nuova manovra, altrettanto frettolosamente estratta all’inizio dello scorso luglio dal cilindro dei prestigiatori di via XX settembre, diveniva di 48 miliardi, ora saliti a 50, esattamente il doppio rispetto all’anno prima.
Da allora, in meno di un mese e mezzo, le manovre complessive sono state già tre. Infatti, la versione approvata a luglio dal Parlamento era già profondamente diversa dal decreto iniziale di Tremonti: poiché una parte consistente dell’effetto finanziario, pari a circa 20 miliardi a regime, era affidata a una delega di riforma fiscale e assistenziale oggetto di un percorso attuativo separato e incerto, al fine di rassicurare i mercati veniva incluso nel testo della manovra il taglio orizzontale, previsto in parte nel 2013 e in toto nel 2014, del 20% di tutte le detrazioni e agevolazioni fiscali. Ma anche questa versione, approvata dal Parlamento a tamburo battente e senza neppure provare a inserirvi ragionevoli miglioramenti, non bastava a rassicurare i mercati finanziari, nonostante promettesse per l’Italia il pareggio del bilancio nel 2014, obiettivo peraltro mai raggiunto, anche perché mai perseguito, negli ultimi 137 anni di storia nazionale.
Si è arrivati in questo modo alla seconda revisione della manovra iniziale, che è in realtà la terza manovra in solo un mese e mezzo, e che forse migliorerà i conti pubblici come l’Europa desidera, ma peggiora notevolmente le già deboli prospettive di crescita del Paese ed è assai dubbio che possa rassicurare i mercati finanziari ponendo fine alle gravi tensioni degli ultimi mesi sui nostri titoli di stato.
Come tutte quelle precedenti di Tremonti (e anche precedenti a Tremonti) è ancora una volta una classica manovra contabile, evidentemente pensata e scritta da contabili, fatta di provvedimenti eterogenei, slegati l’uno dall’altro, non frutto di un disegno unitario, della visione organica di un equilibrio a regime del settore pubblico che si intende perseguire attraverso un percorso coerente di provvedimenti che vanno sotto il nome di riforme. Si tratta, ancora una volta, di tanti tasselli che non lasciano vedere il relativo mosaico. E il disegno sottostante non si vede perché semplicemente non c’è.
La manovra ter di Tremonti è così costituita: i) per una parte ridotta da nuove tasse certe e palesi; ii) per una parte consistente da tagli palesi che nascondono tuttavia aumenti di tasse che saranno gli enti territoriali a dover adottare a fronte dei minori trasferimenti ricevuti dallo Stato; iii) da tagli effettivi (ai ministeri) che non si sa tuttavia come potranno essere coperti; iv) da tagli apparenti, ed eclatanti, che è lecito dubitare che genereranno effettivi risparmi di spesa. Descriviamoli nell’ordine.
L’aumento, vero, delle tasse
L’aumento vero delle tasse è costituito dal contributo di solidarietà che grava sui redditi più elevati: il 5% sui redditi compresi tra 90.000 e 150.000 euro di reddito, il 10% oltre questa soglia. Si tratta di un provvedimento all’apparenza progressivo che sembra fare da contraltare ai provvedimenti regressivi contenuti nella prima manovra e che non sono stati modificati dall’ultima: la tassa sui dossier titoli e i tagli orizzontali alle detrazioni d’imposta. Sono tutte misure profondamente errate: l’assurda tassa sui dossier titoli penalizzava nel primo decreto soprattutto il risparmio dei più poveri e dei più giovani, ma nella versione approvata continua a penalizzare i risparmiatori meno ricchi, coloro che non possono permettersi forme gestionali del risparmio più sofisticate. Essa è anche di dubbia costituzionalità dato che essere titolari di un dossier titoli non è di per sé manifestazione né di reddito, né di ricchezza, e quindi di capacità contributiva, dipendendo essa solo da quanto c’è dentro il dossier. Per non parlare del taglio orizzontale alle detrazioni fiscali, le principali delle quali riguardano il lavoro dipendente, che non evade, e i figli a carico. Viene in tal modo ridotta la progressività dell’imposta sui redditi, prescritta dalla Costituzione.
Tali errori non sono certo compensati dall’introduzione del contributo di solidarietà del 5 e del 10% per i redditi più elevati. Infatti, coloro che dichiarano tali imponibili, oltre a rappresentare un numero molto limitato di contribuenti, circa uno su cento, lo fanno perché non possono o non vogliono evadere. Non sembra molto equo tassarli sino al 55% dell’imponibile (valore che si ottiene sommando l’aliquota massima Irpef, le relative addizionali e l’aliquota massima del nuovo contributo), quando per la gran parte di coloro che si trovano effettivamente in quelle fasce di reddito, ma sono nella condizione di non dichiararlo resta del tutto invariata la libertà di evadere e di eludere. E, infatti, tra i contribuenti che dichiarano oltre 90.000 euro i lavoratori autonomi sono pochissimi, neppure uno su sette, e si tratta per lo più di notai e farmacisti, tra le poche categorie senza rilevanti possibilità di evasione.
Bisogna poi ricordare che sale anche di quattro punti percentuali l’Ires sulle sole imprese energetiche. Non se ne capisce il motivo: se realizzano eccessivi extraprofitti dovrebbe essere il regolatore di settore, l’Autorità per l’energia, a trasferirli ai consumatori tramite le tariffe, se sono ottenuti in segmenti regolati, mentre dovrebbe invece essere il governo a liberalizzare maggiormente se sono conseguiti in mercati non regolati. Non si comprende invece la ratio di un’aliquota differenziata rispetto a tutti gli altri settori. Viene inoltre accresciuto il prelievo fiscale sui rendimenti delle attività finanziarie emesse da soggetti privati, lasciando invariato il prelievo sui titoli di stato e creando in tal modo un cuneo tra i due (che sembra di difficile accettazione da parte dell’Unione europea).
In tutti i casi illustrati avviene esattamente il contrario di quanto prescritto da ogni manuale basico di Scienza delle finanze. Sul fronte delle tasse la manovra non fa invece nulla di quanto avrebbe dovuto fare: prelevare agli evasori per abbassare l’imposizione sui tartassati, iniziando a ridurre l’imposizione sul fattore lavoro e a considerare seriamente e adeguatamente i carichi familiari.
È proprio sul fronte fiscale la delusione maggiore della manovra: non solo le tasse salgono mentre era sempre stato promesso che sarebbero state ridotte, ma vengono accresciute in maniera iniqua, accentuando distorsioni e fonti di inefficienza economica. In barba alla definizione di equità orizzontale e verticale che Aristotele aveva dato nell’Etica Nicomachea, oltre un paio di millenni prima di Giulio Tremonti, spiegando che bisogna trattare (e quindi anche tassare) in maniera simile i casi simili e in maniera diversa, e proporzionale, i casi diversi, il ministro dell’Economia fa l’esatto opposto: i nostri risparmi sono tassati di più, dalla precedente manovra, se li mettiamo in un dossier titoli rispetto ad altre forme di gestione e, da questa nuova manovra, anche se li allochiamo in obbligazioni di emittenti private rispetto ai titoli che emette lui (rispettivamente il 20% del rendimento rispetto al 12,5%).
In aggiunta alla mancanza di equità e alle distorsioni introdotte con i provvedimenti bisogna considerare gli effetti negativi attesi sulla crescita economica dalla maggiore pressione fiscale: si può stimare circa un punto e mezzo di pressione fiscale aggiuntiva se rapportiamo il gettito atteso nel 2013 al Pil nominale, sommerso incluso, e quasi due punti se lo rapportiamo, più correttamente, al solo Pil emerso. Nella seconda ipotesi la pressione fiscale salirebbe sin quasi al 56%, battendo di diversi punti anche i paesi scandinavi a più alto peso dello Stato nell’economia e senza ovviamente che Tremonti sia in grado di garantirci un livello di welfare comparabile.
Sembrano tagli ma sono tasse (o minori servizi ai più deboli)
La nuova manovra opera tagli dello stesso ordine di grandezza ai trasferimenti alle Regioni e ai budget dei ministeri, circa 6 miliardi in ciascun caso nel 2012 che diventano circa 9 nel 2013, ma la spesa regionale complessiva è di un ordine di grandezza molto più piccolo rispetto alla spesa aggregata dei ministeri. A parità di sforzo assoluto, lo sforzo relativo risulta in conseguenza ben più penalizzante per le amministrazioni regionali.
I tagli ai trasferimenti a Regioni ed enti locali si trasformeranno in conseguenza in aumenti di entrate delle medesime attraverso addizionali, ticket e tariffe pubbliche (e in riduzioni di servizi, ove non siano possibili incrementi equivalenti). Per Tremonti le riduzioni di trasferimenti agli altri livelli di governo sono tagli, per i contribuenti saranno invece tasse (o minori servizi, caso che potrebbe anche risultare peggiore).
Inoltre, non si ha idea di come faranno i ministeri a contenere la spesa per far fronte ai tagli citati. La manovra ter introduce al riguardo una disposizione assurda: nel caso di non rispetto degli obiettivi di riduzione della spesa, i dipendenti delle amministrazioni pubbliche che sforano perderebbero il pagamento della tredicesima mensilità. Come, naturalmente, se fossero loro, anziché i loro alti dirigenti, a produrre lo sforamento del budget. Non era meglio scrivere che in tale circostanza i dirigenti responsabili perdono il posto?
Questa disposizione della manovra ter fa da pendant a un’altra, classificabile nella stessa categoria dell’assurdo: il pagamento con due anni di ritardo dell’indennità di buonuscita dei lavoratori pubblici per risparmiare sulla cassa. Si conferma in sostanza un modello di stato da sceriffo di Nottingham: paga quanto vuole quando vuole (ad esempio, i fornitori della Pa), ma pretende dai sudditi che diano subito quanto vuole lui anche se non è dovuto. Solve et repete (o solve et spera?)
I pochi provvedimenti buoni (che quasi certamente non si faranno)
Naturalmente nella manovra ter vi sono pure alcune cose buone, anche se poche. L’accorpamento dei Comuni piccoli, quelli al di sotto dei 1.000 abitanti, è un’ottima decisione, tuttavia occorrerà vedere come e quando sarà realizzata. Poteva essere più coraggiosa, prevedendo accorpamenti sino a raggiungere almeno 5.000 abitanti, che è la dimensione di scala efficiente minima.
L’abolizione delle Province minori, invece, appare una soluzione debole rispetto all’accorpamento delle loro funzioni e amministrazioni alle rispettive Regioni, provvedimento che avrebbe dovuto essere adottato quarant’anni fa, al momento stesso dell’istituzione delle Regioni, come allora sostenuto dai soli repubblicani di Ugo La Malfa. Invece decadono solo le Province sotto i 300.000 abitanti, salvo naturalmente eccezioni che è da aspettarsi aumenteranno notevolmente sino all’approvazione definitiva della manovra ter.
I provvedimenti su Comuni e Regioni sono gli unici di un certo interesse e infatti è assai poco probabile che arrivino davvero in porto. La manovra prevede che siano attuati solo alla conclusione degli attuali mandati dei relativi consigli e sulla base dei dati sugli abitanti che emergeranno dal censimento degli italiani che si dovrà fare quest’anno, neanche fossimo nella Palestina ai tempi di Gesù… Possibile che non basti l’anagrafe per sapere quanti abitanti vi sono? Forse non è attendibile? Meglio non dirlo ad alta voce ai mercati finanziari: se l’anagrafe non è attendibile, possono esserlo i nostri conti pubblici? Ma l’interpretazione più facile è che si tratti del classico provvedimento con l’elastico, che sarà certamente attuato ma solo al verificarsi di condizioni assolutamente improbabili e comunque discrezionali, in sostanza attorno alle calende greche. È un modo solo un po’ più elegante dell’“ammuina” in uso alla marineria borbonica, sperando che questo termine non abbia una traduzione inglese e che i mercati finanziari non siano pertanto in grado di comprenderlo…
Inutile sprecare parole su quanto (non) prevede la manovra in tema di liberalizzazioni e privatizzazioni, le due medicine più usate per accelerare la crescita e attenuare il peso del debito pubblico: nulla di rilevante e di immediatamente applicabile.
Quello che Tremonti non ha compreso
Le precedenti sono critiche specifiche alla manovra. Quella più consistente è tuttavia di metodo. Il problema più grosso è l’equivoco in cui sembra essere incorso Tremonti: egli intende il risanamento pubblico esclusivamente come risanamento del bilancio dello Stato (il pareggio, anticipato al 2013). Si tratta di un approccio sbagliato: non bisogna risanare il bilancio, bensì risanare il settore pubblico del quale il bilancio si limita a rappresentare i flussi finanziari. Risanare il settore pubblico richiede di modificarne profondamente perimetro, struttura, funzioni e modalità di funzionamento. Se lo si fa, attraverso riforme e non attraverso manovre, si ottiene come corollario anche un risanamento durevole del bilancio.
È invece possibile “risanare” solo il bilancio cercando, come fa Tremonti, di lasciare invariato il settore pubblico, ma in tal modo, tassando e tagliando dove capita, non si porta a casa un risanamento vero e durevole. È da ritenersi che i mercati finanziari ne siano perfettamente consapevoli e non sembra un caso che lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi sia cresciuto dopo ogni manovra di Tremonti, non prima, e lo abbia fatto contemporaneamente alla caduta della sua credibilità.
Fare serie riforme richiede tuttavia di scegliere un preciso modello di Stato: quello liberale classico, che aveva per obiettivo solo di garantire le regole della competizione tra gli attori e l’equità del gioco? O quello di tipo socialdemocratico che, senza rinunciare all’obiettivo precedente, voleva garantire che alla fine del gioco tutti avessero un risultato minimo, in grado di permettere la soddisfazione di bisogni fondamentali? Possiamo ancora permetterci il modello consociativo, nel quale il governo era chiamato a garantire i risultati economici di tutti, trasferendo i relativi costi alle generazioni future? Oppure il modello protezionista nel quale il governo protegge le corporazioni che lo votano facendo ricadere i costi sulle altre e/o, ancora, sulle generazioni future? È evidente che gli ultimi due modelli, tra i quali hanno oscillato entrambe le nostre due repubbliche, non possiamo più permetterceli, ma non è facendo manovre, e soprattutto facendole fare a Tremonti, che ne veniamo fuori.
Cambiare il manovratore fiscale?
È stupefacente come il ministero dell’Economia sia arrivato impreparato alla manovra estiva, che ha già dovuto cambiare due volte, dato che la sua necessità era ben nota ai tempi di quella dello scorso anno. E la stessa impreparazione si era verificata nella primavera del 2010, ai tempi della prima manovra. Il 27 maggio 2010, pochi giorni dopo il provvedimento dello scorso anno, scrivevamo su queste pagine: “È opinione comune che questa manovra non sarà sufficiente, ma dovrà avere un seguito tanto il prossimo anno quanto il seguente. È anche una previsione ragionevole: è vero che l’Italia ha realizzato un disavanzo in rapporto al Pil relativamente contenuto nel 2009, il 5,3%, […] ma risalire dal 5,3% sino a un valore compatibile con la stabilizzazione del debito in rapporto al Pil prima e con la sua convergenza al valore di Maastricht del 60% è particolarmente faticoso per l’Italia, in conseguenza della sua bassa crescita economica. […] Inoltre, se volessimo non solo fermare la crescita del rapporto debito/Pil, ma riavviare la sua discesa verso il 60% di Maastricht, come il commissario per gli Affari economici e finanziari Olli Rehn ci chiederà nei prossimi anni, dovremmo tenere il fabbisogno al 60% della variazione del Pil nominale, che nel 2010 corrisponde a 20 miliardi di euro. Ovviamente non dobbiamo farlo quest’anno, sarebbe inopportunamente recessivo, ma nei prossimi sì e la distanza tra gli 88 miliardi (di fabbisogno della Pa) del 2009 e i 20 miliardi è 68 miliardi, quasi il triplo della manovra attuale. Quindi dobbiamo aspettarci altre due manovre equivalenti nel prossimo futuro”. O una manovra unica, doppia della prima e spalmata su due anni, si può aggiungere col senno di poi.
Quello che è avvenuto nell’ultimo anno e mezzo dimostra che dal punto di vista della finanza pubblica la nave Italia appare condotta da un manovratore che si è dimostrato non in grado di portarla in un approdo sicuro, con notevole sconcerto dei passeggeri della nave e del suo stesso comandante. L’ipotesi più ovvia è che il comandante sostituisca il manovratore. In caso contrario, potrebbero essere i passeggeri a voler cambiare il comandante. In marina non si fa, ma in democrazia è la prassi.