La fiducia di ieri alla Camera ha archiviato la seconda manovra di finanza pubblica dell’estate? Basterà? Vi sono in realtà molti motivi per dubitarne. Il più consistente è il segnale d’allarme rappresentato dallo spread di rendimento dei titoli pubblici italiani rispetto ai titoli tedeschi di pari durata: in agosto si era ridotto per effetto soprattutto degli acquisti di titoli italiani da parte della Banca centrale europea, ma nell’ultima settimana è ritornato pesantemente a risalire sino a superare l’altro ieri la soglia dei 400 punti base per i titoli decennali (e dei 450 punti per i titoli quinquennali).



I mercati non sembrano pertanto credere alla bontà del progetto di risanamento dei conti pubblici. In che cosa esso non è credibile? Purtroppo non possiamo chiedere ai mercati una risposta a questa domanda, possiamo solo formulare delle ipotesi e ragionarci sopra:

1 – Il pareggio di bilancio, promesso nel 2013, potrebbe non essere raggiunto, perché i provvedimenti previsti nella doppia manovra estiva potrebbero non produrre gli effetti economici preventivati (in termini di maggiori entrate e di risparmi di spesa);



2 – I provvedimenti potrebbero generare effetti recessivi tali da non permettere il conseguimento delle entrate fiscali attese e quindi neppure il pareggio;

3 – Persino l’effettivo pareggio di bilancio potrebbe risultare un obiettivo insufficiente per rassicurare i mercati.

Iniziamo col valutare l’ultima ipotesi che è indubbiamente la più forte: possibile che neppure il raggiungimento del pareggio possa bastare? In realtà, esso da un lato è un obiettivo insufficiente e dall’altro un obiettivo eccessivo. Insufficiente: la doppia manovra estiva è un insieme di provvedimenti finalizzati a realizzare l’equilibrio nel 2013, ma non a garantirlo per un buon numero di anni a seguire come invece servirebbe per rimuovere stabilmente il rischio della nostra finanza pubblica. È come promettere di essere virtuosi una tantum, non in maniera stabile. È evidente che poi serviranno altri e consistenti provvedimenti nel tempo per conservare il pareggio, ammesso che lo si riesca a ottenere almeno una volta. Eccessivo: presi alla sprovvista dalla crisi di fiducia sul debito italiano, abbiamo promesso il pareggio di bilancio, prima per il 2014 e poi, dato che non bastava, per il 2013, impegnandoci a colmare in un solo biennio circa quattro punti di Pil di disavanzo pubblico.



Il pareggio di bilancio non è tuttavia richiesto dall’Europa in tempi così brevi a nessun altro Paese.

La ragione delle briglie più stringenti per l’Italia consiste nel fatto che il debito italiano in rapporto al Pil è una volta e mezza quello francese. Però lo era anche prima della recessione internazionale e lo era già all’inizio del decennio 2000, quando Tremonti arrivò per la prima volta a guidare il super ministero dell’Economia che unificava le Finanze col Tesoro.

Il Tremonti di allora era tuttavia quello della finanza creativa e dell’euro troppo stretto, non quello attuale del rigore, e non perseguì il pareggio di bilancio nonostante fosse a portata di mano. Nel 2000 il disavanzo era infatti sceso sotto l’1% del Pil, non vi erano recessioni in vista, e se si fosse tenuta costante la spesa pubblica primaria in rapporto al Pil il pareggio sarebbe stato automaticamente raggiunto grazie alla riduzione della spesa per interessi sul debito.

Perseguire il pareggio ora, nonostante non si sia definitivamente usciti dalla recessione, rischia di generare controproducenti effetti recessivi, a maggior ragione se non lo si fa attraverso riforme strutturali della spesa, bensì principalmente attraverso aumenti di tassazione. L’insieme delle manovre estive dovrebbe infatti migliorare a regime il saldo di bilancio di quasi 60 miliardi, corrispondenti a poco meno di quattro punti di Pil. Sommati alla seconda tranche di effetti della manovra del maggio 2010 dovrebbero portarci al fatidico pareggio.

Tuttavia, le analisi disponibili sono concordi nel sostenere che la manovra complessiva dell’estate sia composta per due terzi da maggiori tasse e solo per un terzo da tagli, dei quali quelli rivolti agli enti territoriali saranno quasi certamente compensati da incrementi nelle imposte locali.

Conteggiando solo gli incrementi palesi delle imposte (e lasciando fuori gli aumenti dei tributi locali che saranno attuati per compensare i tagli nei trasferimenti dal governo centrale), la pressione fiscale, calcolata come rapporto tra il gettito atteso e il Pil, aumenterebbe di due punti percentuali portandosi a ridosso del 45%, mentre le entrate totali del settore pubblico si avvicinerebbero alla metà esatta del Pil. Calcolata invece come rapporto tra il gettito atteso e il solo Pil emerso, quello che le tasse le paga e che il Centro Studi Confindustria stima nell’80% del Pil totale, essa aumenterebbe di due punti percentuali e mezzo passando dal 53% al 55,5%.

Nessun Paese al mondo ha una pressione fiscale così elevata, neppure i paesi scandinavi caratterizzati dai sistemi di welfare più estesi. A loro volta le entrate totali del settore pubblico rapportate al solo Pil emerso arriverebbero al 61% (sempre ipotizzando, irrealisticamente, che gli enti territoriali facciano fronte ai tagli dal governo centrale senza alcun incremento dei tributi locali).

Inevitabile che tali inasprimenti deprimano la crescita. Sarebbe stato in conseguenza corretto rivedere le stime di crescita e con esse anche le stime di gettito fiscale. Poiché non è stato fatto è da ritenersi che esse siano sovrastimate e, se sono sovrastimate, le entrate effettive non saranno sufficienti a portarci al pareggio di bilancio, vanificando gli obiettivi di Tremonti. Purtroppo la supermanovra estiva va nella direzione opposta a quella corretta della riduzione sia della spesa pubblica che della tassazione, con la prima più rapida della seconda per permettere anche la riduzione del disavanzo.

Il nostro Paese era all’ottavo posto per pressione fiscale tra i paesi dell’attuale Ue all’inizio del decennio 2000. Da allora tutti gli altri sette l’hanno ridotta, alcuni anche in misura consistente, e cinque di essi sono scesi sotto quella italiana (con le eccezioni di Danimarca e Svezia). Questo processo si è ovviamente accentuato nel periodo della recessione. L’Italia è invece l’unico Paese ad aver accresciuto la pressione fiscale, sia prima che durante la recessione (e ora, grazie alle ultime manovre, anche dopo). In sostanza, un settore pubblico che non riesce a ridursi di dimensioni e peso grava su un sistema economico già debole per la crisi e i suoi difetti strutturali e che rischia di indebolirsi ancora di più

Il rapporto tra Stato e mercato, tra economia pubblica ed economia privata, può essere ben rappresentato dalla figura dell’elefante indiano che porta su di sé un ampio baldacchino (immagine presa a prestito da una vecchia canzone anni ‘60 dello Zecchino d’Oro, l’“elefante indiano con tutto il baldacchino” che la bimba che voleva un gatto nero era disponibile a scambiare). Essa dà una buona rappresentazione del nostro affaticato Paese: al livello inferiore il sistema produttivo, l’elefante stanco, sfiancato dal peso crescente e insostenibile del sovrastante settore pubblico, un baldacchino sovraffollato non solo dai legittimi beneficiari del welfare state (i poveri e bisognosi), ma anche da una folta e non preparatissima classe politica che ama distribuire vantaggi e rendite e dai suoi clientes quali corporazioni, portatori organizzati di interessi particolari, imprenditori di stato, ecc.

Anche per i paesi stranieri l’immagine è adatta, tuttavia in relazione a essi possiamo osservare tre differenti casi: 1) baldacchini grandi su elefanti grandi; 2) baldacchini piccoli su elefanti grandi; 3) baldacchini piccoli su elefanti piccoli. Il caso residuale di baldacchini grandi su elefanti piccoli non sembra proponibile e infatti è il modello (in crisi) adottato dall’Italia.

Il primo caso (elefanti grandi e robusti che amano caricarsi baldacchini di grosse dimensioni) identifica i sistemi pubblici “pesanti” che poggiano tuttavia su mercati sviluppati, come nell’area franco-tedesca e scandinava (che ha anche mercati molto liberalizzati); il secondo caso identifica paesi caratterizzati da stati snelli su mercati (almeno prima della crisi) robusti (Stati Uniti, Uk e paesi sviluppati anglofoni in generale); il terzo caso paesi di taglia più ridotta (come nell’area est europea) che hanno preferito stati leggeri per non ostacolare il processo di crescita. L’Italia, infine, è l’unico caso tra i paesi maggiori di baldacchino grande su elefante piccolo, di settore pubblico con peso rilevante e crescente che grava su un sistema economico gravemente indebolito.

Non è però sempre stato così: negli anni della ricostruzione e del boom economico l’elefante si è accresciuto più rapidamente del baldacchino; dopo, tuttavia, il nostro Paese non ha adottato né il modello liberista (Stato snello su economia di mercato sviluppata), né quello socialdemocratico (Stato ampio su economia di mercato robusta) ed è l’unico ad aver creduto, erroneamente, che un settore pubblico di dimensioni tendenzialmente crescenti fosse praticabile indipendentemente dalle caratteristiche e dalle performance della sottostante economia di mercato.

I mercati internazionali si aspettano che noi proviamo a ridurre il peso del baldacchino e a rafforzare l’elefante; invece, la molteplice manovra estiva mette in sicurezza le dimensioni del baldacchino al posto della sua sostenibilità e chiede all’elefante di mettergli a disposizione tutte le risorse necessarie. Così facendo lo indebolisce tuttavia ulteriormente, segnala agli osservatori che si indebolirà ulteriormente e accresce la possibilità che esso possa crollare davvero sotto il sovrastante peso. Bisognerebbe invece andare nella direzione opposta, ad esempio iniziando a far scendere dal baldacchino la miriade di imprese pubbliche attraverso processi di privatizzazione.