Giunti alla quarta puntata di un ciclo di interventi sul tema delle privatizzazioni, ci occupiamo della critica più diffusa e più robusta usata contro l’opportunità di privatizzare imprese di servizi pubblici.

In sintesi, la critica è questa: i gestori privati di utilities hanno tutto l’interesse a concentrarsi sui segmenti profittevoli della loro offerta, siano essi tipologie di servizi e/o aree geografiche di fornitura degli stessi, e a dismettere o trascurare i servizi e le aree non profittevoli. Se invece l’impresa è pubblica, essa avrà il compito di garantire la cosiddetta universalità del servizio, il fatto che un servizio essenziale per cittadini e imprese sia reso disponibile a tutta la collettività e a prezzi accessibili, anche a chi abita in aree difficili e costose da servire.



I servizi per i quali si parla di universalità sono ben noti: l’energia elettrica, i servizi telefonici voce su rete fissa, le poste, i trasporti. In alcuni segmenti la disponibilità di soluzioni modali differenti aiuta a realizzare l’obiettivo: ad esempio, non è necessario far arrivare a tutti la rete gas dato che chi abita in aree rurali a bassa densità di abitazione può utilizzare il gas in bombole e in queste il servizio pubblico di bus è più che sufficiente senza necessità di far arrivare ovunque linee ferroviarie o costruire aeroporti. L’energia elettrica, la linea telefonica fissa e il postino devono invece arrivare.



La questione del servizio universale ne crea una duale: il costo od onere del servizio universale e il suo finanziamento. Dato che i consumatori “periferici” di questi servizi pubblici pagano di meno di quello che costa fornire loro il servizio, la domanda diviene: “Chi, e come, ci mette la differenza?”.

A questo punto bisogna precisare che sinché a fornire i servizi erano imprese monopolistiche a totale proprietà pubblica per “chi mette la differenza” la risposta era il bilancio pubblico (per poste, ferrovie e trasporto pubblico locale su gomma) e/o gli utenti con costi individuali di fornitura più bassi, in sostanza quelli delle aree urbane, ai quali venivano applicate tariffe superiori ai costi.



Sino a non molti anni fa le principali imprese nei settori considerati erano aziende autonome, strettamente incardinate nei ministeri di competenza dei quali il loro bilancio rappresentava un’appendice. Era stato Cavour a volere, già nel regno di Sardegna, le aziende pubbliche dentro i ministeri, poiché, avendo in mente un modello di guida politica forte e competente, riteneva che in tal modo la loro gestione sarebbe stata più efficacemente indirizzata al perseguimento di finalità collettive.

Cavour non aveva torto in astratto: anche ora nei paesi in cui vi è un modello politico forte ed efficiente e strutture burocratiche valide esistono imprese pubbliche efficienti ai cui governi proprietari non viene in mente di privatizzare. Un esempio è la Svezia, ove poste e ferrovie sono interamente pubbliche e talmente efficienti da non subire le conseguenze del fatto che i rispettivi mercati siano stati totalmente liberalizzati con notevole anticipo rispetto alle direttive dell’Unione europea. Sono a nostro avviso i paesi che non dispongono di tali modelli politici e burocratici a dover al più presto privatizzare (dopo aver anch’essi liberalizzato e non per finta).

Quando le grandi utilities nazionali stavano nei ministeri (parlo di poste e ferrovie) l’onere del servizio universale si riversava nel loro deficit gestionale e veniva sistematicamente e pressoché automaticamente ripianato, o almeno finanziato con prestiti, dal ministero di appartenenza. Ad esempio, le Poste, da quando incominciarono a chiudere i bilanci in passivo nella seconda metà degli anni ‘50 al 1994, anno di trasformazione in ente pubblico economico, accumularono perdite per un totale di circa 40 mila miliardi di lire, interamente ripianati da anticipazioni finanziarie dello Stato.

Erano tutti Osu (Oneri del servizio universale)? Ovviamente no. Bisogna dire che tanto gli Osu quanto le inefficienze di costo (quali quelle generate dall’eccesso di personale o dal pagare con grande generosità i fornitori) si traducono e si confondono nel disavanzo di bilancio delle imprese. Solo i primi vanno coperti con soldi pubblici, quindi bisogna separarli, almeno da un punto di vista contabile. Come fare? Un metodo consiste nello stimare costi unitari efficienti, ad esempio facendo riferimento a produttori più efficienti del monopolista nazionale. In diverse analisi di questo tipo da noi condotte un decennio fa o più per poste, trasporto locale e ferrovie veniva fuori una sorta di “regola aurea” dell’inefficienza: i costi necessari risultavano pari a circa due terzi dei costi effettivi. Questo implica che se poniamo uguali a 100 i costi necessari con gestioni efficienti, l’eccesso di costo dovuto a sprechi ammontava mediamente ad altri 50. Un esempio settoriale: nel 1998 un treno medio costava per km di percorso 48.000 lire in Italia, 34.000 nella media Ue, 25.000 circa in Gran Bretagna e Svezia, 22.000 in Finlandia e 18.000 in Danimarca.

Nel momento in cui i grandi monopoli nazionali sono stati trasformati, negli anni ‘90, in società per azioni, essi si sono ritrovati nella necessità di mettere a bilancio trasferimenti pubblici a titolo di servizio universale/servizio pubblico in modo tale da non avere disavanzi che sarebbero risultati problematici nell’ottica della continuità aziendale. Il lettore si aspetta che siano state date sovvenzioni solo per l’effettivo onere del servizio universale, stimando preventivamente e tenendo separati i costi efficienti?

Ovviamente ciò non è avvenuto e alle imprese in oggetto è stato riconosciuto di fatto, e in taluni casi persino di diritto (Poste), un onere del servizio universale corrispondente alla differenza tra i costi, dalle medesime definiti attraverso la gestione, e i ricavi da mercato. In sostanza era come riconoscere che l’inefficienza gestionale era realizzata nell’interesse della collettività, e quindi era corretto che avvenisse a sue spese.

Un metodo radicale per superare questi problemi consiste nel liberalizzare profondamente i relativi mercati, permettendo a 360 gradi la concorrenza sul mercato. Purtroppo è un metodo utile, ma non sufficiente: i concorrenti privati, ammesso che arrivino e non siano cacciati da arbitri pubblici costruiti ad arte per proteggere gli ex monopolisti dai rischi della concorrenza, serviranno solo i segmenti profittevoli, tralasciando le aree periferiche nelle quali i consumatori non sono disponibili a spendere in funzione degli elevati costi unitari di fornitura. Chi pensa allora a questi consumatori dalla localizzazione sfortunata?

Nessun problema, continuano a pensarci gli ex monopolisti pubblici a condizione che lo Stato continui a sborsare per questa finalità. Ovviamente se lo Stato continua a sborsare più del necessario essi avranno a disposizione margini per tener bassi i prezzi nell’area liberalizzata e far concorrenza sleale ai nuovi entranti, eventualmente per ricacciarli fuori. Un esempio numerico: per diversi anni i trasferimenti pubblici garantiti a diverso titolo al recapito postale sono stati dell’ordine di 650-700 milioni di euro, corrispondenti a circa 25-30 euro per famiglia italiana. Tradotti in francobolli diventano 40-50 francobolli all’anno da 60 centesimi che paghiamo senza accorgercene a titolo di Osu, molti di più di quelli che comperiamo effettivamente per affrancare le nostre lettere… Siamo sicuri che siano tutti vero Osu?

L’unico modo per superare questi rischi è di mettere all’asta il servizio universale e di assegnarlo all’operatore che chiede la sovvenzione minore. Se l’ex monopolista dichiara che un’area territoriale o un servizio è realizzabile solo in perdita ha tutto il diritto a rinunciare a svolgerlo. L’autorità competente avvierà una gara per assegnarlo per un certo numero di anni a chi chiede di meno. Questo è l’unico modo per garantire che la sovvenzione corrisponda a vero Osu e non alla copertura di inefficienze o al finanziamento di pratiche anticompetitive. È peraltro ovvio che il gestore della procedura di gara non possa anche essere il proprietario dell’impresa pubblica che compete per l’assegnazione, altrimenti l’esito sarà prevedibile e la procedura resa di fatto inutile. Per chiudere in maniera ottimale il cerchio bisognerebbe anche privatizzare le imprese pubbliche, non solo assegnare il servizio tramite gara. In via subordinata almeno far svolgere le gare a un regolatore indipendente.

Il sistema della gare è molto usato nel nord Europa, in particolare per il trasporto pubblico locale. Nel caso del trasporto ferroviario è divenuto elemento chiave sul quale si è basata la riforma e privatizzazione del trasporto ferroviario britannico alla metà degli anni ‘90 ed è successivamente stato adottato, dapprima parzialmente e successivamente come regola generale per tutto il trasporto sovvenzionato, in Svezia. Grazie al sistema di gare, oltre un terzo del trasporto regionale è ormai svolto in Svezia da operatori diversi dall’impresa nazionale, pubblica, di servizi ferroviari. Anche in Danimarca, Olanda e Germania il sistema delle gare si sta progressivamente diffondendo.

In Italia era stato introdotto, per il trasporto locale sia su gomma che su ferro, da una riforma del governo Prodi con due provvedimenti del periodo 1996-98, ma la sua attuazione è stata molto lenta, le gare svolte molto poche e tutte vinte con rarissime eccezioni dall’impresa uscente, peraltro di proprietà dell’ente che ha svolto le gare… Di fatto, grazie a continui rinvii normativi quella riforma non è mai stata attuata. Con quali costi? Ne parliamo nella prossima puntata confrontando il caso italiano con quello britannico.

 

(4 – continua)