Sarà dunque il big bang del libero mercato? Il pacchetto di liberalizzazioni in discussione al Consiglio dei ministri appare molto ampio, impegnativo e coraggioso, stando almeno alle numerose indiscrezioni che sono state pubblicate dai media. Ha il pregio di toccare molti settori, avviando vere e proprie riforme dei medesimi dopo molto anni di status quo nei quali le due differenti maggioranze che si sono alternate al governo non sono riuscite ad attuare le istanze liberali presenti in entrambe, bloccate dalle rispettive componenti pro intervento pubblico nel sistema economico.



Attendiamo naturalmente di leggere il provvedimento dopo l’approvazione prima di esprimere un giudizio dettagliato sui singoli provvedimenti e una valutazione di sintesi della sua qualità complessiva. Il rischio è sempre quello che provvedimenti ambiziosi possano essere smussati o finanche uscire dal pacchetto, sulla spinta delle azioni di lobby e gruppi di interesse decisi a difendere a oltranza vantaggi e privilegi acquisiti nel tempo e ora consolidati. Questo rischio dovrebbe risultare tuttavia molto più ridotto nel caso di un governo tecnico, che non ha l’obiettivo di candidarsi alle elezioni e non ha quindi bisogno del consenso, tutt’altro che disinteressato, dei numerosi centri d’interesse. È quindi il caso di incrociare le dita nell’attesa.



Nel frattempo si può tuttavia ragionare sulla “filosofia” delle liberalizzazioni, provando a rispondere a tre differenti quesiti:

1) Perché le liberalizzazioni, le quale ampliano le libertà degli attori sui mercati e in conseguenza i mercati stessi, sono vantaggiose e perché non sono volute e non sono comprese da importanti componenti sia della destra che della sinistra?

2) Che differenze vi sono, e quali differenti difficoltà, tra le liberalizzazioni che hanno per oggetto mercati nei quali il settore pubblico non è presente come produttore (servizi privati) e mercati in cui è invece l’attore principale (servizi pubblici)?



3) Si possono estendere le liberalizzazioni al settore pubblico in senso stretto? Si può in sostanza liberalizzare anche la Pubblica amministrazione?

La paura del mercato (e delle liberalizzazioni)

In Italia è molto difficile liberalizzare perché alla politica italiana, che forse non lo ha capito, il mercato di concorrenza non piace. Non piace alla destra predominante, che è corporativa, e non piace alla sinistra tradizionale, che è anticapitalista; la destra liberale, pro mercato, è minoritaria, mentre la sinistra riformista e pro mercato non riesce a difenderlo con sufficiente convinzione. Anche gli italiani non credono al mercato, essendo storicamente convinti che il loro benessere dipenda dallo Stato per intercessione della politica. Ma la politica non produce nessun Pil, si limita a ridistribuirlo, e pur dichiarando di volerlo fare dai più ricchi ai più poveri fa spesso l’esatto contrario, come dimostra il fatto, illustrato dai dati della Banca d’Italia, che il 10% più ricco delle famiglie possiede il 45% della ricchezza totale.

In Italia tanto i politici quanto i cittadini credono nella superiorità del pubblico rispetto al privato, ma tendono a non distinguere che pubblico e privato può essere riferito tanto alla proprietà degli strumenti che servono a generare benessere, ad esempio la proprietà delle imprese, quanto all’uso che ne viene fatto. La proprietà pubblica di una risorsa non garantisce che sarà indirizzata a finalità pubbliche anche il suo impiego: una cattiva politica riesce infatti con grande facilità a renderlo privato, indirizzandolo verso i propri elettori, il proprio territorio, il proprio partito, i propri amici o appropriandosene.

Quanto all’uso delle risorse private, ad esempio i mezzi di produzione degli imprenditori, è ovvio che i loro proprietari vogliano indirizzarlo a fini privati. Come Adam Smith ha ricordato più di due secoli fa, non è la benevolenza a motivare l’azione dei produttori, bensì il loro interesse, il desiderio di conseguire profitti: se sono in grado di produrre un bene a un costo di 10 euro aspireranno a venderlo a 12, 13 forse 14 euro, al prezzo che rende massimo il loro profitto, e se il mercato è un monopolio vi riusciranno. Se vi è concorrenza estesa dovranno invece accontentarsi di una remunerazione contenuta: pur desiderando vendere a 13 euro potranno farlo, ad esempio, a non più di 11, con un margine limitato rispetto ai costi.

Per ottenere profitti più elevati dovranno perseguire l’innovazione: offrire beni migliori e per i quali i consumatori sono disponibili a pagare di più, produrre con tecnologie migliori e a costi unitari inferiori. Ma anche in questi casi gli extraprofitti, se c’è concorrenza, saranno transitori: man mano che gli altri imprenditori imiteranno quelli innovativi, i vantaggi del progresso tecnologico saranno trasferiti ai consumatori sottoforma di prezzi meno elevati. Lo abbiamo sperimentato molto bene anche in anni recenti con l’elettronica di consumo e con le stesse automobili.

A questo punto si può chiudere il ragionamento: in un cattivo sistema politico l’aggettivo “pubblico” è la foglia di fico che maschera il perseguimento volontario di interessi privati attraverso l’impiego di mezzi collettivi; in un buon sistema economico l’aggettivo “privato” identifica invece il perseguimento involontario di interessi collettivi attraverso l’impiego di mezzi privati. L’Italia si caratterizza, purtroppo, per un insieme coerente di cattivo sistema economico e di cattivo sistema politico: la scarsa concorrenza in molti mercati favorisce gli interesse privati a danno degli interessi collettivi, mentre l’uso privatistico della politica fa esattamente lo stesso.

Un sistema economico sottoperformante, il peggiore per crescita tra tutti i paesi Ocse nell’ultimo quindicennio, si è accompagnato a una sfera politica ridondante nella quale troppi soggetti di sicura incapacità e di incerta moralità, trasversalmente presenti nei diversi schieramenti (come la distribuzione degli stupidi nel famoso “Allegro ma non troppo” di Carlo Cipolla), sono stati lasciati liberi di perseguire obiettivi privatistici usando l’eccessiva quota di reddito nazionale che è intermediata dal bilancio pubblico.

Una politica come questa è necessariamente nemica del mercato, essendo interessata a massimizzare le risorse intermediate dalla sfera pubblica e a gestirle attraverso scelte discrezionali. È la politica che non si limita a svolgere la funzione dell’arbitro, a vigilare affinché le gare svolte nello stadio dell’economia siano corrette e siano vinte chi ha più qualità, ma sceglie di assegnare le medaglie direttamente a chi preferisce, senza neppure la parvenza dello svolgimento di una competizione. I meritevoli secondo il mercato, secondo l’esito delle gare, sono così sostituiti dai “meritevoli” per grazia ricevuta.

In questo sistema nessun atleta perderà più tempo ad allenarsi per vincere, ma cercherà di contrattare direttamente con gli arbitri l’assegnazione delle medaglie. In tal modo non si faranno più gare, non si realizzeranno più record e neppure si riusciranno più a ripetere performance che un tempo risultavano possibili. Quel sistema, se non riesce a mutare rapidamente, è destinato a un declino senza ritorno. Di fronte al rischio serio del declino riuscirà invece a cambiare rapidamente, ad esempio attraverso un corposo provvedimento di liberalizzazioni? Ce lo auguriamo vivamente.

Liberalizzare gli altri (i servizi privati) e liberalizzazione se stesso (i servizi pubblici)

Non si può non notare come i media abbiano dato ampio risalto a tutti i provvedimenti contenuti nelle bozze del governo che liberalizzano servizi privati dell’economia quali i taxi, le professioni liberali, la distribuzione dei farmaci, la distribuzione dei carburanti e, sembrerebbe con minor enfasi mercatista da parte del governo, anche i servizi bancari e assicurativi. Tutti provvedimenti condivisibili, anche se non esauriscono i provvedimenti che potevano essere utilmente adottati.

Però non bisogna dimenticare che, pur dovendo affrontare lobby potenti e contrariate, si tratta di mercati sui quali il settore pubblico non è mai presente come produttore. E i casi nei quali il monopolista è lo Stato stesso (come poste, ferrovie, rete gas) oppure lo sono gli enti territoriali (acqua, rifiuti, trasporto locale)? Qui le notizie, e probabilmente anche i provvedimenti in corso di preparazione nelle cucine di Palazzo Chigi e di via Veneto, sono molto più corte e meno prodighe di particolari. Lo Stato che sembra fermamente intenzionato a liberalizzare gli altri riuscirà a liberalizzare anche se stesso? Questa è una cartina al tornasole per le prospettive future del governo.

Certo diverse cose importanti sono già state fatte col provvedimento di dicembre o sono annunciate ora:

1) L’abolizione di finte autorità finto-indipendenti per i servizi pubblici, quale l’organismo per i servizi idrici e l’organismo per i servizi postali, che travestiva da autorità di regolazione la preesistente e latitante direzione ministeriale competente per il settore. Esse sono state opportunamente accorpate all’autorità per l’energia quella sui servizi idrici e all’autorità per le comunicazioni quella sui servizi postali.

2) L’attivazione di una regolazione indipendente anche per il complesso e centrale settore dei trasporti.

E per quanto riguarda poste e ferrovie? E trasporto pubblico locale e rifiuti? Riusciamo finalmente a liberalizzare anche questi? Si tratta certamente di liberalizzazioni difficili, dato che esse implicano anche una successiva fase di privatizzazione (Alitalia docet). Per farle bisogna superare l’ostacolo fondamentale della contrarietà dei loro azionisti di riferimento di fatto che sono le organizzazioni sindacali. Sinora in Italia i pochi che ci hanno provato hanno fallito (il governo Prodi del 1996 col trasporto pubblico locale e col tentativo di scissione ferroviaria tra rete e servizi di cui fui l’ispiratore; nessuno nel caso delle poste e dei rifiuti).

La direttiva del presidente del consiglio ”Linee guida per il risanamento delle Ferrovie dello Stato”, emanata il 31 gennaio 1997, esattamente 14 anni fa (quasi tre lustri), prevedeva una cosa fondamentale molto semplice (più molte altre importanti ma complementari), quella di dividere il monopolista Fs in quattro aziende separate: il gestore dell’infrastruttura, il servizio passeggeri a lunga distanza, il servizio di trasporto regionale, il trasporto delle merci. La scissione in quattro realtà distinte era condizione necessaria per due passaggi successivi che allora non venivano esplicitati: (i) l’effettiva liberalizzazione del mercato con l’apertura della rete alla concorrenza; (ii) la possibile privatizzazione dei segmenti che avrebbero dovuto reggersi sul mercato senza oneri per il contribuente, cioè il trasporto passeggeri sulle lunghe distanze e le merci.

La rivoluzione delle ferrovie del 1997 durò solo dodici giorni dato che, dopo un assedio fisico dei ferrovieri all’ufficio del Ministro dei trasporti (favorito dal condividere, Ministero e azienda Fs, lo stesso palazzo) e uno sciopero generale dei ferrovieri che fermò l’Italia, il Ministro sottoscrisse con le organizzazioni sindacali un accordo il 12 febbraio nel quale si impegnava (verso il vero azionista di riferimento dell’azienda) a non dar seguito agli aspetti più innovativi e rilevanti della direttiva. E qui finisce la storia, dato che da allora le ferrovie sono rimaste, industrialmente parlando, praticamente immobili.

Infatti, i passeggeri di oggi, nonostante l’importante traino dell’alta velocità, sono meno di allora mentre nell’Ue-15 sono aumentati dalla metà degli anni ‘90 a oggi del 30%, in Svezia del 60% e in Gran Bretagna del 90%. E cosa hanno fatto Gran Bretagna e Svezia per ottenere tali risultati? Sono sicuro che il lettore è in grado di indovinarlo: hanno liberalizzato il mercato e separato la rete dai treni: nel 1988 in Svezia e nel 1994 in Gran Bretagna (mentre noi stiamo ancora ragionando se sia opportuno farlo e nel frattempo non lo facciamo).

Nei giorni della direttiva del 1997 i sindacati difendevano la loro posizione adducendo principalmente ragioni di difesa dell’occupazione. Ad esempio, il responsabile Cisl del comparto ferrovieri così rispondeva a una domanda de Il Corriere della Sera il 2 febbraio 1997: “Quanti sono i posti di lavoro in pericolo?” “Trenta-trentacinquemila …”. Al 31 dicembre 1996 i dipendenti Fs erano 126 mila e secondo le previsioni del sindacalista Cisl con l’applicazione della pericolosa direttiva si sarebbe corso il rischio di una loro riduzione a 91-96 mila. Grazie invece alla difesa sindacale dell’occupazione nelle ferrovie che ha portato all’affossamento della direttiva ferroviaria i dipendenti di oggi del gruppo Fs sono in numero di 80 mila, esattamente 56 mila in meno rispetto al 1997. E quanti occupati furono estromessi con la pericolosa riforma di stampo thatcheriano che “distrusse” le ferrovie britanniche, come ha scritto Mucchetti su Il Corriere della Sera? Esattamente 5 (cinque) mila, essendo scesi i dipendenti del comparto ferroviario britannico dai 117 mila pre riforma del 1994 a 112 mila dieci anni dopo. Evidentemente per i nostri sindacalisti (e per i nostri responsabili dei trasporti) 5 mila è un numero maggiore di 56 mila.

 

Si può liberalizzare anche la Pubblica amministrazione?

Liberalizzare significa sostanzialmente eliminare le barriere normative e di fatto che impediscono od ostacolano l’ingresso sul mercato di nuovi operatori e limitano in conseguenza la concorrenza. Nella Pa. non possono tuttavia entrare nuovi attori, che sarebbero privati, e in conseguenza la Pa sembrerebbe a un primo esame non liberalizzabile. Ma in realtà basta mettere in concorrenza gli attori pubblici esistenti, sottraendoli alla protezione finanziaria dello Stato-holding (ma sarebbe meglio dire dello Stato-ombrello), per ottenere risultati del tutto simili a quelli che la concorrenza produce sui mercati. Per dimostrarlo partiamo ricordando quali sono le funzioni che lo stato svolge attraverso lo strumento della Pa. Esse sono essenzialmente tre:

1) Una funzione regolativa, finalizzata alla protezione delle libertà individuali, alla regolazione dei comportamenti economici (esercizio dei diritti di proprietà, tutela della concorrenza, regolazione dei mercati non concorrenziali, ecc.) e alla definizione dei carichi impositivi e dei diritti a prestazioni nei sistemi di welfare;

2) Una funzione erogativa, attraverso la quale una serie di servizi essenziali o prestazioni in denaro sono resi disponibili ai cittadini sulla base di regole normative e non attraverso meccanismi di mercato;

3) Una funzione produttiva, richiesta dalle due precedenti poiché: (a) la prima funzione richiede l’attivazione di un servizio legislativo, giudiziario, di sicurezza e di difesa del servizio fiscale; (b) la seconda funzione richiede i servizi che attuano il sistema di welfare; (c) la seconda funzione sembra giustificare anche talune produzioni pubbliche (ad esempio, nell’area dei beni pubblici), ma, nella tradizione europea e a differenza di quella statunitense, è stato storicamente interpretata in maniera molto estensiva sino a giustificare il modello dello Stato imprenditore che possiede direttamente imprese nell’area dei servizi pubblici a rete (utilities), della finanza (banche e assicurazioni), dell’industria energetica (l’esempio italiano di Eni ed Enel) e persino dell’industria manifatturiera (l’esempio italiano del disciolto Iri e degli altri enti minori delle partecipazioni statali).

Le tre funzioni appena ricordate sono esercitate attraverso organizzazioni pubbliche che si comportano in maniera inefficiente se realizzano livelli produttivi quantitativamente e/o qualitativamente inferiori a quelli possibili sulla base dei fattori produttivi, lavoro e capitale, effettivamente impiegati. L’inefficienza produttiva implica un eccesso di costi di produzione, unitari e totali, e un fabbisogno finanziario più elevato del necessario per coprirli. È importante evidenziare come le organizzazioni pubbliche finalizzate alla funzione regolativa possano essere piuttosto snelle; in maniera per molti aspetti simile anche le organizzazioni pubbliche finalizzate a compiti puramente erogativi assumono solitamente dimensioni non eccessivamente estese e i loro costi di funzionamento sono in genere piuttosto contenuti rispetto alle somme amministrate (ad esempio, gli enti previdenziali).

La tipologia di organizzazioni col più elevato rischio inefficienza è data, per ragioni dimensionali e per il carattere labour intensive delle produzioni, dalle organizzazioni specializzate nella funzione produttiva, impegnate prioritariamente nella produzione di servizi destinati a essere erogati in genere secondo regole non di mercato. Si può sostenere, in maniera sintetica, che l’inefficienza sia funzione crescente delle dimensioni delle organizzazioni rappresentate in termini di personale. L’esercizio della funzione erogativa di beni o servizi in natura non richiede d’altra parte necessariamente la loro produzione diretta all’interno del settore pubblico. Un esempio è dati dai farmaci a carico del Ssn: sono prodotti da case farmaceutiche private e distribuiti da farmacie anch’esse appartenenti al settore privato dell’economia; il settore pubblico si occupa della provision semplicemente grazie al fatto che si fa carico del loro costo al posto del consumatore.

Una parte anche consistente dei beni e servizi oggetto di provision pubblica può essere acquisita dall’organismo pubblico competente attraverso rapporti contrattuali tanto col settore privato dell’economia quanto con enti pubblici diversi dal soggetto che li eroga e quindi fornita agli utenti; in alternativa può essere acquisita direttamente dai beneficiari presso i produttori, privati e/o pubblici, tramite vouchers e con oneri a carico dall’organismo pubblico competente. La fase della production non è quasi mai indispensabile alla fase della provision e il settore pubblico, se con questa soluzione è in grado di ottenere maggiore efficienza, dovrebbe senz’altro rinunciarvi in favore di forme di esternalizzazione (contracting out) da realizzarsi non solo e non necessariamente verso il settore privato dell’economia.

Vi sono alcune ragioni principali che possono essere addotte per spiegare le performance non efficienti delle organizzazioni pubbliche che hanno compiti produttivi. In ordine crescente d’importanza sono identificabili nelle tre seguenti:

1) Assenza di concorrenza;

2) “Fallimento” derivante dall’insufficiente ruolo della dirigenza, ai vertici delle organizzazioni;

3) Cattura dell’organizzazione da parte del personale politico con conseguente distrazione di risorse dai compiti istituzionali in favore di impieghi discrezionali da parte della classe politica, in primo luogo al fine di elargire benefici privati al proprio elettorato.

Per ragioni di spazio affronto solo il primo punto. Per quanto riguarda il ruolo della concorrenza è sufficiente ricordare cosa essa è in grado di fare in relazione ai mercati. Il mercato concorrenziale, infatti, è principalmente un meccanismo di selezione dei comportamenti economici, valutati sotto il profilo dell’efficienza, in grado di proteggere i consumatori e in definitiva la collettività dagli effetti di scelte errate dei produttori. Come efficacemente sostenuto da Albert Hirschman (in “Lealtà, defezione, protesta”), “il cliente che, essendo insoddisfatto del prodotto di un’azienda si rivolge a quello di un’altra, usa il mercato per salvaguardare il proprio benessere o migliorare la propria condizione, e contemporaneamente attiva alcune forze di mercato in grado di rimettere in sesto l’azienda il cui rendimento relativo è diminuito”. E ancora: “Nel modello tradizionale di economia concorrenziale, in realtà, la guarigione (dell’impresa in crisi) non è indispensabile. Se un’azienda viene sconfitta dalla concorrenza, la sua quota di mercato viene assorbita e i suoi fattori produttivi vengono rilevati da altre aziende, comprese quelle nuove; alla fine, le risorse globali possono essere effettivamente allocate meglio”.

Nel settore pubblico, invece, l’assenza di concorrenza impedisce il processo di selezione dei comportamenti tipici del mercato e vanifica la protezione da scelte errate dei decisori; tuttavia, se una concorrenza effettiva non appare realizzabile in relazione alle organizzazioni pubbliche che producono atti amministrativi, essa può invece essere efficacemente introdotta in relazione a servizi non di mercato, ma a domanda individuale (quali istruzione e sanità) se si separa la produzione dalla sua erogazione pubblica e gratuita ai beneficiari. L’ente pubblico responsabile dell’erogazione può mettere in competizione diversi produttori per ottenere i servizi da erogare alle migliori condizioni possibili di costo data la qualità desiderata.

Liberalizzare la Pa, almeno quella che produce servizi pubblici non di mercato, non è quindi solo possibile, attraverso l’introduzione della concorrenza e del sistema dei prezzi, ma molto utile per le casse pubbliche e il benessere dei cittadini. Ci auguriamo voglia essere un prossimo capitolo di significative riforme del governo.